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cora le femmine ed i piccioli fanciulli, in quanto la na tura permette, si sforzino pervenire; e volendo alquanto lucidare la discrezione di coloro, i quali come ciechi passeggiano per le piazze, e pensano spesse volte, le cose posteriori essere anteriori; con lo aiuto, che Dio ci manda dal cielo, ci sforzeremo di dar giovamento al parlare delle genti volgari; nè solamente l'acqua del nostro ingegno a sì fatta bevanda pigliaremo; ma ancora pigliando, ovvero compilando le cose migliori dagli altri, quelle con le nostre mescoleremo, acciò che d'indi possiamo dar bere uno dolcissimo idromele. Ora perciò che ciascuna dottrina deve non provare, ma aprire il suo soggetto, acciò si sappia, che cosa sia quella, nella quale essa dimora; dico che I parlar volgare chiamo quello, nel quale i fanciulli sono assuefatti dagli assistenti, quando primieramente cominciano a distinguere le voci; ovvero, come più brevemente si può dire, il volgar parlare affermo essere quello, il quale senz'altra regola, imitando la balia, s'apprende. Ecci ancora un altro secondo parlare, il quale 1 Romani chiamano grammatica; e questo secondario hanno parimente i Greci, ed altri, ma non tutti; perciò che pochi all'abito di esso pervengono; conciossiachè se non per spazio di tempo, ed assiduità di studio si ponno prendere le regole, e la dottrina di lui. Di questi dui parlari adunque il volgare è più nobile, sì perchè fu il primo che fosse dall'umana generazione usato, sì eziandio perchè di esso tutto 'l mondo ragiona ('); avvegna che in diversi vocaboli e diverse prolazioni diviso; sì ancora per essere naturale a noi, essendo quell'altro artificiale: e di questo più nobile è la nostra intenzione di trattare.

DELLO ECCELLENTE PARLAR VOLGARE, IL QUALE È COMUNE A TUTTI GLI ITALIANI.

Dapoi che avemo cercato per tutti i salti e pascoli d'ltalia, e non avemo quella pantera, che cerchiamo, trovato; per potere essa meglio trovare, con più ragione investighiamola; acciò che quella, che in ogni luogo si sente, e in ogni parte appare, con sollecito studio nelle nostre reti totalmente inviluppiamo. Ripigliando adunque i nostri

(') ...tum quia totus orbis ipsâ perfruitur».

istrumenti da cacciare, dicemo, che in ogni generazione di cose è di bisogno, che una ve ne sia, con la quale tutte le cose di quel medesimo genere si abbiano a comparare, e ponderare; e quindi la misura di tutte le altre pigliare. Come nel numero tutte le cose si hanno a misurare con la unità; e diconsi più e meno, secondo che da essa unità sono più lontane, o più ad essa propinque: e così nei colori, tutti si hanno a misurare col bianco; e diconsi più e meno visibili, secondo che a lui più vicini, e da lui più distanti si sono. E siccome di questi, che mostrano quantità e qualità diciamo, parimente di ciascuno dei predicamenti, e della sustanzia pensiamo potersi dire; cioè che ogni cosa si può misurare in quel genere con quella cosa, che è in esso genere simplicissima. Laonde nelle nostre azioni, in quantunque specie si dividano, si bisogna ritrovare questo segno, col quale esse si abbiano a misurare perciocchè in quello che facciamo come semplicemente uomini, avemo la virtù, la quale generalmente intendemo; perciocchè secondo essa giudichiamo l'uomo buono, e cattivo: in quello poi che facciamo, come uomini cittadini avemo la legge, secondo la quale si dice buono, e cattivo cittadino: ma in quello, che come uomini italiani facciamo, avemo certi segni simplicissimi, cioè dei costumi e degli abiti e del parlare, coi quali le azioni italiane si hanno a misurare, e ponderare. Adunque quelle delle azioni italiane sono nobilissime, che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma sono comuni in tutte; tra le quali ora si può discernere, il volgare, che di sopra cercavamo, essere quello che in ciascuna città appare, e che in niuna riposa. Può ben più in una, che in un'altra apparere, come fa la simplicissima delle sustanzie, che è Dio; il quale più appare nell'uomo, che nelle bestie, e che nelle piante; e più in queste, che nelle minere; ed in esse più, che nel foco; e più nel foco, che nella terra. E la simplicissima quantità, che è uno, più appare nel numero disparo, che nel paro; ed il simplicissimo colore, che è il bianco, più appare nel citrino, che nel verde. Adunque ritrovato quello, che cercavamo, dicemo, che 'l volgare Illustre, Cardinale, Aulico e Cortigiano in Italia è quello, il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna; col quale i volgari di tutte le città d'Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare.

PERCHÈ SI CHIAMI QUESTO PARLARE ILLUSTRE.

