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disse l'Ariosto di Ruggero ferito, e non lo mise a tavola a bere, nè a mangiar cipolla.

Giove, per ricrear Giunone, sua moglie, con ragionamenti di gusto e incitarla a giacersi più volentieri con esso lui, le fa una rammemorazione di tutti i suoi innamoramenti e di tutti i suoi adulterî, al che non dovette considerar Plutarco, quando egli prese a sostenere che Omero era stato grandissimo retore, non essendo alla moglie cosa alcuna più rincrescevole che gli innamoramenti e gli adulterî del suo marito.

Segue la fuga d'Ettore senza proposito, contra il decoro di quell'uomo fortissimo. E a Patroclo, con una miserabil seccaggine, sono finte cadere tutte le armi di dosso; il che mostra quanta poca invenzione avesse il poeta, non trovando maniera di far uccidere quell'uomo con le armi d'Achille intorno, bastando solamente che l'elmo gli facesse cadere.

Nel diciassettesimo, è quella vaga comparazione dei Greci e Troiani, che tiravano in qua e in là il corpo di Patroclo, ai conciatori di cuoi, che tirino una pelle di bue per allargarla :

Quem tunc sibi quisque studebat

Optimus adserere, ac si quis distendere pellem
Taurinam iubeat crassam pinguedine multa
Multorum manibus, terrae desudet omasum.

I cavalli d'Achille piangono e sospirano la morte di Patroclo, senza che il poeta li additi per meraviglia :

Pavimento inclinantes capita lachrymae ipsis
calidae per genas fluebant gementibus...

E Menelao comanda ad Antimaco, figliuolo di Nestore. ch'era suo eguale per nobiltà e per valore, che vada a dar la nuova ad Achille che Patroclo è morto. Dal che si vede quanto il poeta fosse poco versato nelle buone creanze e nei costumi dei nobili.

.... Nel diciannovesimo, Achille si raccomanda alla Dea Teti, sua madre, perchè il cadavere di Patroclo non gli sia sconcacato dalle mosche; ed essa l'assicura dicendo:

Fili, non haec in mentibus sint curae.

Huic quidem ego tentabo expellere silvestres generationes Muscas, quae viros bello necatos edunt.

Però, se Omero scrisse così fatte cose per burla e per far ridere, va bene; ma se egli seriamente te le scrisse (sia detto con quel riguardo dell'antichità che si deve) è un gran pazzo chi ha per saggia l'invenzione, d'occupare una persona divina in cacciar le mosche da un corpo morto che, senza tante storie, si poteva coprire con un lenzuolo.

Nel ventesimo, il valoroso Enea, affrontatosi con Achille, si vanta di avere un'altra volta combattuto con lui, e che Giove gli diede buone gambe, sicchè salvò la pelle. Così si vantava anche Demostene, quando fuggì, provando che egli era meglio fuggire che lasciarsi ammazzare, con quella bella sentenza: Qui fugit, denuo pugnabit. Ma non che l'approvasse il Tasso dicendo:

Combatta qui chi di campar desia,

La via d'onor della salute è via.

Indi si mette Enea a raccontare tutta la sua stirpe ad Achille e, quell'uomo adirato e addolorato della morte dell'amico e di natura impaziente, nel fervore della battaglia, sta attento in ascoltare una diceria tediosa che dura un'ora, come se a lui importasse il sapere quelle ciance, o che Enea non fosse uomo noto, e Achille non dovesse avere cognizione di lui in tanti anni che guerreg giava contra i Troiani.

Non molto dappoi Achille ferisce, con la lancia, Otritide nella testa, e gliela divide in due parti:

Medium cui a vertice findens

Dissecuit facili flictu caput acer Achilles,

talchè bisogna dire che il ferro di quella lancia fosse largo, per lo meno, come quello d'una vanga.

Nel medesimo libro, Ettore, azzuffatosi con Achille, contro il decoro d'uomo magnanimo e forte, si confessa inferiore a lui:

Scio autem quod tu quidem fortis, ego autem te multo linferior etc.

e, lanciatogli un dardo, non ostante le armi impenetrabili avute di fresco da Pallade, gliel ripara; di maniera che la bravura d'Achille dipende dal favore di quella Dea. Veggasi nell'Ariosto la magnanimità di Ruggero, il quale, perchè la virtù sua non riceva alcun pregiudizio dagli aiuti esteriori, gitta lo scudo d'Atlante nel pozzo, arme di tanto momento.

.... Nel ventiduesimo, Achille minaccia Apollo, suo Dio, e l'ingiuria di parole contra il decoro d'uomo ben

costumato.

