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causa della vera libertà e « des gens comme il faut; mais il m'en "savent d'autant plus mauvais gré.» «So bene che, volendo, que sto sarebbe per me il momento di fare gran cammino nel mondo; ma sono ben deciso a mantenere intatta la mia indipendenza. " Infatti allora venne il decreto che gli dava la Legione d' Onore, e l'Imperatore faceva anche sentire di esser pronto a fare per lui quanto altro desiderasse. Ma il Sismondi desiderò solo che quel decreto fosse ritirato, acciò non vi potessero essere dubbi sulla lealtà disinteressata delle opinioni espresse; e l'ottenne. Con ciò tuttavia non riuscì ad impedire i dubbi ingiuriosi e le non fon date accuse.

In questo mezzo le sue ardenti speranze di pace divennero un'illusione, a cui s'attaccò cosi tenacemente che sino alla fine di maggio, quando tutto era armi, quando la madre stessa lo avvertiva da Pescia che s'illudeva, egli sperava ancora nel buon senso degli Alleati. Solo il 9 giugno la benda è finalmente caduta da' suoi occhi, giacchè egli scrive: da un momento all' altro tuonerà il cannone. Il 12 aggiunge che l'Imperatore è partito, ed il 18, quando i destini della Francia si decidono a Waterloo, nota che a Parigi si vive «dans le monde » come prima, con lo stesso lusso; "et les diners ne sont pas moins exquis. "La catastrofe precipita intanto rapidamente al suo tragico fine; il 23 giugno egli dà la notizia della disfatta di Waterloo, aggiungendo con amarezza che la borsa di Parigi è subito rialzata non poco. Napoleone tornato alle Tuileries, dopo trentasei ore perdute invano nell' incertezza, ha finalmente abdicato.

E qui incomincia l'ultima parte di questa corrispondenza. Il Sismondi vede bene che s'è fatto dei gran nemici in Francia e nella Svizzera. Resterà però sempre l'amico di coloro che hanno veramente sofferto pei disastri della Francia e della libertà, che secondo lui può ancora essere salva, se il duca d'Orléans sarà proclamanto re. Ormai deve partire, vuol solo osservare come storico la fine degli eventi, che pure contristano tanto il suo spirito. Cette belle France est perdue; nous nous acheminons " vers un partage semblable à celui de la Pologne.» «Forse io scriverò la storia di questo gran dramma, perchè nessuno può conoscere meglio di me il gioco dei partiti che si agitano qui."

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Il Sismondi si proponeva di non essere allora che un semplice spettatore, ma il suo spirito era crudelmente straziato dagli orrori che vedeva, e da quelli che udiva raccontare. « Gli Alleati, specialmente i Prussiani, " egli scrive, « saccheggiano il paese

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senza pietà. Questi fanno sentire ai poveri che spogliano, ai borghesi che calpestano, come sono mossi unicamente dal furore della vendetta. «Nous ne voulons pas quitter la France, » cosi dicono, qu'elle n'ait le même aspect que si le feu du ciel y avait passé. " -"Io potrei ancora sostenere lo spettacolo doloroso delle sofferenze de' ricchi, ma quelle dei poveri mi affliggono troppo; debbo dunque subito allontanarmi. » E tuttavia raccoglieva su fogli staccati tutte le notizie che non poteva, per la posta, mandare alla madre.« Servíranno per la storia dei Cento Giorni, che voglio scrivere, o, se non potrò attuare il mio pensiero, saranno un prezioso materiale pei posteri. » Sfortunatamente, però, nè quella storia fu scritta mai, nè sappiamo dove siano andate quelle note.

