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diocesi di Luni, dirigendo la prima cantica a Uguccione della Faggiuola, così gli scrive: - Qui capitò Dante, o lo movesse la religione del luogo, o altro qualsiasi affetto. Ed avendo io scôrto costui, sconosciuto a me ed a tutti i miei frati, il richiesi del suo volere e del suo cercare. Egli non fece motto, ma seguitava silenzioso a contemplare le colonne e le travi del chiostro. Io di nuovo il richiedo che si voglia e chi cerchi; ed egli, girando lentamente il capo e guardando i frati e me, risponde, Pace! Acceso più e più della volontà di conoscerlo e sapere chi mai si fosse, io lo trassi in disparte, e fatte seco alquante parole, il conobbi; chè, quantunque non lo avessi visto mai prima di quell'ora, pure da molto tempo erane a me giunta la fama. Quando egli vide ch'io pendeva dalla sua vista, e lo ascoltavo con raro affetto, e' si trasse di seno un libro, con gentilezza lo schiuse, e sì me l'offerse, dicendo: Frate, ecco parte dell'opera mia, forse da te non vista; questo ricordo ti lascio, non dimenticarmi. Il pòrtomi libro io mi strinsi gratissimo al petto, e, lui presente, vi fissi gli occhi con grande amore. Ma vedendovi le parole vulgari, e mostrando per l'atto della faccia la mia meraviglia, egli me ne richiese. Risposi ch'io stupiva egli avesse cantato in quella lingua, perchè pareva cosa difficile e da non credere che quegli altissimi intendimenti si potessero significare per parole di vulgo; nè mi pareva convenire che una tanta e sì degna scienza fosse vestita a quel modo plebeo. Ed egli: Hai ragione, ed io medesimo lo pensai; e allorchè da principio i semi di queste cose, infusi forse dal cielo, presero a germogliare, scelsi quel dire che più n'era degno; nè solamente lo scelsi, ma in quello presi di botto a poetare così:

Ultima regna canam fluido contermina mundo,
Spiritibus quæ late patent, quæ præmia solvunt
Pro meritis cuicumque suis.

Ma quando pensai la condizione dell'età presente, e vidi i canti degl'illustri poeti tenersi abjetti, laonde i generosi uomini, per servigio de' quali nel buon tempo scrivevansi queste cose, lasciarono, ahi dolore! le arti liberali a' plebei; allora quella piccioletta lira onde m'era provveduto, gittai, ed un'altra ne temprai conveniente all'orecchio de' moderni, vano essendo il cibo ch'è duro apprestar a bocche di lattanti ».

Di fatto l'Alighieri osò adoprare l'italiano a descriver fondo a tutto l'universo; e vi pose il vigore, la rapidità, la libertà di una lingua viva. Che se egli non la creò, la eresse al volo più sublime; se non fissolla, la determinò, e mostrò ciò che poteva. Togli le voci dottrinali, o quelle ch'egli creava per bisogno o per capriccio, avvegnachè vantavasi di non far mai servire il pensiero alla parola, o la parola alla rima (3), le altre sue son quasi tutte vive. Se, come alcuno fantastica, egli fosse andato ripescandole

(3) La dimostrazione di fatto può vedersi in GALVANI, Sulla verità delle dottrine

perticariane nel fatto storico della lingua. Milano 1845, pag. 124 e seg.

da questo o da quel dialetto, avrebbe formato una mescolanza assurda, pedantesca, senza l'alito popolare che solo può dar vita. Forse le prose e i versi de' suoi contemporanei, quanto a parole, differiscono da' suoi? Nato toscano, non ebbe mestieri che di adoperare l'idioma materno; e le voci di altri dialetti, che per comodo di verso pose qua e là, sono in minor numero che non le latine o provenzali, a cui non per questo pretese conferire la cittadinanza.

La società non si trovava abbandonata al fatale arbitrio delle podestà di fatto; tra ineffabili guai, la vita si effondeva in tutta la pienezza fino alle membra estreme; una essendo la credenza, uno il gran disegno, i personaggi, le discussioni, la teosofia, la scolastica, questa feudalità del pensiero.

