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il Sonetto smussò quanto potè meglio le punte epigrammatiche; la Canzone ritornò alla grave e decorosa architettura petrarchesca: ogni forma dell' arte fu tenuta lontana dalle volgarità non solo, ma dal fare popolare e facile, ponendo per canone il Bembo che non debba lo scrittore « al popolo accostarsi. » Cosi la poesia lirica delirante venne curata con una doccia fredda di Petrarchismo. Ma, curata per tal modo dai suoi medici, non però riprese ella florida vita, e durò a languire per tutto il Cinquecento: e se a migliorarne le sorti fosse bastato il numero de' curanti, in niun secolo meglio avrebbe potuto risorgere. Tuttavia, di tale infiacchimento non tutta la colpa va a coloro che porsero i rimedj, ma bensi a quelli che a tal misera condizione l'avevan recata; e in fin dei conti, e per l'opera data a ravviare la delirante poesia e per aver promosso, egli veneziano, il primato filologico della Toscana, il Bembo è benemerito oltre ogni dire. Ma ogni eccesso nel mondo morale ne trae seco un altro: e le fiamme della Comune spiegano l'acqua miracolosa di Lourdes.

Nè migliori sorti arrisero dipoi alla Lirica: perchè, perdutasi la indipendenza e la libertà politica, dai padroni indigeni e stranieri le venne vietato il campo della vita pubblica, e dall'Inquisizione ristretto alla devozione soltanto, quello dell' affetto religioso: non altro rimanendole che il dir d'amore. E anche questo divenne esercizio d'ingegno, al quale senza scandalo potevano provarsi monsignori e abati: tanto tutti sapevano che la sostanza della poesia era falsa e finta; tanto era invalsa la dottrina che la poesia fosse arte d' imitazione, non dal vero, ma da un qualche modello celebrato; forma non del cuore, ma dell' intelletto; e che, lasciato da banda l' Alighieri, presso il quale il Bembo aveva scorto voci rozze e disonorate, niuna salvezza vi fosse fuori del culto idolatra al Petrarca. Se non che, anche i dolciumi ingenerano sazietà, e dal Petrarchismo bembesco si passò al Marinismo; cioè a rinnovare le stranezze, delle quali due secoli innanzi si eran avuti quei saggi, onde abbiam cercato rinfrescar la memoria. E dipoi, per supremo rimedio, si ritornò ancora ad un Petrarchismo sempre più illanguidito e snervato colle arcadiche pastorellerie. Per tal modo fu sempre un'alternativa di stimolanti e di deprimenti, finchè la vera Lirica, la Lirica che veste il vero colle forme del bello, risorse fra noi col maschio canto di Giuseppe Parini. A. D' ANCONA.

IL PROCESSO DI
DI G.

G. GALILEI.

La questione del processo del Galilei è di nuovo all'ordine del giorno nel mondo scientifico. Quasi contemporaneamente videro la luce in Germania ed in Italia due libri di somma importanza, destinati ad arricchire la letteratura già così copiosa intorno al grande Italiano ed alla sua lotta colla Curia Romana. Il primo di essi, dovuto alla penna elegante del signor Carlo di Gebler (Galileo Galilei und die Röm. Curie, nach den authentischen Quellen: Stuttgart, Cotta, 1876) ha ripreso la dolorosa storia delle persecuzioni e del processo di Galileo, ed esaminati di nuovo colla più sana critica tutti i documenti già noti. Il secondo, che ha per autore l'illustre comm. Domenico Berti, ha reso alla scienza della storia l'importantissimo servigio di presentare nella sua integrità il celebre volume numero 1182 dell' Archivio segreto Vaticano, contenente tutti gli atti del processo, e già edito, ma imperfettamente in Francia dal De l'Epinois (Il Processo originale di Galileo Galilei, pubblicato per la prima volta da Domenico Berti: Roma, Cotta, 1876).

