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vedendogli, non uomini, ma iddii. Questi cotali, non fidandosi tanto delle lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la fede di quelle a impaurire i suggetti e a stringere con sacramenti alla loro obbedienza quegli li quali non vi si sarebbero potuti con forza costringere. E oltre a questo diedono opere a deificare i lor padri, li loro avoli o li loro maggiori, acciochè più fossero e temuti e avuti in reverenza dal vulgo. Le quali cose non si poterono comodamente fare senza l'oficio de' poeti, li quali, sì per ampliare la lor fama, sì per compiacere a' prencipi, sì per dilettare i sudditi, e sì per persuadere il virtuosamente operare a ciascuno, quello che con aperto parlare saria suto della loro intenzione contrario, con fizioni varie e maestrevoli, male da' grossi oggi non che a quel tempo intese, facevano credere quello che li prencipi volevan che si credesse; servando negli nuovi iddii e negli uomini, gli quali degl'iddii nati fingevano, quello medesimo stile che nel vero Iddio solamente e nel Ïusingarlo avevan gli primi usato. Da questo si venne allo adequare i fatti de' forti uomini a quegli degl'iddii; onde nacque il cantare con eccelso verso le battaglie e gli altri notabili fatti degli uomini mescolatamente con quegli degl'iddii; il quale e fu ed è oggi, insieme con altre cose di sopra dette, uficio ed esercizio di ciascuno poeta. E perciocchè molti non intendenti credono la poesía niuna altra cosa essere che solamente un fabuloso parlare, oltre al premesso mi piace brievemente quella essere teologia dimostrare, prima ch'io venga a dire perchè di lauri si coronino i poeti.

Se noi vorremo por giù gli animi e con ragion riguardare, io mi credo che assai leggermente potremo vedere gli antichi poeti avere imitate, tanto quanto a lo 'ngegno umano è possibile, le vestigie dello Spirito santo; il quale, sì come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la bocca di molti, i suoi altissimi secreti revelò a' futuri, facendo loro sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza alcuno velo, intendeva di dimostrare. Imperciochè essi, se noi ragguarderemo ben le loro opere, acciochè lo imitatore non paresse diverso dallo imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che stato era, o che fosse al loro tempo presente, o che disideravano, o che presumevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; perchè,

come che ad uno fine l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma solo al modo del trattare, al che più guarda al presente l'animo mio, ad amendune si potrebbe dare una medesima laude, usando di Gregorio le parole; il quale della sacra Scrittura dice ciò che ancora della poetica dir si puote, cioè che essa in un medesimo sermone, narrando, apre il testo e il misterio a quel sottoposto; e così ad un'ora coll'uno gli savi esercita e con l'altro gli semplici riconforta, e ha in publico donde li pargoletti nutrichi, e in occulto serva quello onde essa le menti de' sublimi intenditori con ammirazione tenga sospese. Ma da procedere è al verificare delle cose proposte.

Intende la divina Scrittura, la qual noi « teologia » appelliamo, quando con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna visione, quando.con lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre maniere assai, mostrarci l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto, per lo quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale Egli e morendo e resurgendo ci aperse, lungamente stata serrata a noi per la colpa del primiero uomo. Così li poeti nelle loro opere, le quali noi chiamiamo « poesia», quando con fizioni di vari iddii, quando con trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con leggiadre persuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti delle virtù e de' vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire, acciochè pervenire possiamo, virtuosamente operando, a quel fine, il quale essi, che il vero Iddio debitamente non conosceano, somma salute credevano. Volle lo Spirito santo mostrare nel rubo verdissimo, nel quale Moisè vide, quasi come una fiamma ardente, Iddio, la verginità di Colei che più che altra creatura fu pura, e che dovea essere abitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi, per la concezione nè per lo parto del Verbo del Padre, contaminare. Volle per là visione veduta da Nabucodonosor, nella statua di più metalli abbattuta da una pietra convertita in monte, mostrare tutte le pretè

Andreoli. 4

rite età dalla dottrina di Cristo, il quale fu ed è viva pietra, dovere summergersi; e la cristiana religione, nata di questa pietra, divenire una cosa immobile e perpetua, sì come li monti veggiamo. Volle nelle lamentazioni di Geremia, l'eccidio futuro di Ierusalem dichiarare.