Il personaggio di Virgilio figurava già in molte delle leggende popolari. L'amore e le sue vicende erano il soggetto abituale dei Trovadori.

Il devoto entusiasmo di tutta cristianità si accentrò nel poeta, il quale tolse a cantare l'uomo, e come i suoi atti sono retribuiti nell'altro mondo. Il dispetto per gli avversarj, l'aver veduto e partecipato alle miserie d'Italia, il conversare cogli artisti che allora gli davano esempio di ardito rinnovamento, maturarono la vasta sua facoltà poetica; e amore, politica, teologia, sdegno gli dettarono la Divina Commedia, la quale, come l'epopea" più ardita, così è il componimento più lirico di nostra favella, giacchè nel canto egli trasfonde l'ispirazione propria, l'entusiasmo onde ardeva per la religione, per la patria, per l'Impero, e gl' immortali suoi rancori.

Nel tempio, nel duomo, si erano tutte le arti novamente congiunte, sicchè Dante ripigliava l'epopea vera, che comprendesse e avvicendasse i tre elementi della poesia, racconto, rappresentazione, ispirazione, gli slanci della fantasia e le speculazioni del raziocinio; toccasse all'origine e alla fine del mondo; descrivesse terra e cielo, uomo, angelo e demonio, il dogma e la leggenda, l'immenso, l'eterno, l'infinito, colle cognizioni tutte della scuola d'allora.

L'universo è foggiato sul sistema di Tolomeo; la terra immobile al centro, e in giro ad essa la luna, mercurio, venere, il sole, marte, giove, saturno, le stelle fisse, il primo mobile, che nel suo roteare trae con sè tutti gli altri cieli. L'empireo è cielo immobile,... cagione del velocissimo movimento del primo mobile: cielo quieto, nel quale tutto il Mondo s'inchiude: e di fuor del quale nulla è. Esso è in luogo, ma formato fu solo nella prima Mente >.

Al limitare dell'inferno trova gli sciagurati che vissero senza infamia e senza lode, inettissima genìa, chiamata prudente dalle età che conoscono per unica virtù quella fiacca moderazione, la quale distoglie dall'esser vivi.

Le pene sono proporzionate al nocumento che produssero alla società; e a questo assunto sociale si riferiscono, chi ben guardi, le quistioni che in quel tragitto presenta e discute il poeta; le nimistanze civili, il libero arbitrio, l'indissolubilità dei voti, la volontà assoluta o mista, come di buon

padre nasca figlio malvagio, e come nell'eleggere uno stato non devasi andare a ritroso della natura. Dante è esatto nel misurare la grandezza delle colpe e il conseguente castigo, unendo alla finezza poetica la finezza morale. Nella distinta categoria degli incontinenti, bestiali, fra cui gli eretici, i violenti, i maliziosi, distingue le colpe peggiori, quando, fondate su istinto pervertito, hanno effetto fuori dal corso della natura, e più quando sono frutto di passioni, che quando abuso freddo di ragione.

Nell'inferno i condannati non si lagnano dei supplizj, bensì dei mali morali; Ugolino non sente il freddo, ma rode l'arcivescovo Ruggeri e domanda d'infamarlo: Farinata non move costa, e più di quel fuoco gl'incresce la sconfitta de' suoi; Cavalcanti teme che sia morto suo figlio, dacchè nol vede con Dante: Francesca non bada al vento che li mena di qua di là, di su di giù, ma a quello che mai da lei non fia diviso >. Ciò rende tanto superiore l'idea dell'Inferno, mentre in pittura si accosta al burlesco, intanto che bellissimi sono i paradisi del Gozzoli, di Mino da Fiesole, di frate Angelico.

Arrivato al punto al qual son tratti d'ogni parte i pesi ›, Dante è capovolto, e risale pei balzi del Purgatorio vedendo le anime che tornan belle espiando le colpe minori della vita, finchè siano degne di salir al cielo.

Nel Paradiso, Dante non può variare la perfezione morale, e passionare per la beatitudine; in quel torrente di musica, di luce, di movimento, noi restiamo attoniti più che commossi, difficilmente appassionandosi l'uomo per la vista della felicità.

