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altre in forza della terminazione comune, per modo che al veder certe rime già si poteva indovinare quel che direbbero i versi seguenti. Ogni tromba poco appresso rimbomba, non c'è lido da cui non soffi un vento fido od infido, non ci sono anni che non battano i vanni, e che non portino o non sanino affanni, tutte l'onde carezzano o percotono furiosamente le sponde. Un Rimario del Metastasio, del Rolli, del Vittorelli, dimostrerebbe meglio che i discorsi, come la poesia, nata a spaziare per la terra e pel cielo, fosse rinchiusa appena in un giardinetto recinto da uno stretto cancello di rime.

Ma intanto il verso sciolto avanzava. Già nel Secento la Canzone petrarchesca s'accorcia nell'Ode, presso all'ottava e alla terzina sorgono la quartina e la sestina, e raramente si ripete più di due volte la stessa terminazione, eccetto nel Sonetto, pietrificato nella sua forma. Del poema non apparivano che pallide larve: aumentava la poesia didascalica e morale, le traduzioni aumentavano.

Nel Settecento la Scienza e la Filosofia invigoriscono il pensiero che diviene insofferente di legami, e verso il finire del secolo il risorgimento delle lettere è una ribellione alla rima. In quello splendido periodo le opere principali del Parini e dell'Alfieri, del Monti e del Foscolo sono in verso sciolto, e alla rima non restano, per tacere di opere minori, che le Odi del Parini stesso, dove il pensiero somiglia a Laocoonte che si contorce fra i serpenti, e i poemetti del Monti, splendido e forse ultimo esempio di poesia esterna e decorativa.

Finalmente un ingegno che univa al più profondo sentimento poetico il vigore della più rigorosa ragione, portò assalto all'ultima cittadella della rima, la lirica. Nelle Canzoni il Leopardi ha tenuto per ogni stanza un egual numero di versi, intrecciando in alcune con ordine fisso i settenari e gli endecasillibi, in altre a piacere, e rimando o non rimando a sua voglia, eccetto la chiusa che segue sempre la stessa legge. Ma di mano in mano ch'egli avanza nel pensiero e nell' arte, le rime scemano: l' Inno ai Patriarchi, altamente lirico, è in verso sciolto: nell' Ultimo Canto di Saffo è in tutto regolare la stanza, ma non c'è altra rima che nella chiusa: gl' Idilli poi sono altri in verso sciolto, altri in strofe libere nel numero de' versi e nelle rime. Con questo il Leopardi tenne conto dell' orecchio abituato alla strofa rimata, volle profittare del vantaggio della rima, e insieme liberare il pensiero dalla sua tirannia.

E cosi alla rima non è rimasta pur una parte del suo regno, dov' essa regni sola e sovrana. Ora, chi si volga indietro a riguardare que'tre periodi, della sola rima, della rima e del verso sciolto, e della prevalenza di questo, non vorrà negare che una relazione corra fra la storia della rima e quella del pensiero in Italia, e che ai trionfi di questo corrispondano le sconfitte di quella.

Uno de' più valenti fra i nostri poeti contemporanei s'è di recente levato contro la libera Canzone del Leopardi, richiamando quella strofa regolare, della quale egli stesso ha dato alcun esempio che forse non morrà. In questa stessa Rivista1 si volgeva a due valorose giovanette con questi versi:

Abbandonate ai flosci

Schivi intelletti, cui seduce l'alta

Melanconia dell' inegual canzone

Recanatese, la fortuita rima.

E la strofa che ignava, a guisa d'angue

Dilombato, or s' accorcia ed or s'allunga.

Oh, io sento come si possa richiamare con desiderio la sapiente armonia della vecchia strofa. Ma che farci? Quello accorciarsi e allungarsi deve farlo o la strofa o il pensiero: il quale, avendolo già fatto per tanti secoli, non pare che voglia saperne più. E lo dica fra gli altri quel vigoroso poeta che è il Carducci, il quale vorrebbe rimaner fedele alla vecchia strofa; ma il pensiero ne rompe i cancelli, trascorre distesa o a sbalzi nella seguente, entra forse in un' altra, e va ad arrestarsi chi sa dove, in principio, nel mezzo, in fine, dove gli piace. Che farci? Il pensiero è divenuto indocile, e soffre malvolentieri catene, fossero pure di rose. Perfino quella Silvia del Leopardi, cosi soave, così mite, non vuol' essere stretta dai lacci, a cui Laura porgeva volenterosa le mani; e il Pastore errante dell'Asia vuole spaziar libero pei campi della poesia, come pel suo

deserto piano

Che in suo giro lontano al ciel confina.

Ma questo moto si fermerà qui, e la strofa regolare rimata potrà starsene tranquilla accanto alle forme più libere? Cosi pre

Vedi nel fascicolo d'agosto 1876 i versi di Giacomo Zanella Ad Elena e Vitloria Aganoor.

potenti e invadenti come finora si dimostrarono, sapranno d'ora innanzi vivere in termini di buon vicinato colle loro vecchie sorelle? E come, per l'opera lenta e continua della vita, tutte le scienze e le arti si staccano e dividono e suddividono per vivere di vita lor propria, non verrà giorno che la poesia dovrà in tutto stac carsi dalla musica per isvolgere in tutta la pienezza i suoi intimi germi? La forza progressiva della ragion critica non ci svelerà ogni giorno più chiaro le secrete concessioni che il pensiero deve fare all'orecchio....? Ma, d'altra parte, non c'è un punto dove la parola e la musica si mescono e si confondono, non ci sono sentimenti nell' anima umana che nè l' una nè l'altra basta ad esprimere interi, ma abbisognano d' ambedue?