Perchè adunque, a questo ritrovato parlare aggiungendo Illustre, Cardinale, Aulico e Cortigiano, così lo chiamiamo, al presente diremo; per il che più chiaramente faremo parere quello che esso è. Primamente adunque dimostriamo quello che intendiamo di fare, quando vi aggiungiamo Illustre; e perchè Illustre il dimandiamo. Per questo noi dicemo illustre, che illuminante ed illuminato risplende. Ed a questo modo nominiamo gli uomini illustri, ovvero perchè illuminati di potenzia sogliono con giustizia e carità gli altri illuminare, ovvero perchè eccellentemente ammaestrati, eccellentemente ammaestrano, come fe' Seneca e Numa Pompilio. Ed il volgare, di cui parliamo, il qual è innalzato di magisterio e di potenzia, innalza i suoi di onore e di gloria. E che 'l sia da magisterio innalzato, si vede, essendo egli di tanti rozzi vocaboli italiani, di tante perplesse costruzioni, di tante difettive pronunzie, di tanti contadineschi accenti, così egregio, così districato, così perfetto e così civile ridotto, come Cino da Pistoia e l'Amico suo () nelle loro Canzoni dimostrano. Che sia poi esaltato di potenzia, appare e qual cosa è di maggior potenzia, che quella che può i cuori degli uomini voltare? in modo. che faccia colui, che non vuole, volere, e colui, che vuole, non volere; come ha fatto questo, e fa. Che egli poscia innalzi di onore chi lo possiede, è in pronto. Non sogliono i domestici suoi vincere di fama i re, i marchesi, i conti, e tutti gli altri grandi? Certo questo non ha bisogno di pruova. Quanto egli faccia poi i suoi famigliari gloriosi, noi stessi l'abbiamo conosciuto, i quali per la dolcezza di questa gloria ponemo dopo le spalle il nostro esilio. Adunque meritamente devemo esso chiamare Illustre.

(1) Dante stesso.

PERCHÈ QUESTO PARLARE SI CHIAMI CARDINALE, AULICO E CORTIGIANO.

Non senza ragione esso volgare illustre orniamo di seconda giunta, cioè che Cardinale li chiamiamo: perciò che siccome tutto l'uscio seguita il cardine, talchè dove il càrdine si volta, ancor esso (o entro, o fuori, che '1 si pieghi) si volge; così tutta la moltitudine dei volgari delle città si volge e rivolge, si muove, e cessa, secondochè fa questo; il quale veramente appare esser padre di famiglia. Non cava egli ogni giorno i spinosi arboscelli della italica selva? non pianta egli ogni giorno semente, o inserisce piante? Che fanno altro gli agricoli di lei, se non che lievano, e pongono, come si è detto? Il perchè merita certamente essere di tanto vocabolo ornato. Perchè poi il nominiamo Aulico, questa è la cagione; perciò che se noi Italiani avessemo Aula, questo sarebbe palatino ('). Se l'Aula poi è comune casa di tutto il regno, e sacra gubernatrice di tutte le parti di esso, convenevole cosa è, che ciò che si truova esser tale, che sia comune a tutti, e proprio di niuno, in essa conversi, ed abiti; nè alcuna altra abitazione è degna di tanto abitatore. Questo veramente ci pare esser quel volgare, del quale noi parliamo; e quinci avviene, che quelli che conversano in tutte le Corti regali, parlano sempre con volgare illustre. E quindi ancora è intervenuto, che il nostro volgare, come forestiero, va peregrinando, ed albergando negli umili asili, non avendo noi Aula. Meritamente ancora si dee chiamare Cortigiano, perciò che la cortigiania niente altro è, che una pesatura delle cose, che si hanno a fare: e conciossiachè la statera di questa pesatura solamente nelle eccellentissime Corti esser soglia, quinci avviene, che tutto quello che nelle azioni nostre è ben pesato, si chiama cortigiano. Laonde essendo questo nella eccellentissima Corte d'Italia pesato, merita esser detto cortigiano. Ma a dire, che 'l sia nella eccellentissima Corte d'Italia pesato, pare fabuloso, essendo noi privi di corte : alla qual cosa facilmente si risponde. Perciò che avegnachè la Corte (secondo che unica si piglia, come quella

(1) Cioè, sarebbe il parlare di Corte, dei cortigiani.

del Re di Alemagna) in Italia non sia, le membra sue però non ci mancano: e come le membra di quella da un Principe si uniscono; così le membra di questa dal grazioso lume della ragione sono unite. E però sarebbe falso a dire, noi Italiani mancar di Corte, quantunque manchiamo di Principe; perciò che avemo Corte, avegnachè la sia corporalmente dispersa.

CHE I VOLGARI ITALICI IN UNO SI RIDUCANO E QUELLO SI CHIAMI ITALIANO.

Questo volgare adunque, che essere illustre, cardinale, aulico e cortigiano avemo dimostrato, dicemo esser quello, che si chiama volgare italiano. Perciò che sì come si può trovare un volgare, che è proprio di Cremona, così se ne può trovare un volgare, che è proprio di Lombardia, ed un altro che è proprio di tutta la sinistra parte d'Italia. E come tutti questi si ponno trovare, così parimenti si può trovare quello, che è di tutta Italia. E sì come quello si chiama Cremonese, e quell'altro Lombardo, e quell'altro di mezza Italia, così questo, che è di tutta Italia, si chiama volgare Italiano. Questo veramente hanno usato gl'illustri Dottori, che in Italia hanno fatto poemi in lingua volgare; cioè i Siciliani, i Pugliesi, i Toscani, i Romagnuoli, i Lombardi, e quelli della Marca Trivigiana, e della Marca d'Ancona. E conciosiachè la nostra intenzione (come avemo nel principio dell'opera promesso) sia d'insegnare la dottrina della Eloquenzia Volgare, però da esso volgare italiano, come da eccellentissimo cominciando, tratteremo nei seguenti libri chi siano quelli, che pensiamo degni di usare esso, e perchè, e a che modo, e dove, e quando, ed a chi sia esso da drizzare.

DELL' ALLEGORIA. (1)

Si vuole sapere, che le scritture si possono intendere e debbonsi sponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, e questo è quello che non si distende più oltre che la lettera propia, siccome è la narrazione propia di quella cosa che tu tratti: che per certo

(1) Dal Convivio.

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