Ma a vedere la gloria di Colui che tutte muove ›, attorniato dai nove ordini delle tre gerarchie, non può condurlo Virgilio; non basta la filosofia vuolsi la teologia personificata in Beatrice, - prima gioja del suo paradiso. Con essa il poeta si eleva di lume in lume sempre crescendo lo splendore e il riso di lei, cioè la chiarezza dell' intelligenza, finchè arriva coll'estasi davanti all'essenza divina.

A questa geometria si innestano variatissime e non sempre spiegabili allegorie. Il poeta, smarrito in una selva selvaggia, è minacciato da una lupa, una lonza, un leone, diversamente interpretati dai commentatori; v'è un'aquila, v'è un corvo, e ciò viepiù nel Paradiso, facendosi polisenso perfin Beatrice.

Il Boccaccio, di poco a lui posteriore, lasciò cadersi dalla penna che unico intento di Dante fosse il distribuir lodi o biasimo a coloro, di cui la politica e i costumi reputava onorevoli o vergognosi, utili o micidiali. Ridurre un sì vasto concetto alla misura d'un libello d'occasione non s'addice che a menti volgari, solite a veder soltanto allusioni e attualità, perchè in fatto stanno racchiuse in quella vastità dei generali che è il carattere degl'ingegni elevati. Il vero è che la Divina Commedia è poema eminentemente storico, dove vitupera ed esalta da uom di parte; irato persecutore, di tutto fa arme alla vendetta, e coll'autorità che danno l'ira, l'ingegno, la sventura, insieme

coi dolori e i rancori suoi, eternò le glorie e le sventure d'Italia (4). Tutti gli uomini e le cose che lo circondavano chiama ad austera rassegna, traendone concetti di speranza o di vendetta, attinge alla fede, alla scienza, all'amore, supreme aspirazioni dell'uomo, e nel concetto come nella forma unisce sublimità e vulgarità, amore ed ira, fede e discussione, contemplazione e operosità; ma la mal cristiana rabbia onde tesse l'orditura religiosa, pregiudica non meno alla forma che all' interna bellezza. E poichè fra gl' Italiani fu sempre grande il numero di questi infelici‹ che la patria non rivedono se non in sogno >, Dante fu immedesimato ai patimenti di tutti, preso come tipo di quanti soffrono tirannia ed ingiustizia.

Il problema cardinale, che Eschilo presentiva nel Prometeo, che Shakspeare atteggiò nell'Amleto, che Faust cercò risolvere colla scienza, don Giovanni colla voluttà, Werther coll'amore, fu l'indagine di Dante come di tutti i pensatori; questo contrasto fra il niente e l'immortalità, fra le aspirazioni a un bene supremo e l'abjezione di mali continui e inevitabili.

In fondo a tutti i fatti trovasi un mistero; l'origine e la destinazione loro: giacchè li vediamo attuarsi e procedere, e non sappiamo nè perchè nè verso dove. Oggi vi applichiamo mille opinioni, presumendo nell'infallibilità del senno individuale; allora quel mistero veneravasi.

Un primitivo peccato, una conseguente infelicità, una necessaria espiazione erano i canoni dominanti nel medioevo, e questi rappresentò Dante. Sapienza, onnipotenza, bontà, appartengono unicamente a Dio: all'uomo il peccatore, punizione di esso, i mali, che affliggono la vita presente, ma ne preparano una migliore.

Secondo la persuasione, comune a tutta la cristianità, Dante il mondo contingente contempla sempre in relazione all'eterno. Non conoscendosi i temperamenti dell'educazione, tutto allora veniva spinto all'assoluto; e Dante ci dipinge que' tempi colla credulità, coll'ira, la morale, la vendetta. Secondo è uffizio del poeta, s'erge consigliere delle nazioni, giudice degli avvenimenti e degli uomini, re dell'opinione. Dante non poeteggia per istinto, ma tutto calcola e ragiona, compagina l'uno e trino suo poema in tre volte trentatrè canti, oltre l'introduzione, e ciascuno in un quasi egual numero di terzine (5); e gli scomparti numerici cominciati dal bel primo verso (nel mezzo), lo accompagnano per le bolge, pei balzi, pei cieli, a nove a nove coordinati. Questo rispetto per la regola, questo fren dell'arte che

(4) Dante, nel Convivio, inveisce contro coloro, che per malvagia disusanza del mondo, hanno lasciato la letteratura a coloro che l'hanno fatta, di donne, meretrice. A vituperio di loro, dico che non si debbono chiamare letterati; perocchè non acquistano la letteratura per suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari e dignità; siccome non si deve chiamare citarista chi tiene cetara in casa per pre

starla per prezzo e non per usarla per sonare ». I, 9.

