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Risplendono dopo costoro quelli dui mirabili soli, che questa lingua hanno illuminata: Dante, e non molto drieto Francesco Petrarca, delle laude de' quali sì come di Cartagine dice Sallustio, meglio giudico essere tacere che poco dirne.

Il bolognese Onesto e li siciliani, che già i primi furono, come di questi dui sono più antichi, così della loro lima più averebbono bisogno, avvenga che nè ingegno nè volontà ad alcuno di loro si vede essere mancato. Assai bene alla sua nominanza risponde Cino da Pistoia, tutto delicato e veramente amoroso, il quale primo, al mio parere, cominciò l'antico rozzore in tutto a schifare, dal quale nè il divino Dante, per altro mirabilissimo, s'è potuto da ogni parte schermire. Segue costoro di poi più lunga gregge di novelli scrittori, i quali tutti di lungo intervallo si sono da quella bella coppia allontanati.

Questi tutti, Signore, e con essi alcuni dell'età nostra, vengono a renderti immortal grazia, che della loro vita, della loro immortal luce e forma sie stato autore, molto di maggior gloria degno che quello antico ateniese di chi avanti è fatta menzione.

Perocchè lui ad uno, benchè sovrano, tu a tutti questi hai renduto la vita. Abbiamo ancora nello estremo del libro (perchè così ne pareva ti piacessi) aggiunti alcuni delli nostri sonetti e canzone, acciò che, quelli leggendo, si rinovelli nella tua mente la mia fede e amore singulare verso la Tua Signoria; li quali, se degni non sono fra si meravigliosi scritti di vecchi poeti essere annumerati, almeno per fare alli altri paragone e per fare quelli per la loro comparazione più ornati parere, non sarà forse inutile stato averli con essi collegati.

Riceverà adunque la Tua illustrissima Signoria e questi e me non solamente nella casa, ma nel petto e animo suo, siccome ancora quella nel core ed animo nostro giocondamente di continuo alberga.

Vale.

VALORE DELLA LINGUA NOSTRA. (*)

Volendo provare la dignità della lingua nostra, solamente dobbiamo insistere nelle prime condizioni: se la lingua nostra facilmente esprime qualunque concetto della nostra mente; e a questo nessuna miglior ragione si può introdurre che l'esperienza. Dante, il Petrarca e il Boccaccio, nostri poeti fiorentini, hanno nelli gravi e dolcissimi versi ed orazioni loro monstro assai chiaramente con molta facilità potersi in questa lingua esprimere ogni senso. Perchè chi legge la Commedia di Dante vi troverà molte cose teologiche e naturali essere con gran destrezza e facilità espresse; troverà ancora molto attamente nello scrivere suo quelle tre generazioni di stili che sono dagli oratori laudate, cioè umile, mediocre ed alto; ed in effetto, in uno solo, Dante ha assai perfettamente assoluto quello che in diversi autori, così greci come latini, si truova. Chi negherà nel Petrarca trovarsi uno stile grave, lepido e dolce? e queste cose amorose con tanta gravità e venustà trattate, quanta senza dubbio non si truova in Ovidio, Tibullo, Catullo e Properzio o alcuno altro latino? Le canzone e sonetti di Dante sono di tanta gravità, sottilità ed ornato, che quasi non hanno comparazione in prosa e orazione soluta. Chi ha letto il Boccaccio, uomo dottissimo e facundissimo, facilmente giudicherà singulare e solo al mondo non solamente la invenzione, ma la copia ed eloquenzia sua. E, considerando l'opera sua del Decameron, per la diversità della materia ora grave, ora mediocre ed ora bassa, e contenente tutte le perturbazioni che agli uomini possono accadere d'amore ed odio, timore e speranza, tante nuove astuzie ed ingegni, ed avendo ad esprimere tutte le nature e passioni degli uomini che si truovono al mondo, sanza controversia giudicherà nessuna lingua meglio che la nostra essere atta ad esprimere. E Guido Cavalcanti, di chi disopra facemmo menzione, non si può dire quanto comodamente abbi insieme congiunto. la gravità e la dolcezza, come mostra la canzone sopra detta ed alcuni sonetti e ballate sue dolcissime.

Restano ancora molti altri gravi ed eleganti scrittori,

(*) Dal Comento del Magnifico Lorenzo de' Medici sopra alcuni de' suoi sonetti».

la menzione de' quali lascieremo piuttosto per sfuggire prolissità che perchè e' non ne siano degni. E però concluderemo più tosto essere mancati alla lingua uomini che la esercitino che la lingua agli uomini e alla materia; la dolcezza ed armonia della quale, a chi per essersi assuefatto con essa ha con lei qualche consuetudine, veramente è grandissima ed atta a muover molto.