Ettore, dipinto altrove sì coraggioso, contro le preghiere del padre e della madre, vuol combattere con Achille e, subito che lo vede, si mette a fuggire; e Achille, descritto per tanto eccellente nel corso, che Omero no nomina mai senza l'attributo di veloce di piede, lo seguita tre girate dintorno alle mura d'Ilio e mai non raggiugne. Ně i fratelli e gli amici d'Ettore sono da tanto, che veggendol cacciato da un uomo solo, in tre volte ch'ei gira le mura della sua patria, gli aprano una porta, dove possa ricoverarsi, o gli porgano aiuto alcuno. Finalmente la Dea Pallade l'inganna e lo ferma per onorare il suo Achille della vittoria, e più tosto il disonora; perciocchè, azzuffati che sono ella ripara i colpi di Ettore e gli fa lanciar l'asta in vano, non ostante che Achille avesse intorno le armi fatate, e lascia Ettore senz' asta, e riporta la sua ad Achille che l'aveva anch'egli lanciata in vano; di maniera ch' io non veggo che lode sia ad Achille il vincere con tanto vantaggio. Ma non è egli poi degno di riso il dire che, quando Achille uccide il nemico, mirasse ad aggiustare il colpo nel collo, dove egli non era armato, in maniera che non gli toccasse l'arteria della gola, acciò che prima di morire potesse favellare? Trattandosi d'una pecora legata potrebbe forse passare, ma d'un cavaliere come Ettore, sano e gagliardo, che con lo scudo e la spada si difendeva, appena sarebbe credibile che una saetta di Commodo o di Cambise, sagittari famosi, avesse assestata una ferita si gentilmente; non il ferro di quella lancia, che fendeva per mezzo le

teste umane.

Aggiugnesi a tutto questo lo strazio che fa Achille del corpo morto di quel principe, senza che appaia che gliene

avesse data cagione e non essendo ciò nè costume del secolo nè de' Greci.

Che non fosse del secolo veggasi Esiodo, contemporaneo d'Omero, il quale non finge che Ercole, ucciso che ha Cigno, tocchi il suo corpo, ma che il lasci seppellire, e pur Cigno era stato uomo di trista vita e meritevole di ogni male. Che non fosse costume greco, veggasi Erodoto....

....

Non così finse il Tasso che facesse Tancredi nella morte d'Argante:

Disse Tancredi allora: Adunque resta
Il valoroso Argante, ai corvi in preda?
Ah, per Dio non si lasci e non si frodi
O della sepoltura, o delle lodi.
Nessuna a me col corpo esangue e muto
Riman più guerra, egli morì qual forte;
Onde a ragion gli è quell'onor dovuto,
Che solo in terra avanzo è de la morte.

E questo s'addimanda cantare azioni eroiche, e non barbarie e scelleratezze come Omero che, componendo a caso, se mai disse nulla di buono, lo disse a caso. Orlando, similmente nell'Ariosto, ucciso che ebbe Agramante e Gradasso, lasciò i corpi ai servi loro, che gli seppellissero e non mirò che a lui avessero ucciso l'amico suo Brandimarte:

Andaro i servi a la città distrutta

E di Gradasso e d'Agramante l'ossa
Nelle ruine ascoser di Biserta,

E quivi divolgar la cosa certa.

Teti, dopo questo, va a consolare il figliuolo Achille e l'esorta che, poi ch'egli è vicino alla morte, attenda a pigliarsi piacere e gusto, e che dorma con qualche bella fanciulla.

.... Veneris non te movet ulla voluptas?

Et pulchrum est blandis nonnunquam amplexibus uti Mulieris...

Finalmente si conchiude il poema con quella generosa mercatanzia che fa Achille, vendendo il corpo d'Ettore al

padre; e tutto segue per consiglio di Giove Ottimo Massimo. Anche i nostri poeti indussero mai gli eroi loro a far simili stordidezze. Sentasi il Tasso e finiamo:

Colui che fino allor l'animo grande
Ad alcun atto d'umiltà non torse,
Ora ch'ode quel nome, onde si spande
Si chiaro il suon dagli Etiopi all'Orse,
Gli risponde: Farò quanto dimande,
Chè ne sei degno, e l'arme in man gli porse;
Ma la vittoria tua sovra Altamoro
Nè di gloria sia povera, nè d'oro.

Me l'oro del mio regno, e me le gemme
Ricompreran della pietosa moglie.

Replica a lui Goffredo: Il ciel non diemme
Animo tal che di tesor s'invoglie.
Ciò che ti vien dalle indiche maremme
Abbiti pure, e ciò che Persia accoglie;
Chè de la vita altrui prezzo non cerco,

Guerreggio in Asia e non vi cambio o merco.

E tanto sia detto di quelle che nell' Iliade d'Omero a me non paion bellezze,

sed versus inopes rerum, nugaeque canorae.

SE NEL TRECENTO MEGLIO SI SCRIVESSE IN VOLGARE ITALIANO O NELL'ETÀ DEL TASSONI (*)

Disputa è questa che richiedere bbe un volume da sè: ma io ne dirò la sostanza in poche righe, acciocchè abbiano ancora questo attacco di più coloro che di brevità mi riprendono. Con protesta però, che quant'io son per dire, sarà solamente per maniera di dubitare, sospendendo il giudicio mio, e rimettendomi a' signori Fiorentini arbitri di questa lingua.

Alcuni moderni grammatici tengono, che male facessero gli antichi letterati a cominciare a scrivere nella lingua del volgo, e che peggio facciano quelli dell'età no

(*) Pensieri diversi, Libro nono, XV.

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