(5) Sono cento canti in 14,230 versi, ripartiti in modo, che la prima cantica è appena superata di trenta dalla seconda, e di ventiquattro dalla terza. E a chi il supponesse caso, risponde il poeta: Ma perchè piene son tutte le carte Ordite a questa cantica seconda, Non mi lascia più ir lo fren dell'arte.

crea egli stesso e al quale pure si tien obbligato, non deriva da quell'amore dell'ordine, per cui vagheggiava la monarchia universale? Ivi i personaggi e l'autore e l'opera sua sono improntati d'una individualità incancellabile. Si è potuto dubitare se Omero, se Virgilio, se Calidasa, se Orazio, se David siano gli autori de' componimenti a loro attribuiti; di Dante mai non si dubitò.

La politica primeggia nell'Inferno; nel Purgatorio si associa alla filosofia; alla teologia nel Paradiso, finchè negli ultimi canti svanisce nell'estasi. Ma sempre appare il sentimento della personalità dell'autore, ei pungenti ripetii dell'ingratitudine cittadina.

I poeti pagani, se non hanno alcuna salita al cielo, sono pieni di calate all'inferno. I Padri cristiani poco insistettero sul descriverlo, e di volo vi passa sopra anche l'estatico di Patmos; ma cresciuta la barbarie, parve si volessero rinforzare i ritegni dal male col divisare a minuto i fieri supplizj, che aspettano i rei di là della tomba. Quando unico sentimento comune era il religioso, in centinaja di leggende ricomparivano viaggi all'altro mondo. La Commedia di Dante, pertanto, non è che una delle tante visioni della vita futura, dovuta, come le altre, al caldo fervore religioso di quei tempi, eccettochè, laddove le altre visioni non sono che rozzi parti di fantasie grossolane, questa di Dante è l'opera magistrale d'un ingegno sovrano. La forma letteraria della visione è molto antica nel medioevo, frequente assai, perchè, preoccupandosi fortemente le menti d'allora della sorte dell'uomo oltre tomba, si risguardava come salutare ammonimento di Dio l'aver veduto per sua grazia, o in estasi o in sogno, qualche visione della vita ultramondana. Qualche venerabile personaggio o l'ebbe veramente o credette d'averla avuta; e però tosto o da lui o da alcun altro se ne fece la descrizione e quella si mandò attorno per salutare edificazione dei fedeli e si inculcò di leggerla; perciò appunto fu detta legenda, cosa da leggersi. Ma quelle descrizioni delle pene dei malvagi e dei godimenti dei buoni son pure strane e grottesche! Parve che la grossa fantasia si sia sforzata non per altro se non per descrivere tormenti inauditi, scene spaventose di diavoli, e l'inferno immaginato come una cupa, vasta e nera grotta sotterranea, che è la cucina di Belzebù, al quale i dannati sono apprestati in vivanda diversamente cucinata, e il paradiso descritto come una reggia splendidissima di qualche gran sovrano o come un giardino pieno di ogni delizia. Molto probabilmente le visioni più antiche dovettero essere le orientali, scritte da monaci e da anacoreti; poi vennero le occidentali. Ecco il Viaggio di San Brandano che trova in un'isola, abbandonata in mezzo al mare, l'inferno, laddove i demonj battevano spietatamente con magli su incudini le anime dei peccatori. Ecco la Visione di San Paolo che si crede dell'undecimo secolo: la Visione di Tugdalo o Tundalo, che rappresenta l'inferno come una immane cucina, il Purgatorio di San Patrizio, in Irlanda, il viaggio di Guerino il Meschino, che scende a laghi di fiamme, ove le anime si purgano, e nell'inferno, disposto in sette cerchi concentrici un sotto l'altro, in

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