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ANTONIO CONTI

(1677-1749)

Nel Conti, che fu per molti anni in Francia e in Inghilterra, si sente il letterato non più chiuso solo fra i libri e nell'ambiente decrepito dell'Italia arcadica; si sente un uomo alla cui intelligenza e al cui animo il contatto con la vita, l'arte e la coltura d'altri paesi, la conoscenza personale di grandi scienzianti e letterati di una nazione e di un mondo sociale diverso dal proprio hanno aperto un nuovo e più vasto orizzonte, suscitando nuovi problemi e curiosità, modificando il gusto e il criterio di giudicare gli uomini e le cosé. Il Conti si tiene stretto peraltro alla tradizione culturale e di pensiero italiana e non può affatto mettersi insieme con quei letterati nostri viaggiatori, avventurieri, poligrafi, enciclopedici della seconda metà del Settecento, che segnarono quasi una spezzatura violenta nella tradizione nostra, imbevendosi degli spiriti nuovi della filosofia e della letteratura d'Inghilterra e di Francia.

Il Conti, che coltivava l'arte come traduttore e come autore non del tutto spregevole e che insieme compiva studi filosofici attendendo ad un vasto « Trattato delle potenze conoscitive dell'anima »; che andava componendo una sua teoria poetica ordinandola, con un indirizzo notabile, in un «Trattato de' fantasmi poetici » e intorno alla fantasia molto e non superficialmente meditò ritornandovi in vari scritti, aveva una preparazione vasta e buona per fare qualche passo innanzi nella penetrazione critica della poesia e dell'arte. Certo egli sentì e affermò che la poesia italiana aveva essenzialmente bisogno di rinnovarsi nelle idee ispiratrici, nel contenuto; intese che per giudicare un autore bisogna prima conoscere il mondo in cui visse e comprendere il carattere particolare di lui e dell'opera sua; diede un sicuro giudizio di condanna della critica razionalistica francese, antistorica per eccellenza, che pur era così propria del tempo suo, trionfatrice com'era allora e in Francia e fuori. Tutti questi sono particolari che fanno il Conti degno di considerazione.

LO STILE S'ACCOMODA AI TEMPI E AI POPOLI (1)

Un terzo riflesso si presenta, che serve ancora a mitigare il rimprovero, che si fa a Stazio, della gonfiezza. I Romani in tutte le cose vedeano la grandezza e la cercavano in tutto. Virgilio che aveva veduti i trionfi di Cesare e di Augusto, le loro mense, i loro palagi e tempj, n' espresse l'immagini nello scudo d'Enea, nella mensa di Didone, nella reggia del re Latino e nell'altre cose magnifiche del suo poema. Ma finalmente quelle immagini corrispondevano alla qualità de' tempi d'Augusto, il quale avea bensì cangiati in marmi i mattoni di Roma, ma non l'avea nè ingrandita nè nobilitata come fu al tempo di Domiziano, estesa col campo de' Pretoriani di sette miglia. Vespasiano avea rifabbricato il Campidoglio e Domiziano aveva spesi dodici mila talenti per la sua indoratura; e questa magnificenza era nulla a confronto d'una sola sala dell'Imperatore, ove pareva ch'egli avesse desiderato che tutto fosse cambiato in gemme e in oro. Vespasiano avea nella Via della Pace eretto quel colosso di centoventi piedi ch'era stato di Nerone, ed in luogo della testa di questo principe v'avea posta quella del Sole sotto l'immagine di Tito. Domiziano, che non volea in nulla cedere al fratello, non osò far porre la sua testa al colosso; ma invece si fece ergere una statua equestre nel Foro Latino che ne fu quasi riempito, tanto il colosso era grande. Quale strepito a Roma nel fondere, polire, innalzare statua sì smisurata? Si stupirà, se Sta