Io non son profeta, e non so nulla. Solamente, io sento tutta la magia della rima, e al leggere alcuno de' nostri grandi poeti, spesso non mi par possibile che la poesia debba mai spogliarsene: e poichè in ogni uomo come in ogni generazione c'è una forza di trasformazione limitata, sento che non saprei adattarmi a vederla scomparire, massime nella espressione di certi sentimenti che chiamerei la lirica della lirica. Ma d'altra parte vedo che la scienza cammina, che per essa si formano nuovi abiti della mente, e che gli effetti di lei giungono, benchè tardi, anche nel regno della poesia. E questa mi pare una sposa che, lasciata la casa paterna, s'allontani dalla città dov'è nata e vissuta. Chi vorrà farle rimprovero se riguardando indietro le mura, i palazzi, i giardini, la cattedrale di Dante, le scenda sulle guancie una lacrima? Ma se io fossi lo sposo, vorrei farle core e dirle: Ama la tua città e la tua casa, rispetta i tuoi padṛi: chè è in odio al cielo e agli uomini chi li disprezza. Ma pensa che tu oramai devi vivere in mezzo ad una gente che ha per signora la scienza. Non ti dare a credere per questo che vi sarai meno cara che nella prima tua patria: che anzi, affettuosa e fantastica come sei, il rigore e l'aridità degli studii cresceranno il desiderio di te. Lascia dire che qui tutto è calcolo e prosa: nel Foscolo, nel Leopardi e nel Manzoni non c'è per lo meno tanta poesia quanta nel Bembo, nel Casa e nel Caro! Ma sai? questa gente ama te, e non altro che te: lascia gli ornamenti e il belletto che qui non ingannano nessuno, e mostrati semplice e schietta, quale tu sei. Non ti sgomentare s'io t'avviso che il tuo linguaggio dovrà essere cosi esatto come quello della prosa che tu e la scienza avete diversa materia; ma, del resto, tu devi significare le tue fantasie e i tuoi sentimenti con quella verità e con quella precisione con cui essa significa le leggi fisiche

e matematiche: ogni parola, ogni frase che venga di fuori, che non sia segno d' idea, rivelazione dell' animo tuo, è nulla, è menzogna, e non può che alienar gli animi da te.

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Ma se un giorno a questa precision di linguaggio, a questa esatta corrispondenza della parola col pensiero si giudicasse impedimento anche il verso, e mi si spogliasse della bella mia veste, allora come potrei più vivere?

Allora.... Oh è lontano, assai lontano quel giorno, se pure sarà mai, in cui il pensiero abbia acquistato tanta precisione, da stimare il piacere dell' armonia pagato troppo caro colla lieve oscillazione della parola prodotta dal verso. Ma non temere, tu sei immortale, e vivrai finchè un uomo pianga sul sepolcro di sua madre, o sogni un amata fanciulla, o sorrida sopra una cuna finchè l'oggi cada nel sepolcro della notte col sole, e il dimani sorga coll' alba, fulgido di speranze e di vita: finchè allo sciogliersi delle nevi si spanda il profumo della primavera per l'aria tepente, e ci volino intorno memorie e fantasmi di gloria. Ma sappi, sei immortale tu sola, e non le tue vesti, neppur quella per la quale gli uomini finora riconobbero chi tu sei. Se un giorno avvenisse quello che temi, resa la rima alla musica, le renderai anche il verso: ma tu vivrai! Oh, non è bella la Venere? E anch'essa è nuda!

D. GNOLI.

L'EPOPEE DELL' INDIA.

II.

IL MAHABHARATA,1

V.

Con la partenza dei Pândavi pei boschi comincia il Vana parva (Libro della foresta), nel quale si legge il patetico episodio di Nala e Damayantî,' che anche solo basterebbe a render celebre il nome di un poeta. Vyâsa, energico e delicato pittore del cuore umano, doveva riuscire eccellente in un soggetto, in cui la passione domina esclusivamente ne' due principali personaggi, Nala e sua moglie. Nala è come Yuddhishthira, a cui il saggio Vrihadaçva racconta la sua storia per consolarlo, vittima del giuoco. Per la maggior parte d'Europa Nala e Yuddhishthira son meno facili a intendere che Damayanti. I discendenti degli antichi Germani, che giuccavano la libertà loro ed anche la vita,' non son giuocatori. Se il giuoco ha tuttavia una gran potenza nei paesi, dove le vecchie consuetudini contrastano con l'ascendente della civiltà, come son la Russia e l' America del Sud, a molti lettori esso non parrà molto sufficente a cagionare le catastrofi affatto verosimili pei contemporanei dell' Autore del Mahabharata. Gli uomini di ogni tempo e d'ogni paese si faranno più giusto concetto del carattere di Damayantî. Ciò è tanto vero che leg. gendo quella viva pittura di un amore che da nulla è disanimato, il pensiero si porta involontariamente ad un capolavoro del se

1 Vedi il fascicolo di maggio 1876.

2 Non insisto su questo episodio, di cui mi occupai in una Memoria sul re Nala, letta alla Società d' Archeologia d'Atene.

3

Tacito, De moribus Germanorum.

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