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Fino alla sua partenza, e durante il suo viaggio di ritorno nella Svizzera, il Sismondi è sempre più contristato dalle scene d'orrore, cui s'abbandonano gli Alleati; da ciò che vede e da ciò che sente. Nella lettera incominciata colla data del 16 luglio, esso scrive: Les Prussiens surtout écrasent le pays avec la ferme » intention qu'il ne puisse jamais se relever. Il y a plus de huit jours qu'ils sont entrés à Paris; mais le pillage de tous les villages environnants ne continue pas moins. Il n'y a aucune » horreur qu'ils ne commettent; tout ce qu'ils ne peuvent pas em»porter, ils le détruisent; lorsqu'ils prennent 50 écus, il font » pour 10,000 écus de dommage. Ils jettent par les fenêtres tous » les livres des bibliothèques; ils cassent toutes les glaces; dans » les fermes ils mettent le feu aux fourrages et aux provisions de » blé qu'ils ne consomment pas; et quand on porte plainte au » Maréchal Blücher, il répond: Quoi! ils n'ont fait que cela? Al»lez, ils auraient dù faire davantage encore. "

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Ed in quella del 25 aggiunge:

«Ceux qui se sont conduits avec plus de férocité sont les Prussiens, qui s'occupent beaucoup moins à voler qu'à détruire, qui ne cessent pas de répéter qu'ils veulent ruiner la France » comme si le feu du ciel y avait passé, et qui ne faisant aucune exception de personnes, ni distinction de parti, dèvastent les » châteaux des royalistes, battent leurs domestiques, et violent » leurs femmes et leurs filles avec autant d'acharnement que des républicains. Aussi ceux qui, aveuglés par l'esprit de parti, »les avaient invoqués comme des libérateurs, se désespèrent aujourd'hui, et accusent le Roi et son ministre qui ont été les » chercher. "

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Finalmente abbandona quella Francia che a lui è divenuta

cosi cara, della quale sente in se stesso tutte le passioni, tutte le aspirazioni; e sempre ritorna col pensiero a Napoleone L "Lo accusano di non avere abdicato prima della guerra, per salvare la Francia. Ma questo è pretendere un eroismo troppo raro. Lo accusano di non avere osato uccidersi sul campo di battaglia; ma se un tale suicidio potrebbe essere scusato, non si potrebbe certo pretendere d'imporlo. » « Il ritorno del re, « egli scrive ai primi d'agosto, mentre vede con raccapriccio la desolazione delle provincie francesi, «sarà il segnale della morte d'un milione di uomini; tali e tanti sono gli stenti, la fame, le persecuzioni, cui è stato ed è sottoposto questo povero paese." Non ricorda però, o non vede, che Napoleone I avea pur la sua buona parte di colpa in queste stragi. Il 19 agosto egli cominciava in Ginevra l'ultima di queste lettere, finita poi a Coppet, dove si trovò con Madama de Staël, che tanto odiava Napoleone, e con altri amici di lei, dei quali ci dà molte notizie. « Tu mi ripeti, » cosi scrive allora alla madre, che se il partito, cui m'ero legato, avesse trionfato, la libertà della nostra Ginevra sarebbe ora perduta. Ma io credo il contrario. Quel partito non aveva più forza da pensare alle conquiste. Temo invece che ora sia stato deciso di cambiare Ginevra con Alessandria, il che sarebbe per noi peggio di tutto. » Il Sismondi non aveva alcuna simpatia per Casa Savoia, e più volte ripete in queste lettere, che se Ginevra fosse stata riunita al Piemonte, egli si sarebbe per sempre sepolto a Pescia. Del resto, non si avverarono nè i suoi timori, nè quelli della madre, il cui raro buon senso trasparisce pur tante volte da queste lettere.

Esse sono come una fotografia dello stato della Francia quale il Sismondi la vide e la giudicò nei Cento Giorni, ed una fotografia non meno esatta che il figlio affettuoso faceva del proprio spirito alla buona e diletta madre. Sotto questo doppio aspetto, abbiamo detto e ripetiamo, che hanno una importanza storica e psicologica quale forse non avrebbe avuta neppure la sua storia de' Cento Giorni, quando l'avesse scritta. Ciò non toglie che sarebbe anche questa riuscita assai preziosa a tutti, e che riesce assai doloroso il non aver potuto ritrovare almeno le altre note ed appunti che egli andò scrivendo in quei mesi.

P. VILLARI.

LA RIMA E LA POESIA ITALIANA.

