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rità di queste asserzioni, senza dubbio dovettero essere per lui di un gran conforto.

Il 23, giorno della prima rivista, il generale nel recarsi sulla piattaforma, dove era il Presidente e tutte le Autorità, passò accanto al segretario Stanton, il quale ebbe il coraggio di stendergli la mano: egli la rifiutò sdegnosamente. Pare che Stanton prendesse questo pubblico affronto assai filosoficamente, e che tutto finisse li.

Colla rivista del 24 maggio, nella quale l'esercito di Sherman fece splendida mostra, ha termine l'ultimo capitolo delle sue Memorie.

Le Lezioni militari della guerra, che egli offre per ultimo ai suoi lettori, sono destinate e specialmente adattate a un esercito e a uno scacchiere americano, e non possono per noi riuscire di grande utilità: perciò crediamo di poterci dispensare dal fermarvici sopra.

Riandando quanto abbiamo scritto sopra queste Memorie, ci sembra di essere stati giusti e imparziali, e se spesso si è dovuto ricorrere al pungiglione della critica, ciò nulla toglie a quell'alto sentimento di rispetto che deve inspirare un uomo dotato di si singolari virtù. Il generale Sherman, studiato nella sua idiosincrasia ci sembra un uomo che framezzo alle sue splendide doti avesse il difetto di esagerare d'alquanto a se stesso l'importanza di tutti i suoi atti, grandi e piccoli, e da questo avessero origine molti dei suoi errori. Come uomo di guerra rese eminente servigi alla sua patria, e come cittadino diede l'esempio dell'ossequienza e del rispetto alle leggi del suo paese, e questo è sufficiente per indicarlo al mondo come una delle più eminenti e simpatiche figure della gran Guerra di Secessione.

Luogot. Colonn. ROBERTI.

LE COMMEDIE DELL' ARIOSTO.

I.

Dal Medio Evo nacque la commedia e il romanzo. Ma la commedia, benchè d'una stessa origine, nata assai dopo il romanzo, tra i tempi di mezzo e i moderni, cioè tra il finire d'una civiltà e il principiare d' un'altra, ha veramente poco o nulla di Medio Evo; e, tranne la libertà del costume, nessuno di que' caratteri che informano tutte le opere d' una età, come nel romanzo e nella rappresentazioni sacre. La commedia rivisse in Italia, ove il Medio Evo fu più mite che altrove, e dove il romanzo, giunto decrepito, si trasformò in una elegante caricatura; sorse, dico, in una età che gli studii, già maturi e universalmente propagati, componevano di que' vecchi e nuovi elementi, mirabilmente fusi, un'arte nè antica nè moderna che da noi ancor dura. Ma qui bisogna distinguere. La vera commedia del Cinquecento non ha certo nelle vene una gocciola di sangue medievale, e fu cortigiana; se non che poco prima o poco dopo che ella nascesse, in un canto d'una repubblica, nè in città, ma in villa, nacque la Mandragola, e costei non cortigiana, ma nata dal popolo, repubblicana e battezzata, figliuola postuma e illegittima del Medio Evo, non va confusa colla sorella sbattezzata e pagana fino al midollo. Perchè il Rinascimento, chi non lo sa? creò una doppia corrente nella età di mezzo; e chi piglia ad esaminare un'opera d'arte, bisogna che cominci dalla fede di nascita. Segui insomma, due secoli dopo, alla commedia, quello che alla lirica dopo il Petrarca, anzi peggio; perchè il classicismo regnò più tirannicamente sulla

scena, onde il germe della commedia popolare rimase infecondo nella sola Mandragola. Fortuna che essa era immortale! Il Machiavello che negli ozii politici scolpiva, la scontrò un giorno che usciva da un chiostro, e oscenamente invaghitone la ritrasse nuda. Gl'ipocriti, antichi drudi, gridarono allo scandalo e con ragione; il suo gran peccato fu di spogliare uomini e cose, di pensare e scrivere a nudo.

Con questa Mandragola dunque, vero parto di Giove, rinacque il teatro. Uno scimunito fu il modello che piacque all'artista; ma non lo pensò, lo vide tra la folla, e quando messer Nicia comparve sulla scena, fu uno scoppio di risa universale. Cosi vide un frate, una bizzoca, un parassito; e compose una favola semplicissima, colla rapidità di chi ha un foglio di carta sotto la mano in un'ora d'ozio e disegna una caricatura. Parve da principio il profilo d'un uomo, ed era quello d'un secolo; parve un capriccio, e niente più, da trastullare il popolo; poi una satira oscena, poi un sacrilegio che scandolezzò mezza Europa. Questa, come tutte le altre sue opere, cadde sotto il marchio sacro della censura: ogni cosa sua allora puzzò d'inferno, prose e versi, fin le massime più ortodosse; il nome stesso dello scrittore ebbe un significato sinistro che sgomentava le coscienze. Fu insomma il rovescio del re Mida. Chi sa se egli senti il veleno della satira e se la Mandragola ebbe un fine politico? Certo è che moralmente e letterariamente il simbolo di re Mida gli calza bene. Non toccò nulla che sotto le sue dita non irrigidisse, perocchè necessaria. mente egli trasfondeva anche nello scherzo la rigida virtù del pensiero. La Man dragola è un sillogismo affilato come una spada; la favola breve e semplice, quanto basta ad esporre il fatto; non invenzione, non incidente, che non sia strettamente necessario: poche scene che si svolgono e si succedono rapidamente, cucite insieme col filo ordinario del senso comune, senza alcuno arti fizio.

