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Della Rovere. Allora, collo stesso stile enfatico, sclamava il

Sasso:

Aperto è il tempio del bifronte Giano,
Suona Megera la bellica tromba,
Arme arme il cielo e la terra rimbomba,
Di navi è fatto un ponte all' oceano.
Marte ha la spada sanguinosa in mano,
Bellona il dardo, la lancia e la fromba,
Esce il Furor dalla tartarea tomba,
Per troppo martellar suda Vulcano.
Armasi Serse, Mitridate e Breno

Per far Italia misera e meschina,
Farsalia, Xanto, Canne e Trasimeno.
Gerusalemme, il tuo Sion rovina!...

E quando, corsa felicemente tutta la Penisola, i Francesi furono padroni di Napoli, il Tebaldeo mestamente osservava:

Scorno eterno all' italico paese,

Quando fia detto che un regno si forte
Contra Francesi non si tenne un mese!

E con amara comparazione all' antica virtù:

Nei tuoi campi non pose il piè si presto
Annibal, che combatter gli convenne:
Nè mai si afflitta il barbaro ti tenne,
Che al difender non fosse il tuo cuor desto.

Ed or, Italia,onde procede questo,

Che un picciol Gallo, che l' altr' jer qui venne,
Per ogni nido tuo batta le perne,

Senza mai ritrovarsi alcuno infesto?

Ma giusto esser mi par che il ciel ti abbassi,
Chè più non fai Camilli o Scipioni,
Ma sol Sardanapali e Midi e Crassi.
Già un'oca tua, se guardi ai tempi buoni,
Scacciare lo poté dai Tarpei sassi:
Or aquile non pon, serpi e leoni.

Come il popolo, così i poeti, interpreti del popolare sentimento, si volsero trepidanti a quei Signori d'Italia, che serbavano vestigie dell'antica virtù, scongiurandoli a mettersi a capo della

magnanima impresa. Ad Annibale Bentivoglio cosi diceva il Tebaldeo:

Tu senti, Signor mio, quanta ruina

Giù dall' Alpe ne vien, per fiaccar l'ossa
A Italia....

Tu che a imprese stupende il ciel destina,
Ripara col tuo ingegno a tal percossa;

Fa che amare il tuo nome Ausonia possa....

E se si dice: Annibale la tenne

Molt' anni afflitta; fa ch' ancor si dica:

Annibal contro a morte la sostenne.

Ma le maggiori speranze erano collocate in Venezia, come si vede da questo Sonetto del Sasso:

Non dormir più, Leon, l'artiglio e il dente

Adopra, chè di Francia si disserra,
Come tu vedi, tanta orrenda guerra,
Che tutta Italia piangerà dolente.
Non menò Serse in Grecia tanta gente,
Quanta or ne viene per mare e per terra:
Marte la spada sanguinosa afferra,

E fulminando va verso Oriente.
Lucca, Pisa, Firenze, Siena e Roma

Senza colpo di spada e di saetta,
Le spalle han posto sotto grave soma.

Non dormir più, Leon, se ti diletta

Cinger di verde allor l'aurata chioma,

Chè mal provvede al mal chi troppo aspetta.

Di un lungo Capitolo di Panfilo Sasso ad Agostino Barbarigo, doge di Venezia, evidentemente scritto quando la ruina di Napoli era inevitabile, rechiamo i seguenti squarci: '

Italia tanto celebrata e invitta,
Italia già si trionfante e degna,
Or dolorosa, appena si tien dritta.
Movi, Signor, la gloriosa insegna,

Che, mossa, a tutto il mondo fa paura;
Soccorri a lei ch'è di miserie pregna.

1 Il Capitolo è il XXX e fu ripubblicato dal Parisotti, come inedito e attribuendolo

al Tebaldeo, nella raccolta del Calogerà, vol. XVIII, pag. 47. Se avesse cercato nelle Rime del Sasso, il Parisotti sarebbesi accorto del suo doppio errore.

Slega il Leon, che tanto è di natura
Orrendo e forte, ch' ogni altro animale.
A lui, come la cera al fuoco dura.
Il dente ha acuto e ben pennate l' ale,

Nervosa e soda ed unghiata la branca;
Non potrà contro a lui forza mortale....
Serse, Alessandro, Dario e Tolomeo,

Han fatto lega, e già son presso all' Arno
E van per ruinare il Colosseo....
Senza colpo di spada o suon di tromba

Fa della nostra gente il popol crudo,
Come falcon suol far della colomba.
Ogni cuor di valore è casso e nudo,
Tutta la terra di Saturno trema,

Che fu già di Bellona il primo scudo.
Non è spirto sì fier ch'ora non tema;
Niuno aspetta un sol colpo di lancia,

Par che Italia sia giunta all' ora estrema.