Similmente li nostri poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, e quegli, fuori che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per tale fizione farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale ogni cosa si produce, e come ella in esso è prodotta, così è esso di tutte corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro suoi figliuoli non divorati da lui, è l'uno Giove, cioè l'elemento del fuoco; il secondo è Giunone, sposa e sorella di Giove, cioè l'aere, mediante la quale il fuoco quaggiù opera li suoi effetti: il terzo è Nettuno, iddio del mare, cioè l'elemento dell'acqua; e il quarto e ultimo è Plutone, iddio dell'inferno, cioè la terra, più bassa che alcuno altro elemento. Similmente fingono li nostri poeti Ercule d'uomo essere in dio trasformato, e Licaone in lupo: moralmente volendo mostrarci che virtuosamente operando, come fece Ercule, l'uomo diventa iddio per partecipazione in cielo; e, viziosamente operando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero si può dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per effetto più simile al suo diffetto sì come Licaone per rapacità e per avarizia, le quali a lupo sono molto conformi, si finge in lupo essere mutato. Similmente fingono li nostri poeti la bellezza de campi elisi, per la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la oscurità di Dite, per la quale prendo l'amaritudine dello 'nferno; acciochè noi, tratti dal piacere dell' uno, e dalla noia dell'altro spaventati, seguitiamo le virtù che in Eliso ci meneranno, e i vizi fuggiamo che in Dite ci farieno trarupare. Io lascio il tritare con particulari esposizioni queste cose, perciochè, se quanto si converrebbe e potrebbe le volessi chiarire, comechè elle più piacevoli ne divenissero e più facessero forte il mio argomento, dubito non mi tirassero più oltre molto che la principale materia non richiede e che io non voglio andare. E certo, se più non se ne dicesse che quello che è detto, assai si dovrebbe comprendere la teologia e la poesia convenirsi quanto nella forma dell'operare, ma nel suggetto dico quelle non solamente molto essere diverse, ma ancora av

verse in alcuna parte: perciochè il suggetto della sacra teologia è la divina verità, quello dell'antica poesì sono gl'iddii de' gentili e gli uomini. Avversi sono, in quanto la teologia niuna cosa presuppone se non vera; la poesia ne suppone alcune per vere, le quali sono falsissime ed erronee e contro la cristiana religione. Ma, perciochè alcuni disensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e male a niuna verità consonanti avere composte, e che in altra forma che con favole dovevano la loro sofficenzia mostrare e a' mondani dare la loro dottrina; voglio ancora alquanto più oltre procedere col presente ragionamento.

Guardino adunque questi cotali le visioni di Daniello, quelle di Isaia, quelle d'Ezechiel e degli altri del Vecchio Testamento con divina penna descritte, e da Colui mostrate al quale non fu principio nè sarà fine. Guardinsi ancora nel Nuovo le visioni dell'Evangelista, piene agl'intendenti di mirabile verità; e, se niuna poetica favola si truova tanto di lungi dal vero o dal verisimile, quanto nella corteccia appaiono queste in molte parti, concedasi che solamente i poeti abbiano dette favole da non potere dare diletto nè frutto.

.... Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico di più, che la teologia niun'altra cosa è che una poesia di Dio. E ch'altra cosa è che poetica fizione nella Scrittura dire Cristo essere ora leone e ora agnello e ora vermine, e quando drago e quando pietra, e in altre maniere molte, le quali voler tutte raccontare sarebbe lunghissimo? che altro suonano le parole del Salvatore nello Evangelio, se non uno sermone da' sensi alieno? il quale parlare noi con più usato vocabolo chiamiamo «< allegoria ». Dunque bene appare, non solamente la poesì essere teologia, ma ancora la teologia essere poesia. E certo, se le mie parole meritano poca fede, in sì gran cosa, io non me ne turberò; ma credasi ad Aristotele, degnissimo testimonio a ogni gran cosa, il quale afferma sè aver trovato li poeti essere stati li primi teologizzanti. E questo basti quanto a questa parte; e torniamo a mostrare perchè a' poeti solamente, tra gli scienziati, l'onore della corona dell'alloro conceduto fosse.

IL COMMENTO " ALLA COMMEDIA,,

Lez. II. - Canto I.

I.

SENSO LETTERALE

Resta a venire all'ordine della lettura, e primieramente alle divisioni. Dividesi adunque il presente volume in tre parti principali, le quali sono li tre libri ne' quali l'autore medesimo l'ha diviso: de' quali il primo, il quale per leggere siamo al presente, si divide in due parti, in proemio e trattato. La seconda comincia nel principio del secondo. canto. La prima parte si divide in due: nella prima discrive l'autore la sua ruina; nella seconda dimostra il soccorso venutogli per sua salute. La seconda comincia quivi: «Mentre ch'io rovinava in basso loco ». Nella prima fa l'autore tre cose; primieramente discrive il luogo dove si ritrovò; appresso mostra donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo; ultimamente pone qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dover di quello luogo uscire; la seconda quivi: «Io non so ben ridir »; la terza quivi: « Ed ecco quasi ».

Dice adunque così: « nel mezzo del cammin di nostra vita». Ove ad evidenza di questo principio è da sapere, la vita de' mortali è, massimamente di quegli li quali a quel termine divengono, il quale pare che per convenevole ne sia posto, di settanta anni; quantunque alquanti, e pochi, più ne vivano, e infinita moltitudine meno, sì come per lo salmista si comprende nel salmo ottantanovesimo, dove dice: « Anni nostri sicut aranea meditabuntur; dies annorum nostrorum in ipsis septuaginta anni. Si autem in potentatibus, octoginta anni; et amplius eorum, labor et dolor»; perciò colui il quale perviene a trentacinque anni si può dire essere nel mezzo della nostra vita. Ed è figurata in forma d'uno arco, dalla prima estremità del quale infino al mezzo si salga, e dal mezzo infino all'altra estremità si discenda; e questo è stimato, perciochè infino all'età di trentacinque anni, o in quel torno, pare sempre le forze degli uomini aumentarsi, e quel termine passato diminuirsi. E a questo termine d'anni pare che l'autore

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