Queste, che sono e che forse a qualcuno potrebbono pur parere proprie laudi della lingua, mi paiono assai copiosamente nella nostra; e, per quello che insino ad ora massime da Dante è suto trattato nell'opera sua, mi pare non solamente utile, ma necessario per li gravi ed importanti effetti, che li versi suoi sieno letti, come mostra l'esempio per molti commenti fatti sopra alla sua Commedia da uomini dottissimi e famosissimi, e le frequenti allegazioni che da santi ed eccellenti uomini ogni di si sentono nelle loro pubbliche predicazioni. E forse saranno ancora scritte in questa lingua cose sottili ed importanti e degne d'esser lette; massime perchè insino ad ora si può dire essere l'adolescenzia di questa lingua, perchè ognora più si fa elegante e gentile. E potrebbe facilmente nella gioventù ed adulta età sua venire ancora in maggiore perfezione; e tanto più aggiugnendosi qualche prospero successo ed augumento al fiorentino imperio, come si debbe non solamente sperare, ma con tutto l'ingegno e forze per li buoni cittadini aiutare: pure questo, per essere in potestà della fortuna e nella volontà dell'infallibile giudicio di Dio, come non è bene affermarlo, non è ancora da disperarsene. Basta per al presente fare questa conclusione che di quelle laudi, che sono proprie della lingua, la nostra ne è assai copiosa; nè giustamente ce ne possiamo dolere. E per queste medesime ragioni nessuno mi può riprendere se io ho scritto in quella lingua nella quale io sono nato e nutrito, massime perchè la ebrea e la greca e la latina erano nel tempo loro tutte lingue materne e naturali, ma parlate o scritte più accuratamente e con qualche regola o ragione da quelli che ne sono in onore e in prezzo, che generalmente dal vulgo e turba popolare.

GIROLAMO SAVONAROLA

(1452 - 1498)

In mezzo allo splendido fervore umanistico dell'ultimo Quattrocento, la sincera voce discordante del frate ferrarese è di alto interesse.

Non è interamente voce medievale, quella del Savonarola; il quale passionatamente si difende contro chi l'accusa di condannare l'arte. Si veda quanto di spirito che potremmo dire moderno è nella sua critica all'estetismo umanistico, e quanto anche sia vivo in lui, di fronte al virtuosismo rettorico degli umanisti, il senso dell'arte come intima potenza legata alla vita dell'animo e del pensiero ed alle forze morali e ideali dell'uomo, e, di fronte al sensualismo imperante nell'arte e nel costume, quanto in lui sia sincero il sentimento della bellezza come armonia e spiritualità.

NON CONTRO LA POESIA E LA BELLEZZA IN SE STESSE, MA CONTRO L'ESTETISMO PAGANEGGIANTE DEGLI UMANISTI. (1)

Io non ho mai avuto in animo di condannare l'arte del poetare, ma solamente l'abuso che molti ne fanno, sebbene colle parole e cogli scritti si sia da non pochi cercato di calunniarmi. In verità, io aveva deliberato di non farne caso, seguendo quel motto che dice: non rispondere allo stolto, secondo la sua stoltizia; ma or le tue parole

(1) Il primo passo è tolto dall'Opus perutile de divisione ac utilitate scientiarum: in poeticen apologeticus. I periodi iniziali fanno parte dell'Epistola ad Verinum, (Ugolino Verino, autore di un poema De Illustratione Urbis Florentiae) che precede il trattato. Il secondo passo consta di periodi tolti da varie prediche. L'uno e l'altro riporto dall'opera di P. Villari. La storia di Gerolamo Savonarola ecc. Nuova ediz. 1887, vol. I., pag. 518 segg.

mi fanno prendere la penna. Non ti attendere però da me alcuna eleganza di stile, perchè sono ormai venti anni, che io ho lasciato tutti gli studi di umanità per discipline più gravi.

.... Alcuni vorrebbero restringerla (la poesia) tutta nella forma; costoro però s'ingannano di gran lunga; l'essenza della poesia è costituita dalla filosofia, dal pensiero, senza di che non si ha vero poeta. Se alcuno crede che l'arte di poetare insegni solamente i dattili e gli spondei, le sillabe lunghe o brevi, l'ornato delle parole, costui certamente è in un grande errore.

Il fine della poesia è di persuadere mediante quel sillogismo che chiamasi esempio, espresso con eleganza di parole, per convincere e dilettare nello stesso tempo. E perchè la nostra anima si diletta sovranamente nei cantici e nelle armonie, così gli antichi trovarono la misura del verso, acciò, con questi mezzi, gli uomini fossero più agevolmente spinti alla virtù. Ma questa misura non è altro che una pura forma, ed il poeta può anche discorrere il suo argomento senza metro e senza versi. Così vediamo la Sacra Scrittura, nella quale il Signore volle dare la vera poesia della sapienza, la vera eloquenza dello spirito di verità; onde essa non trattiene gli animi nella corteccia della lettera, ma subito li riempie di spirito, li porta alla essenza del vero, e in modo mirabile pone le menti libere dalle terrene servitù. A che giova infatti quella eloquenza che mai non può arrivare al fine proposto? A che giova la nave dipinta ed ornata, che travaglia sempre tra i flutti e giammai non conduce gli uomini al porto, anzi se ne allontana sempre? O grande vantaggio delle anime! dilettare le orecchie del popolo, dare a se stesso lodi divine, allegare con labbro rotondo 1 fiilosofi, cantare con vana modulazione i carmi dei poeti, e l'evangelo di Cristo abbandonare O rammentarlo di

rado!

.... V'è (oggi) una falsa genia di pretesi poeti, i quali non sanno fare altro che correre dietro ai Greci e ai Romani, ripetendone le idee, imitandone la forma, il metro, invocando perfino i loro medesimi dei, quasi non fossimo uomini al pari di loro, non avessimo la nostra ragione e

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