Pare, quanto all'economia, una tragedia dell' Alfieri; di fuor di opera non c'è che una donnetta in chiesa, che domanda al padre confessore se l'anima del marito morto è in purgatorio. Non c'è ombra di satira interpolata nè d'imitazione classica; tutto nuovo da cima a fondo. Il tipo della commedia è popolare, la lingua volgare, la forma sciolta; strano contrasto colle smorfie erudite del tempo. Nel prologo l'autore fa un po' il saltimbanco di provincia, presentando a que' buoni popolani la sua invenzione prelibata, e promette di pagare il vino a chi non ride.

II.

L'Ariosto, ingegno meno profondo, ma dotato di più ricca immaginazione, bado meno ai caratteri che all'intreccio della favola e allo stile. L'indole sua romanzesca non gli concedeva di riposare a lungo sulla terra, tutto assorto, com'era di continuo, nelle mirabili fantasie che gli fiorivano dentro la mente. Il grande notomista metteva il ferro nella piaga e rideva nell' aprirla; ma il poeta scantonava gli ospedali, e se n'andava passo passo da Carpi a Ferrara, dietro all'armonia d'una stanza abbozzata, in pianelle. Lo storico è semplice, concettoso, profondo; il poeta vario ed ornato; l'uno individua il vizio e dalla stessa deformità de'caratteri deriva il ridicolo, l'altro dal ridicolo trae la riflessione morale; l'uno esamina ed espone freddamente il vizio con un cinismo quasi ributtante, l'altro freme e si scorda talvolta della commedia per la predica. Bel difetto fremere a contatto del vizio, massime a que' tempi; ma e il riso della commedia?

L'Ariosto fu insomma il Terenzio del Rinascimento, e creò la commedia letterata, commedia erudita, compassata, elegante; una cosa di mezzo tra il vecchio e il nuovo, tra il suo e quel d'altri, modello di lingua e di stile, come portava il tempo e il gusto raffinato de' Leli e Scipioni di Ferrara. E in un libro che sarà prezioso a chi farà la storia della commedia nel Cinquecento, si vede quanto Plauto, benchè lodato per la invenzione e novità degli argomenti, fosse nella opinione dei più superato da Terenzio. Non so se i più biasimassero, come fa l'autore del libro, Plauto e il Bibbiena, perchè nelle loro commedie non ebbero altro fine che il riso nulla insegnando; ma è certo che i tempi mutavano, e che alle doti principalmente dello stile è da riferire il gran concetto, in cui vennero le commedie dell' Ariosto, cosi da essere proposte ad esempio ed oscurare la stessa Mandragola. Chi non sa che la forma fu lo studio e il tormento di tutta la sua vita? Mutava e rimutava continuamente, limava, ritoccava, finchè il concetto risultasse dal tessuto morbido e trasparente della tormentata materia, finchè ogni errore della mano perplessa sparisse dal marmo, e in quello si specchiasse nel suo naturale atteggiamento, con tutte le soavi tinte della vita, l'idea. Ed allora esausto,

Come all'ultimo suo ciascuno artista,

staccava finalmente la mano dall'opera. Poteva come Apelle van

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tarsi unico nella grazia. Sulle commedie non sudò forse quanto allo stile come intorno al poema; con tuttociò ripigliando la Cassaria e i Suppositi fatte in gioventù e scritte in prosa, volle un venti anni dopo metterle in versi. E inventò lo sdrucciolo, come dice il Pigna, «ritrovando cosi la via dello iambo, che d'ordina"rio è appunto di dodici sillabe. »1 La scoperta, fosse anche tale, non è un gran che; ad ogni modo se lo sdrucciolo è una cattiva imitazione del giambo, l'aver egli nell'età matura introdotto il verso nella commedia, mostra il bisogno che egli sentiva di chiudere in una forma metrica i suoi concetti. Nella prosa, mista di latino e di volgare, trascurata dai dotti, incertissima nelle forme, non vide nè dignità nè bellezza e la ripudiò.

III.

Finiva il secolo latinizzante e grecizzante: il gran travaglio della coltura antica avea già dato buoni frutti, ma il tallo fioriva con soverchio rigoglio a scapito del vecchio tronco. Bisognava che la furia de'grammatici rimettesse, e agli umanisti e filologi pedantissimi che sotto alle crollate repubbliche del Medio Evo sognavano quella di Platone, succedesse una generazione più libera di poeti e d'artisti, i quali invece di seppellirsi vivi tra le rovine del mondo antico, di que' frammenti ricomponessero un'arte e una letteratura nova. E tal fu il Cinquecento. Dante allora fu riletto con Omero, la lingua raccolta dal trivio e ringentilita. E riadottata la lingua del popolo, la poesia tornò popolana: furono tradotti romanzi francesi e spagnuoli; il Medio Evo con tutte le sue fate e le sue corti d'amore ricomparve sul mondo romano. I mostri, gl'incantesimi, i viaggi, i tornei, le avventure dei paladini occuparono tutte le menti. Già le maraviglie del Nuovo Mondo sbrigliavano le fantasie verso l'ignoto. I racconti de' viaggiatori, le mappe, le carte di navigazione, erano cercate, lette avidamente come i romanzi e le storie delle Crociate. Le lettere ripigliavano l'andamento del secolo XIV interrotto alla morte di Dante. I pedanti storditi, nè sapendo un argine alla corrente che travolgeva i migliori, imprecavano ad Orlando:

Sia maledetto il giorno e l'ora quando

Presi la penna e non cantai d'Orlando;

bestemmiava il Trissino; predicavano il finimondo, ed era il loro, 'Giambattista Pigna, I Romanzi.

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