Firenze dolorosa e grama, che ancora invoca l'ombra di Loren. zo, si volge al Leon di San Marco; altrettanto fa la Pantera, ossia Lucca, altrettanto la Lupa senese, altrettanto Pisa: e Roma pur essa drizza le braccia a Venezia, rammemorando con dolore Scipione, Cesare e gli altri antichi duci, e quasi presaga di ciò che le avverrà sotto il pontificato di Clemente:

Portici, curie, pretorj e teatri,

Torri, rocche, colossi, aurati tetti,
Luoghi presto saranno inculti ed atri.
Feste, canti, piacer, giuochi e diletti,
Ogni sollazzo, ogni piacevolezza
Muterassi in affanni, ire e dispetti.
Lassa, Signore, omai questa durezza:
Conforta la tua eccelsa Signoria
Che fuor mi tiri di tanta tristezza.
Non comportar che 'l figliuol di Maria
Veda il Vicario suo con tanta furia
Cacciar da gente truculenta e ria.
Abbraccia Alfonso tuo, che la mia Curia
Si sforza di esaltar, come ognun vede,
E vendicarmi da sì grave ingiuria.

Non ti fidar, chè non si trova fede

In barbarico cuor senza pietade,

Nato a sangue, tumulto, incendj e prede.
Difendi la tua dolce libertade:

Non patir mai che il fier Biscione alloggi

Il Gallo appresso della tua cittade.

E, confortando a fidarsi della spada e del senno del mantovano
Marchese, cosi ripiglia:

Non temer, poichè teco armato viene
Francesco illustre di casa Gonzaga,
Che ha collocato in te tutta sua spene.
Credi alla mente mia di ben presaga

Che questo a noi sarà come Camillo.

Le armi venete sotto la condotta di quel Francesco Gonzaga, che per impresa portava un Sole, erano, dunque, l'unica speranza degl' Italiani:

Ogni uom ti chiama come uomo immortale,

Per scacciar questa nebbia col tuo Sole....
Tanto è possente e splendido il Leone,

Quanto ha il Sol seco: senza Sol non luce,
Benchè in cielo abbia più stelle, il Biscione.

Ogni stella dal Sol prende sua luce:

Onde Italia dolente a paragone

Non durerà, se non ha te per duce.

1

Cosi diceva il Sasso, invocando la riscossa di San Marco e la prudenza bellica del Gonzaga; e continuava:

Questi, come colui che sotto Antandro

Pianse la moglie, dal fiorito loco

Ove regnò colla sua madre Evandro,
Caccerà Turno....

Abbasserà la superbia di Franza,

E la sua gente barbara e perversa,
Che leva il capo con tanta arroganza....

Italia, godi, chè la fiamma accesa

Sarà del lume tuo, frigida e morta,
E vendicata ogni tua grave offesa.

1 Cfr. anche i Sonetti 296, 326, 371, 373, 374.

Colui che il Sol nello stendardo porta
Ti trarrà fuor di questo iniquo bando,

Tuo padre e duce, tuo governo e scorta.

É notissimo come l'esercito della Lega si affrontasse il 6 luglio del 95 sul Taro colla gente di Francia. A chi la vittoria spettasse, fu disputato; ma ad ogni modo splendè di chiara luce in quell' incontro la virtù del Gonzaga, del quale più tardi a ragione diceva Torquato Tasso:

Carlo ei sostenne, a cui non fe' riparo
Italia, e tenne i Galli invitti a freno;
Non so se vincitor, non vinto almeno,
E 'l duro guado a lor rendė si caro.

Allora i poeti levarono alto il nome del Gonzaga, ravvisando in lui lo scudo e la lancia d'Italia. Cosi, infatti, dicevagli il Tebaldeo:

Mentre il nemico fuggitivo trema,

Séguil; nè por giù l'onorata spada,

Sin ch' oltre l' Alpe con vergogna gema....
Così al presente essendo Ausonia offesa
Da genti esterne, e già il Napoletano
Regno, e gran parte di Toscana presa,

Nè si trovando alcun spirto italiano
Che contrastasse all' impeto del Gallo,
Tu solo ardisti prender l'arme in mano;
E se ciascun nel sanguinoso ballo
Come te della gloria aveva cura,
Il re Carlo di te venia vassallo.
Fûr solo le tue genti sassi e mura
Al barbaro furor, come fa fede
Il Taro a Mantoa fatto sepoltura.
Basta che l'oste fier ritrasse il piede

Dal tuo assalto impaurito, e in Asti è corso,
Lasciando in preda le mal tolte prede.

Séguita, e poni al dolor crudo il morso,

E alla salute dell' Esperia pensa,

Che, perso te, non ha più alcun soccorso.

In altro Capitolo dello stesso autore si accenna a certi ́ disordini

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