(1) Prose e poesie del signor abate Antonio Conti, tomo secondo e postumo, Venezia 1756 • Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio», pag. 206 segg. - La tesi principale sostenuta dal Conti con molta erudizione e acume in questa ampia dissertazione di cui l'editore del volume postumo dà solo un transunto, il quale peraltro sembra sufficientemente accurato - è questa: per dare di Stazio un giudizio sereno e intelligente bisogna tener conto dei costumi e del gusto del suo tempo, e sopratutto è da intendere il fine e l'idea informatrice della Tebaide che è un panegirico indiretto di Domiziano, così come l'Eneide n' era uno di Augusto. Il Conti s' indugia quindi a lungo nella ricostruzione storica dell' età del poeta e in quella del carattere e delle ambizioni dell'imperatore a cui voleva compiacere, introducendo la sua indagine con l'esposizione di questo principio, che la critica « filosofica» deve giudicare delle opere d'arte ponendosi, come si dice, nel punto di vista dell'autore: «Per giudicare d' un'opera è necessaria la cognizione del fine che si propone l'autore, senza cui si corre rischio di biasimare o lodare ciò che non lo merita; come se in un'officina d' uno scultore vedendo alcuno una statua gigantesca e rozza la riprendesse non sapendo ch'ella dev'essere collocata sopra la cima d'una torre o d'un gran palazzo».

zio prende il tuono alto a parlarne? Innumerabili po erano le statue d'oro e d'argento che il timore e l'adulazione avevano fatto ergere a Domiziano. Plinio si duole che tutta la strada del Campidoglio era occupata dagli armenti che si conducevano a sacrificare alla statua dell'Imperatore, alla quale, dice, si sacrificavano tante bestie, quanti egli aveva sacrificati uomini alla sua rabbia. Cajo, quando per il beveraggio di Cesonia impazzì, voleva esser chiamato Dio, ma non ne facea una legge espressa, come Domiziano, il quale con meditato consiglio detto questo formulario: «Così comanda il nostro Signore e il nostro Dio». Dal che solo può argomentarsi quale doveva esser la città, la corte, i trionfi, gli spettacoli, la mente di questo superbo imperatore.

I Romani assuefatti a tali cose più non doveano di nulla maravigliarsi, e come la fantasia amplifica le immagini che il senso le porge, dovevano essi immaginando crescere le proporzioni delle cose che vedeano; ma molto più doveano crescerle i poeti, che hanno per fine di destare la maraviglia. Attenti però essi a superare le idee del volgo passarono nelle loro finzioni il limite del verisimile e del naturale: si sforzarono col numero rimbombante, con l'ampie parole, co' circuiti attortigliati, colle traslazioni, coll'iperbole ed altre figure ardite, e coll'en tusiasmo, di stordire o trasportare lo spirito che non avesse tempo di risentirsi della superchieria loro. Nel secolo diciassettesimo i poeti italiani, pieni d'idee delle grandezze oltramontane, non fecero meno che far sudare i fuochi e dividere il sole in quattro parti per farne delle lampade al re di Francia.

Perciò Stazio piaceva a' Romani, e per piacere non potea sempre tenersi nell'equilibrio prescritto, sia nelle immagini sia nell'espressioni, da' precetti dell'arte. Lo stile s'accomoda ai tempi ed ai popoli: lo stile di Terenzio è più castigato e gentile di Plauto, perchè quegli volea piacere ad uomini colti ed eruditi nelle lettere greche, e Plauto al popolaccio. Coloro che comparando Cicerone e Demostene accusano quello di soverchia eloquenza, non riflettono alla diversa capacità e costituzione del popolo romano e dell'ateniese. Il governo monarchico ancora è atto a guastar lo stile. Oltre l'adulazione vile e i bassi sen

