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LORENZO DE' MEDICI IL MAGNIFICO

(1448 - 1492)

Dal secolo di Dante, del Petrarca e del Boccaccio all'età del Magnifico, i valori si sono spostati e si sono invertiti i termini del giudicare, così nel campo dell'arte come in quello della vita e in quello della politica e in quello degli studi. Non è più il teologo, o l'uomo religioso, che giudica l'artista e l'arte; è l'umanista, se mai, (poeta o politico o filosofo; è l'uomo) che giudica la religione.

Così Lorenzo è l'umanista che dall'alto del Parnaso classico può riconoscere nella letteratura volgare naturalmente dopo un periodo di incomprensione e di abbandono in cui era stata lasciata una giovine sorella delle letterature antiche, e guardandola con occhi nuovi, riconoscere il suo autentico valore d'arte senza bisogno di cercarne, fuori d'essa, alcuna ulteriore giustificazione.

Questo riconoscimento, espresso con calore d'animo innamorato, è il maggior pregio degli scritti critici del Magnifico. Perchè invece, nei particolari, già si sente l'influsso del pregiudizio umanistico che pone come modelli perfetti le opere e le lingue classiche queste rappresentano del resto genuinamente l'ideale estetico dell'epoca, e le letterature volgari non sono considerate che quali sorelle minori e incolte, da dirozzare, affinare, ornare, secondo le tipiche forme degli esempi antichi e secondo i precetti degli antichi maestri di rettorica. Non occorre ricordare qui come tale culto per l'antichità (modelli, regole, teorie), se divenne più tardi devozione servile e superstizione fatale per la nostra letteratura, fu da principio lievito potente di più vasta e libera vita fantastica e spirituale, e rispondeva inoltre a una rinascita vera delle idealità umane antiche, delle antiche forze intime, delle antiche posizioni del pensiero.

Col Magnifico, il volgare, come lingua letteraria, riprende consapevolmente il suo cammino, iniziando quel suo secondo periodo storico, di ordinamento ed elaborazione filologica di stampo classico, che giunge fino al Bembo.

Si osservi la prima parte, introduttiva, della Lettera a Federico d'Aragona: «< onore e gloria sono il nutrimento delle arti »; è motivo caratteristicamente umanistico; il medio evo è lontano; non se ne sente quasi più alcuna eco, non se ne vede più ormai alcuna ombra all'orizzonte.

COSCIENZA CRITICA

DEL RISORGIMENTO DELLE ITALICHE MUSE. (1)

Ripensando assai volte meco medesimo, illustrissimo signor mio Federico, quale in tra molte e infinite laude degli antichi tempi fussi la più eccellente, una per certo sopra tutte l'altre esser gloriosissima e quasi singulare ho giudicato che nessuna illustre e virtuosa opera nè di mano nè d'ingegno si puote immaginare, alla quale in quella prima età non fussino e in pubblico e in privato grandissimi premi e nobilissimi ornamenti apparecchiati. Imperocchè, sì come dal mare Oceano tutti li fiumi e fonti si dice aver principio, così da quest'una egregia consuetudine tutti i famosi fatti e le maravigliose opere degli antichi uomini s'intende esser derivati.

L'onore è veramente quello che porge a ciascuna arte nutrimento; nè da altra cosa quanto dalla gloria sono gli animi de' mortali alle preclare opere infiammati. A questo fine adunque a Roma i magnifici trionfi, in Grecia i famosi giuochi del monte Olimpo, appresso ad ambedue il poetico ed oratorio certame con tanto studio fu celebrato. Per questo solo il carro ed arco trionfale, i marmorei trofei, li ornatissimi teatri, le statue, le palme, le corone, le funebri laudazioni, per questo solo infiniti altri mirabilissimi ornamenti furono ordinati; nè d'altronde veramente ebbono origine li leggiadri ed alteri fatti e col senno e con la spada, e tante mirabili eccellenzie de' valorosi antichi, li quali senza alcun dubbio, come ben dice il nostro toscano poeta, non saranno mai sanza fama

se l'universo pria non si dissolve.

(1) E la famosa Epistola «Allo illustrissimo signore Federico di Aragona figliolo del Re di Napoli»; «la quale può dirsi la prima esposizione critica della più antica nostra letteratura poetica (Vitt. Rossi). E del 1466.

Erano questi mirabili è veramente divini uomini, come di vera immortal laude sommamente desiderosi, così d'un focoso amore verso coloro accesi, i quali potessino i valorosi e chiari fatti delli uomini eccellenti colla virtù del poetico stile rendere immortali; del quale gloriosissimo desio infiammato il magno Alessandro, quando nel Sigeo al nobilissimo sepulcro del famoso Achille fu pervenuto, mandò fuori suspirando quella sempre memorabile regia veramente di sè degna voce:

Oh fortunato che sì chiara tromba
trovasti, e chi di te sì alto scrisse.

E senza dubbio fortunato: imperocchè, se 'l divino poeta Omero non fusse stato, una medesima sepultura il corpo e la fama di Achille avrebbe ricoperto. Nè questo poeta ancora, sopra tutti gli altri eccellentissimo, sarebbe in tanto onore e fama salito, se da uno clarissimo ateniese non fusse stato di terra in alto sublevato, anzi quasi da morte a sì lunga vita restituito. Imperocchè, essendo la sacra opera di questo celebratissimo poeta dopo la sua morte per molti e vari luoghi della Grecia dissipata e quasi dimembrata, Pisistrato, ateniese principe, uomo per molte virtù e d'animo e di corpo prestantissimo, proposti amplissimi premi a chi alcuni de' versi omerici gli apportassi, con somma diligenzia ed esamine tutto il corpo del santissimo poeta insieme raccolse, e sì come a quello dette perpetua vita, così lui a sè stesso immortal gloria e clarissimo splendore acquistonne. Per la qual cosa nessun altro titulo sotto la sua statua fu intagliato, se non quest'uno che dell'insieme ridurre il glorioso omerico poema fussi stato autore. Oh veramente divini uomini, e per utilità degli uomini al mondo nati!

