Della Rovere. Allora, collo stesso stile enfatico, sclamava il Sasso: Aperto è il tempio del bifronte Giano, Per far Italia misera e meschina, E quando, corsa felicemente tutta la Penisola, i Francesi furono padroni di Napoli, il Tebaldeo mestamente osservava: Scorno eterno all' italico paese, Quando fia detto che un regno si forte E con amara comparazione all' antica virtù: Nei tuoi campi non pose il piè si presto Ed or, Italia,onde procede questo, Che un picciol Gallo, che l' altr' jer qui venne, Senza mai ritrovarsi alcuno infesto? Ma giusto esser mi par che il ciel ti abbassi, Come il popolo, così i poeti, interpreti del popolare sentimento, si volsero trepidanti a quei Signori d'Italia, che serbavano vestigie dell'antica virtù, scongiurandoli a mettersi a capo della magnanima impresa. Ad Annibale Bentivoglio cosi diceva il Tebaldeo: Tu senti, Signor mio, quanta ruina Giù dall' Alpe ne vien, per fiaccar l'ossa Tu che a imprese stupende il ciel destina, Fa che amare il tuo nome Ausonia possa.... E se si dice: Annibale la tenne Molt' anni afflitta; fa ch' ancor si dica: Annibal contro a morte la sostenne. Ma le maggiori speranze erano collocate in Venezia, come si vede da questo Sonetto del Sasso: Non dormir più, Leon, l'artiglio e il dente Adopra, chè di Francia si disserra, E fulminando va verso Oriente. Senza colpo di spada e di saetta, Non dormir più, Leon, se ti diletta Cinger di verde allor l'aurata chioma, Chè mal provvede al mal chi troppo aspetta. Di un lungo Capitolo di Panfilo Sasso ad Agostino Barbarigo, doge di Venezia, evidentemente scritto quando la ruina di Napoli era inevitabile, rechiamo i seguenti squarci: ' Italia tanto celebrata e invitta, Che, mossa, a tutto il mondo fa paura; 1 Il Capitolo è il XXX e fu ripubblicato dal Parisotti, come inedito e attribuendolo al Tebaldeo, nella raccolta del Calogerà, vol. XVIII, pag. 47. Se avesse cercato nelle Rime del Sasso, il Parisotti sarebbesi accorto del suo doppio errore. Slega il Leon, che tanto è di natura Nervosa e soda ed unghiata la branca; Han fatto lega, e già son presso all' Arno Fa della nostra gente il popol crudo, Che fu già di Bellona il primo scudo. Par che Italia sia giunta all' ora estrema. Firenze dolorosa e grama, che ancora invoca l'ombra di Loren. zo, si volge al Leon di San Marco; altrettanto fa la Pantera, ossia Lucca, altrettanto la Lupa senese, altrettanto Pisa: e Roma pur essa drizza le braccia a Venezia, rammemorando con dolore Scipione, Cesare e gli altri antichi duci, e quasi presaga di ciò che le avverrà sotto il pontificato di Clemente: Portici, curie, pretorj e teatri, Torri, rocche, colossi, aurati tetti, Non ti fidar, chè non si trova fede In barbarico cuor senza pietade, Nato a sangue, tumulto, incendj e prede. Non patir mai che il fier Biscione alloggi Il Gallo appresso della tua cittade. E, confortando a fidarsi della spada e del senno del mantovano Non temer, poichè teco armato viene Che questo a noi sarà come Camillo. Le armi venete sotto la condotta di quel Francesco Gonzaga, che per impresa portava un Sole, erano, dunque, l'unica speranza degl' Italiani: Ogni uom ti chiama come uomo immortale, Per scacciar questa nebbia col tuo Sole.... Quanto ha il Sol seco: senza Sol non luce, Ogni stella dal Sol prende sua luce: Onde Italia dolente a paragone Non durerà, se non ha te per duce. 1 Cosi diceva il Sasso, invocando la riscossa di San Marco e la prudenza bellica del Gonzaga; e continuava: Questi, come colui che sotto Antandro Pianse la moglie, dal fiorito loco Ove regnò colla sua madre Evandro, Abbasserà la superbia di Franza, E la sua gente barbara e perversa, Italia, godi, chè la fiamma accesa Sarà del lume tuo, frigida e morta, 1 Cfr. anche i Sonetti 296, 326, 371, 373, 374. Colui che il Sol nello stendardo porta Tuo padre e duce, tuo governo e scorta. É notissimo come l'esercito della Lega si affrontasse il 6 luglio del 95 sul Taro colla gente di Francia. A chi la vittoria spettasse, fu disputato; ma ad ogni modo splendè di chiara luce in quell' incontro la virtù del Gonzaga, del quale più tardi a ragione diceva Torquato Tasso: Carlo ei sostenne, a cui non fe' riparo Allora i poeti levarono alto il nome del Gonzaga, ravvisando in lui lo scudo e la lancia d'Italia. Cosi, infatti, dicevagli il Tebaldeo: Mentre il nemico fuggitivo trema, Séguil; nè por giù l'onorata spada, Sin ch' oltre l' Alpe con vergogna gema.... Nè si trovando alcun spirto italiano Dal tuo assalto impaurito, e in Asti è corso, Séguita, e poni al dolor crudo il morso, E alla salute dell' Esperia pensa, Che, perso te, non ha più alcun soccorso. In altro Capitolo dello stesso autore si accenna a certi ́ disordini |