Vi è mai accaduto, nel rileggere o ripetere a memoria una poesia, d'accorgervi di non averla capita mai? Di sentirvi fare una dimanda sopra una parola, una frase e non saper che rispondere, e maravigliarvi voi stesso di averla tante volte riletta e ripetuta senza averci badato, nè cercato d'intenderla? Se non v'è accaduto mai, v'invidio: a me è accaduto assai volte, e ne son rimasto umiliato e mortificato avanti a me stesso. Ma l'amor proprio è ingegnoso e maligno; ed esso m' ha scoperto, con secreta compiacenza, che non son solo. Infatti mi son preso gusto più volte, in compagnia di qualche persona letterata e ingegnosa, di andar masticando fra denti un qualche brano di poesia, per esempio qualche strofa del Cinque Maggio; e tutt' a un tratto, a bruciapelo, dimandarle: con vece assidua, che significa propriamente? che cosa aggiunge al Cadde, risorse e giacque? e che vuol dire quell' assidua applicato al cadere, risorgere e ricadere di Napoleone? Ei si nomò, che vuol dire? Qual significato di nome o di nomarsi può convenire a questo caso? Pigliamo il Natale: Se una virtute amica In alto nol trarrà. Chi vorrà fare al masso quel bel servigio di ritirarlo su, su, su, fino alla cima antica? Perchè quella virtù la chiama amica? E l'opera della Redenzione è paragonata al perditempo di ritirare i sassi sulle montagne? Ecco il canto A Silvia del Leopardi: All' apparir del vero Tu, misera, cadesti, ec. Chi è che cadde? I più m' hanno risposto, Silvia.

Non mi maraviglio punto che ci sia chi non capisca l'uno o l'altro di simili passi (forse non tutti è possibile d' intenderli chiaramente); ma mi è parso strano che i più non si fossero mai

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accorti di non capirli. Il mio amor proprio è soddisfatto, ma non la mia ragione. Come può darsi che uomini esercitati nel pensiero, e che leggendo libri faticosi di prosa non volterebbero pagina se non avessero inteso fino alle virgole, quando poi si tratta di poesia, si contentino di capire all'incirca, e ammirino e imparino a memoria e ripetano non sanno bene che cosa? Ho voluto indagarne i perchè, e mi pare d'averne trovato più d'uno: ma qui intendo solo discorrere d'un de' principali, a mio giudizio, se non forse principale fra tutti, e poco, per quel ch'io sappia, osservato.

Dalle origini della nostra letteratura fino al cadere del Cinquecento (poi, raramente) a dire rima e rimatore era come dire poesia e poeta: tanto la rima si riteneva come essenziale alla poesia. Nè questo solo in Italia, ma in tutte le letterature europee che anzi l' Italia, in fatto di rima, non segui mai gli eccessi dell' antica poesia francese, e presto lasciò da parte i giochetti della provenzale. Ma qui intendo parlar solo della poesia italiana; benchè gli effetti della rima non possano nelle diverse lingue esser molto dissimili.

L'orecchio abituato alla poesia rimata può a fatica adattarsi al verso sciolto, troppo vicino alla prosa. Fino nello scorso secolo, dopo molti e mirabili esempi di esso, l'arguto Baretti lo chiamava una poltroneria. Ad altri però, studiosi ammiratori delle antiche letterature, e intolleranti di tutto quello che se ne allontanasse, la rima parve cosa barbara: e il Gravina osava dire apertamente, che « essendosi generalmente nell' uso comune perduta la distinzione delicata e gentile del verso dalla prosa, s'introdusse quella grossolana, violenta e stomachevole delle desinenze simili. » Il che prova che lo stomaco non lo abbiamo tutti fatto ad un modo: poichè quello ch'era stomachevole al Gravina, per tanti secoli invece e a tanti popoli è parso e pare gustoso.

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Come si fa a non amare la rima? Per essa abbiamo, quasi per istinto, appreso i primi canti dell' infanzia, essa è il filo che ci guida a rintracciarli anche oggi nella memoria, essa per una secreta corrispondenza fra i suoni ripetuti a cadenza e il senti mento espresso dalle parole, ci ha cavato dagli occhi le lacrime. Provatevi, per esempio, a toglier la rima in que' versi di Dante:

Era già l'ora che volge 'I disio

A' naviganti e intenerisce il core,

Lo di' ch' han detto a' dolci amici addio.

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