Conosceva questo egregio principe li altri suoi virtuosi fatti, comechè molti e mirabili fussino, tutti nientedimeno a quest'una laude essere inferiori, per la quale e a sè e ad altri eterna vita e gloria partorissi. Cotali erano adunque quelli primi uomini, de' quali li virtuosi fatti mancati, insieme ancora con essi ogni benigno lume di virtute è spento, e, non facendo gli uomini alcuna cosa laudabile, ancora questi sacri laudatori hanno al tutto dispregiati. La qual cosa se ne' prossimi superiori secoli stata non

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fussi, non sarebbe di poi la dolorosa perdita di tanti e sì mirabili greci e latini scrittori con nostro grandissimo danno intervenuta. Erano similmente in questo fortunoso naufragio molti venerabili poeti, li quali primi il deserto campo della toscana lingua cominciarono a cultivare in guisa tale, che in questi nostri secoli tutta di fioretti e d'erba è rivestita.

Ma la tua benigna mano, illustrissimo Federico, quale a questi porgere ti sei degnato dopo molte loro e lunghe fatiche, in porto finalmente gli ha condotti. Imperocchè essendo noi nel passato anno nell'antica pisana città venuti in ragionare di quelli che nella toscana lingua poeticamente avessino scritto, non mi tenne punto la tua Signoria il suo laudabile desiderio nascoso: ciò era che per mia opera tutti questi scrittori le fussino insieme in un medesimo volume raccolti. Per la qual cosa, essendo io come in tutte le altre, cose, così ancora in questa, desideroso alla tua onestissima volontà satisfare, non senza grandissima fatica fatti ritrovare gli antichi esemplari, e di quelli alcune cose meno rozze eleggendo, tutti in questo presente volume ho raccolti; il quale mando alla Tua Signoria, desideroso assai che essa la mia opera, qual che ella si sia, gradisca, e la riceva sì come un ricordo e pegno del mio amore in verso di lei singulare.

Nè sia però nessuno che questa toscana lingua come poco ornata e copiosa disprezzi. Imperocchè se bene e giustamente le sue ricchezze ed ornamenti saranno estimati, non povera questa lingua, non rozza, ma abundante e pulitissima sarà reputata. Nessuna cosa gentile, florida, leggiadra, ornata; nessuna acuta, distinta, ingegnosa, sottile; nessuna alta, magnifica, sonora; nessuna finalmente ardente, animosa, concitata si puote immaginare, della quale non pure in quelli duo primi, Dante e Petrarca, ma in questi altri ancora, i quali tu, signore, hai suscitati, infiniti e chiarissimi esempli non risplendino.

Fu l'uso della rima, secondo che in una latina epistola. scrive il Petrarca, ancora appresso gli antichi romani assai celebrato; il quale per molto tempo intermesso, cominciò poi nella Sicilia non molti secoli avanti a rifiorire, e quindi per la Francia sparto, finalmente in Italia, quasi in un suo ostello, è pervenuto.

Il primo adunque, che dei nostri a ritrarre la vaga

immagine del novello stile pose la mano, fu l'aretino Guittone, ed in quella medesima età il famoso bolognese Guido Guinizelli, l'uno e l'altro di filosofia ornatissimi, gravi e sentenziosi; ma quel primo alquanto ruvido e severo, nè d'alcun lume di eloquenza acceso; l'altro tanto di lui più suave e più ornato, che non dubita il nostro onorato Dante, padre appellarlo suo e degli altri suoi

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Costui certamente fu il primo, da cui la bella forma del nostro idioma fu dolcemente colorita, quale appena da quel rozzo aretino era stata adombrata. Riluce dietro a costoro il delicato Guido Cavalcanti fiorentino, sottilissimo dialettico e filosofo del suo secolo prestantissimo. Costui per certo, come del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne' suoi scritti non so che più che gli altri bello,. gentile e peregrino rassembra, e nelle invenzioni acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenzie, copioso e rilevato nell'ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce e peregrino stile, come di preziosa veste, sono adorne. Il quale, se in più spazioso campo si fusse esercitato, avrebbe sanza dubbio i primi onori occupati; ma sopra tutte l'altre sue opere è mirabilissima una canzona, nella quale sottilmente questo grazioso poeta d'amore ogni qualità, virtù e accidente descrisse, onde nella sua età di tanto pregio fu giudicato, che da tre suoi contemporanei, prestantissimi filosofi, tra li quali era il romano Egidio, fu dottissimamente commentata. Nè si deve il lucchese Bonagiunta e il notaro da Lentino con silenzio trapassare: l'uno e l'altro grave e sentenzioso, ma in modo d'ogni fiore di leggiadria spogliati, che contenti doverebbono stare se fra questa bella masnada di sì onorati uomini li riceviamo. E costoro e Piero delle Vigne nella età di Guittone furono celebrati, il quale ancora esso, non senza gravità e dottrina, alcune, avvenga che piccole, opere compose: costui è quello che, come Dante disse:

tenne ambe le chiavi

del cor di Federigo, e che le volse,
serrando e disserrando, sì soavi.

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