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altro, mi colpi la semplicità del suo berretto da notte; e s'io dovessi dire tutte le idee bizzarre che mi suscitò quel comico berretto, sotto il quale vedevo la testa del grande Imperatore, temerei di comprometter troppo la serietà mia e quella de' miei lettori, e più ancora quella del tèma illustre e solenne che ho qui impreso a trattare. Ma insomma, pensando come sotto quel berretto s'era forse covata la prima volta l'idea imperiale di spingere la Russia fino al Bosforo, io ebbi la tentazione di scuotere quel berretto responsabile, e di chiedere conto ad esso di tutto il sangue che quella utopia dinastica ha fatto versare nel mondo. Ma mentre io era sul punto d'apostrofare lo storico berretto, i miei colleghi mi fecero cenno che bisognava seguitar l'escursione, ond' io riposi il berretto a dormire con le mie fantasie, e seguitai con essi a visitar non so più quante ville imperiali russe d'ogni forma, d'ogni grandezza, d'ogni carattere, quantunque tutte d'un colore solo. Alle sette ci attendeva il principe Galitzin, gran ciambellano dello Tzar, ad una sontuosa e mangiativa cena nello splendido palazzo di Peterhof. Terminato il banchetto, un treno speciale allestito per noi ci rimetteva per la via ferrata in Pietroburgo. Ho dimenticato di avvertire che a Peterhof ci era pure stato un concerto di musica; ma il miglior concerto fu certamente il nostro, nel lodare unanimi la bellezza del luogo, lo splendore della festa, la larghezza dell'ospitalità che avevamo ricevuta in quel giorno. Il giorno otto, dopo la seduta consacrata ai sistemi religiosi, s'andò in lieto pellegrinaggio convivale alle Isole presso Pietroburgo, a spese del Comitato. Il giorno nove, nuova escursione alla residenza imperiale di Tsarkoje-Tselo; viaggio gratuito di andata e ritorno sulla strada ferrata, vetture di Corte all'arrivo, visita di altre ville imperiali e della ricchissima galleria d'armi, preziosa specialmente per gli oggetti orientali, lautissimo pranzo imperiale nel palazzo, trattenimento nel magnifico Salone cinese, gita a Pawlosk, ove ci attendeva un rumoroso concerto dell' orchestra di Arban, ed ove il nostro bravo Ostiaco fu tosto adoperato a rac coglier danaro per i poveri Serbi. Il giorno dieci vi fu privatissi mo ricevimento di soli sei membri del Congresso, tra i quali ebbe l'onore d'esser compreso anche il Delegato italiano, alla villa imperiale della granduchessa Caterina, la quale ci accolse con la graziosa principessina sua figlia e con le sue coltissime dame nel modo più elegante ed amabile, facendoci sedere alla sua propria mensa e intrattenendosi con noi su tutti quegli argomenti che credeva poter meglio tentare la nostra loquacità e farci disinvolti.

Il giorno dodici un nuovo banchetto, un banchetto d'addio nel Casino dei Mercanti, pieno di buonumore, nel quale si fecero forse venti brindisi in dodici lingue diverse, tra le quali figurarono l'italiano, il latino, l'inglese, il tedesco, il francese, lo svedese, il russo, il tataro, l'ostiaco, il buriato, il cinese, il giapponese ! E dopo l'allegria di quei brindisi non vi era più un solo Orientalista, il quale non fosse persuaso che il terzo Congresso aveva avuto un esito felicissimo. E felicissimo esito, invero, si può dire quello d'un Congresso, per cui si lasciarono confidenti, fiduciose, animate da una cordiale e viva simpatia persone che da principio, non conoscendosi o mal conoscendosi, guardavansi con pericolosa diffidenza, e si distribuivano in gruppi sospettosi. Fu pure bevuto dal De Rosny alla salute d'Italia e del nostro futuro Congresso. Accogliendo io quel lieto augurio e bevendo a quella del nostro gentile propinatore, de' presidenti dei tre primi Congressi e degli Orientalisti colà convitati che si proponessero di recarsi in Italia, lasciai Pietroburgo, impaziente di tornare all'operoso focolare, ove, sotto il patrocinio, la disciplina, la guida ed il consiglio del mio venerato presidente ed amico Michele Amari, dovrò adoperarmi, per la mia parte, co' miei dotti colleghi, ad avvivar l'opera del quarto Congresso, che nel fine di settembre dell'anno 1878 avremo l'onore di veder convocato in Firenze.

ANGELO DE GUBERNATIS.

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Ella, nata duchessa, fra le nebbie d'un cielo settentrionale, cresciuta fra gli agi e le raffinatezze del pensiero e del cuore, ebbe a compagne dell'adolescenza l'eleganza, le arti belle e le virtù.

Egli, figlio del popolo, venuto al mondo sotto il limpido cielo d'Italia, lasciato scalzo e scaruffato a bighellonare con i monelli del paese, aveva avuto in casa come primo esempio e come primo insegnamento, da una parte l'abuso della forza brutale maschile, e dall'altra la vendetta femminile per mezzo dell'astuzia e dell'infedeltà.

Ella era bella sempre, ma qualche indiscreto filo d'argento facea di già capolino tra mezzo ai bellissimi capelli d'oro; sulla fronte serbava le tracce della fatale scienza della vita, e negli oc chi aveva una dolce, ma pur mesta rassegnazione.