Lo ripetiamo: il servigio che il comm. Berti ha reso alla scienza colla sua ultima pubblicazione, è grandissimo, e gli si deve la più profonda gratitudine per aver posto fine alle alterazioni di monsignore Marini, e colmate le lacune dello scritto del De l'Epinois. Non si deve tacere però che dai documenti ora editi per la prima volta non vengono risolute, come egli suppone, tutte le difficoltà e tutti i dubbii, che presentava anche per lo innanzi il processo di Galileo. Il sospetto della falsificazione del documento principale, sul quale si appoggiò la condanna del grande Scienziato, non è eliminato

dai nuovi documenti nè dalla interpretazione, che il comm. Berti ne dà nelle Introduzioni storiche. Oltre a più validi argomenti intrinseci avremmo desiderato una più minuta e accurata descrizione del Codice Vaticano e massime del documento sospetto: un facsimile accurato di alcune pagine non sarebbe stato di troppo là dove così forti ragioni parlano contro l'autenticità dell'atto del 1616. E neppure la critica dei vecchi e nuovi documenti ci pare nello scritto del comm. Berti troppo accurata e sottile. Basta accennare a quel che egli scrive sulla vecchia questione della tortura: nella quale è evidente che il non aver compreso il vero senso del Decreto Papale del 16 giugno 1633, lo ha portato ad inutili ed infondate congetture.

Tutte le accennate questioni si possono dunque considerare come ancora aperte, ed è in questa convinzione che presentiamo ai lettori della Nuova Antologia una importante risposta del signor di Gebler alla lettera, che il comm. Berti gli rivolgeva in appendice al suo pregiato volume. L' egregio scrittore tedesco svolge con tutta l'ampiezza e con tutta la precisione richieste dalla gravità di simili argomenti le osservazioni critiche, che si affollarono alla nostra mente ad una prima lettura degli Atti completi del processo e delle illustrazioni del celebre Editore. Egli desiderò che questa sua replica vedesse la luce per la prima volta in italiano ed in questa Rivista; segno confortante anche questo, che le relazioni intellettuali fra Germania ed Italia vanno facendosi ogni di più strette e frequenti.

G. P.

Chiarissimo Signore.

Ogni storico deve essere obbligatissimo alla Signoria Vostra per la pubblicazione non ha guari avvenuta di tutti gli atti del celebre Processo Galileiano, quali essi si trovano oggi nel noto volume dell' Archivio segreto del Vaticano. Imperocchè fino a questa pubblicazione nessuna esposizione di un processo d'importanza mondiale come quello del Galilei poteva pretendere ad una completa esattezza, essendo gli atti conosciuti solo incompletamente, ed era possibile, sebbene poco verisimile, che Enrico De l'Epinois nella sua edizione del 1867 avesse pubblicato in estratto o a dirittura soppressi quei documenti, che dati per esteso avrebbero potuto cambiare essenzialmente il concetto del processo. Debbo qui aggiungere subito che ciò non è avvenuto, come risulta dal di Lei volume; che quindi

le conseguenze, che gli storici avevano già tratte in base al materiale pubblicato da Enrico De l'Epinois, non rimangono scosse per nulla dalla recente pubblicazione di tutti gli atti processuali. I documenti infatti non modificano in alcuna guisa la esposizione storica, che fin qui si ebbe del processo, sebbene essi giungano molto graditi a completare i documenti già noti.

> Questo premesso, vengo a rispondere alla lettera aperta che Ella ebbe la gentilezza di dirigermi in fine del suo pregiato volume. Nel mio scritto pubblicato pochi mesi fa in Germania col titolo: Galilei und die Römische Curie, abbracciai l'opinione, che per la prima. volta nell'anno 1870 fu espressa quasi contemporaneamente e senza che l'uno sapesse dell' altro dal dott. Wohlwill in Germania, dal professor Gherardi in Italia, ed alla quale hanno aderito di già molti storici, come il prof. cav. Pietro Riccardi in Modena, il prof. Cantor in Heidelberg, il prof. Enrico Martin in Parigi, ed altri. Essa consiste in ciò, che la Curia Romana si sia servita di una falsificazione di documenti a fine di potere condannare Galilei nell'anno 1633 con una certa apparenza di giustizia. Nel corso de' miei lunghi studii sulla storia dei rapporti del Galilei con Roma dovetti convincermi sempre. più della gravità di un tale sospetto, cosicchè, quando tentai finalmente, primo in Germania, di dare alla luce un esteso lavoro sopra il grande antesignano della idea Copernicana, aveva a mia disposizione un ricco materiale dei più gravi argomenti, i quali non solo mi rendevano possibile una difesa di quella opinione, ma ne facevano a dirittura un dovere per lo storico.