timenti che inspira, i principi distratti o dagli affari o dai piaceri, o poco intelligenti, non sono sensibili se non alle faville dell' ingegno, e più apprezzano gli acumi che un sistema ben regolato, per intender il quale vi vuol della. meditazione e del gusto; quindi nasce l'affettazione nei concetti e nelle parole, e in vece di sceglier le parole per i pensieri e i pensieri per le cose, si comincia a sceglier i pensieri per accomodarli alle parole e le parole per accomodarle tra loro, vera origine dello stile affettato e vizioso; onde nacque la scuola declamatoria, di cui ecco il progresso. Prima fu quell'elegante simplicità che durò fino a Catullo nelle poesie: Virgilio ed Orazio l'adornarono e l'elegante divenne nobile: Mecenate affettò le cadenze molli, Ovidio il brio dell' ingegno, due cose alle quali i cortigiani e le donne sono sensibilissimi: quindi la prima alterazion dello stile: il secondo grado furono l'acume di Seneca, l'entusiasmo e rimbombo di Lucano, l'oscurità di Persio, quel troppo dipinto e accarezzato di Petronio : il terzo grado gli esercizi e declamazioni de' retori occupati nelle scuole in controversie imaginarie e vane.

Nel secolo de' Flavj il vizio andò al sommo ed occupò gl'ingegni più fervidi: l'ardore napolitano che diede a' Romani prima Cicerone poi Orazio, e in parte Ovidio, nel tempo guasto di Domiziano per la corruzione della scuola declamatoria diede Giuvenale e Stazio.

Non ostante, Stazio si può scusare, e combinando insieme il fervor della sua fantasia colla vivacità del suo ingegno, l'educazione, gli esempi, la necessità di soddisfar a una corte corrotta, a un imperatore magnifico, crudele ed accorto, si vede ch'egli scrisse convenevolmente al suo tempo: la qual non è poca lode di un autore.

Ma oltre la convenienza che ha l'opera al fine del poeta ed al tempo in cui scrive, v'è un'altra convenienza al fine ed all'oggetto dell'opera stessa. Un'opera può esser ottima relativamente ad un tempo in cui domina un certo gusto, e pessima in un altro in cui il gusto è cambiato. Ma la vera critica senza curarsi del gusto particolare d'un secolo o di un paese, considera l'opera in se stessa, il che si farà ora della Tebaide....

LA FANTASIA DI GALILEO (1)

Benchè a Galileo precedessero il Telesio e Giordan Bruno, nulla però nelle matematiche l'ajutarono, e poco nella filosofia, trattone qualche espressione. Mirabile egli è, che questi due filosofi essendo caduti nelle visioni per conceder troppo alla loro fantasia, Galileo sapesse così ben librarsi che non ammise altro principio se non quello del senso e della sensata sperienza da una parte e dall'altra quanto col ragionamento potea dedursi dall'esperienze ed osservazioni del senso. Non s'applicò egli dunque se non alla matematica ed alla fisica, di cui diede de' bellissimi saggi ne' Dialoghi astronomici o del sistema del mondo, e ne' Dialoghi meccanici o della forza e del moto. L'altre opere che scrisse, se si eccettua qualche bagatella geometrica, possono ridursi a queste due. Nell'analisi di questi Dialoghi io non fo attenzione, come dissi, al vero e al falso, o al metodo di proporlo, ma solo alle qualità della fantasia di Galileo.

La sua prima qualità è che fu sommamente originale, o inventiva in modo, che al dire del Fontenelle, non v'è stata celebre scoperta dopo di lui che non abbia alla testa il nome di Galileo. Avea già detto il Vallisio che senza Galileo ed il Torricelli noi non avremmo ciò che si chiama filosofia sperimentale. Senza questa forza inventiva egli non avrebbe potuto nè combattere, nè distrugger i principj del cielo peripatetico, e stabilire la corruzione e generazione a cui sono soggette le sostanze celesti non meno che l'elementari. «Io per me, » dic'egli « credeva che le stelle si chiamassero cose celesti mediante l'esser nel cielo, o l'esser fatte della materia del cielo, e che però il cielo fosse più celeste di loro, in quella guisa che non si può dire alcuna cosa esser più terrestre o più ignea della terra o del fuoco stesso. Il non aver poi fatto menzione delle macchie solari, delle quali è stato dimostrato concludentemente prodursi e dissolversi ed esser prossime al corpo solare e con esso e intorno ad esso raggirarsi, mi dà grande indizio che possa esser che quest'autore scriva

(1) Prose e poesie cit., vol. II, pag. 279 e segg.

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