Egli contava poco più di vent'anni, e dagli occhi lampeggianti, dalla bruna carnagione, dalla nera e indomita capigliatura, s'indovinava l'ardore, la ribellione dell'inesperta gioventù.

Tutto adunque sembrava dividerli. Eppure, insieme uniti, camminavano tenendosi per la mano e guardandosi negli occhi, compresi tutti e due di un medesimo sentimento. Camminavano fra gli abeti odorosi d'una lussureggiante foresta degli Appennini e salivano l'erta, a mezzo della quale sorgeva il monastero. La

strada s'inerpicava diritta, ed in cima, davanti a loro, s'innalza. vano il campanile della chiesa e la facciata del convento. Di quando in quando volgevano in su lo sguardo, ma non vedevano. Non erano nè artisti, nè viaggiatori, nè curiosi: erano amanti, e tutto in essi palesava la condizione dell'animo. Ma in quel silenzio, in quella solitudine non c'era pericolo d'essere spiati. Il cielo li guardava benigno, e dagli uomini erano o non conosciuti o dimenticati. In quel momento l'universo era tutto di loro.

- Maria! diss' egli, premendosi al petto la mano, attraverso alle cui dita vedevansi luccicare al sole i ricchi anelli di

lei. - Maria! non sarebbe questo un sogno, un'allucinazione?

Ed essa, ansante e stanca, posò il capo sulla spalla del compagno e lo fissò col suo lungo e dolce sguardo, da cui era scomparsa l'abituale mestizia.

Le labbra porporine del plebeo anelavano alle labbra pallide della duchessa. Il rispetto vinse, non già l'amore, ma il desiderio; e le perle che gli scesero giù giù dalla fronte lungo le gote rivelavano non già la fatica, ignota al robusto ventenne, ma la viva lotta combattuta in quell'anima iniziata ad un tratto dall' amore a tutte le delicatezze del sentimento.

Si fermarono. Essa riprese fiato; e continuata lentamente la salita, arrivarono al piazzale che si stendeva a ponente sul fianco del monastero. Insieme coi fabbricati, questo piazzale formava come una lunga striscia, che tagliava il monte a due terzi dalla vetta, dove trovavasi un eremo diroccato; ed in fondo, verso occidente, era chiuso da una balaustrata di marmo, stato già bianco, ed allora annerito dagli anni e dalle intemperie.

Si avviarono a quella volta, di dove, ai raggi d'uno splendido sole di maggio, si vedevano, in giù, scintillare il fiume serpeggiante, e più lontano le cupole, i campanili, i tetti della città.

Maria si guardò attorno con compiacenza: pareva che dal cuore mandasse un saluto al cielo, alla foresta, al fiume, alla città.

E tu non lo trovi bello, Amerigo, questo rifulgente universo? Ti pare indegno de'tuoi sguardi, de'tuoi pensieri, del tuo respiro?

– Si, è bello; ma la sua bellezza è derisoria. Tutto è in esso ironia, delusione, amarezza. Tutto, fuorchè il sorriso e il cuore d'una donna come sei tu!

il

- O non ti parrebbe nobile fatica, mèta invidiabile della vita, percorrere questo mondo per strapparne i segreti, sviscerarne VOL. III, Serie II. - Novembre 1876.

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i tesori, col doppio intento di glorificare il creatore e di beneficar la creatura?

Questo mondo è mistero impenetrabile, il creatore è crudele e la creatura perfida.

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Amerigo!

L'universo è insensibile, e l'uomo non si serve della propria sensibilità che per il male. Forse la donna sarebbe buona, ma egli la perverte, e non è contento se non quando d'un angelo ha fatto un demonio!

-

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Oh, Amerigo, com'hai la mente inferma!

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vero; ma pure oggi tu mi fai rivivere. Anima raggiante, tu rischiari i miei passi. Cammino dietro di te in quel mondo che abborro, ed il giorno che cesserai di risplendere agli occhi miei, tornerò al buio della morte.

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Tu odii l'universo, perchè lo guardi sempre attraverso la cupa lente dell'ingiustizia e del tradimento. Càvati, un momento, quei cristalli appannati che ti fanno parer tetra e morta la natura; e guarda questo verde su cui batte il sole, guarda l'azzurro de' miei occhi, e poi dimmi che l'immenso creato non è che buio e disgusto!

Maria teneva le mani d'Amerigo costringendolo a guardarla in faccia.

Guardò: gli tremaron le labbra, gli s'inumidirono gli occhi, e anch' egli si volse commosso alla foresta, al fiume, alla città, al cielo, ed esclamò:

l'amore.

Hai ragione. Oggi l'universo è bello, perchè ci sento

Essa, profittando di quel momento di commozione, passò il braccio sotto quello d'Amerigo e avviandolo verso il convento, mėta apparente della loro gita:

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Mi fai amare, rispose,

ed è molto, molto di più. Cosi dicendo l'avvolse tutta con uno sguardo appassionato. Il chiostro, costruzione del Dugento, era bellissimo, e parec chi forestieri andavano a vederlo specialmente nei mesi d'agosto e di settembre; ma allora la foresta ed il convento erano affatto privi di visitatori. I frati, rimasti ancora in sette od otto, dovevano di giorno in giorno sgomberare per far posto a un Istituto forestale.

Il chiostro, quando quei due v'entrarono, era immerso in una mezza luce, e ci regnava un silenzio che in quel momento non ve

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