» Vostra Signoria dichiara nella sua pregiatissima lettera che non divide quella opinione, anzi assicura nel modo il più reciso, che la medesima « si discosta affatto dal vero. » Una confutazione dei molti argomenti, che io riferisco nel mio libro, non è parsa necessaria alla Signoria Vostra, eppure una confutazione ampia e completa dei medesimi sarebbe stato il solo mezzo per convincere me e tutti coloro che accolgono questa idea del Processo Galileiano, della sua erroneità. Certo ciò sarebbe stato malagevole in una lettera di poche pagine, ma avrebbe richiesto un più esteso lavoro. Pur tuttavia Ella adduce nella sua pregiatissima lettera alcuni argomenti destinati a confermare la esattezza della sua asserzione. Non può esser dunque mia intenzione di riprodurre qui i molteplici argomenti, che danno aperta testimonianza di una falsificazione: io debbo per essi rimandare al mio scritto, dove mi sono sforzato di raccogliergli colla maggiore completezza possibile. Mi permetterò invece di rispondere in breve alle ragioni, che Ella mi oppone.

» Vostra Signoria afferma innanzi tutto, che fra i tre documenti dell'anno 1616, che si riferiscono specialmente alla nostra questione, regna completo accordo. Esaminiamogli ancora una volta, e vediamo a qual risultato si giunga. Il documento del 25 febbraio 1616 dice, che il Cardinale Mellini notificò ai RR. PP. Assessore e Commissario del Santo Officio, avere il Santo Padre ordinato al Cardinale Bellarminout vocet coram se dictum Galileum, eumque moneat ad › deserendam dictam opinionem; et si recusarerit parere, Pater Com› missarius coram notario et testibus faciat illi praeceptum ut omnino abstineat, hujusmodi doctrinam et opinionem docere aut defendere » seu de ea tractare: si vero non acquieverit, carceretur. » Questo documento è seguito nel Manoscritto Vaticano da una relazione, che apparentemente contiene un protocollo ufficiale sopra il corso della procedura ordinata come sopra dal Papa. È prezzo dell' opera riferire qui completamente questo singolare documento:

Die Veneris 26 ejusdem. In palatio solitae habitationis D. III. Car» dinalis Bellarmini et in mansionibus D. supradicti Illustrissimi, idem Ill. E. Cardinalis, vocato supradicto Galileo, ipsoque coram D. S. Illustrissima existente in praesentia adm. R. Fratris Michaelis Angeli Seghitii de Laude, ordinis Praedicatorum, commissarii generalis S. Officii praedictum Galileum monuit de errore supradictae > opinionis et ut illam deserat; et successive ac incontinenter in mei » praesentia et testium, et praesente etiam adhuc eodem Ill. D. Cardinali, supradictus Pater Commissarius praedicto Galileo adhuc › ibidem praesenti et constituto praecepit et ordinavit pro nomine › S. D. N. Pape et totius Congregationis S. Officii, ut sopradictam opinionem quod Sol sit centrum mundi et immobilis et terra mc› veatur omnino relinquat, nec eam de caetero, quovis modo teneat, doceat aut defendat, verbo aut scriptis, alias contra ipsum procedetur in S. Officio; cui praecepto idem Galileus acquievit et parere promisit. Super quibus peractum Romae ubi supra, praesentibus ibidem ad Badino Nores de Nicosia in regno Cypri, et Augustino › Mongardo de Loco abbatis Rottz diocesis Politianeti, familiaribus › dicti Ill. Cardinalis testibus. »

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Non appena si paragoni questo documento con quello del 25 febbraio, si scuoprono le più strane contradizioni. Quivi il Cardinale Bellarmino riceve dal Papa l'incarico di chiamare a sè Galileo e di ammonirlo di abbandonare l'opinione del doppio movimento della terra, e nel caso che questi si rifiuti di obbedire (et si recusaverit parere), il Padre Commissario deve partecipargli davanti al no taro e ai testimoni l'ordine di astenersi affatto dall' insegnare, difen.

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