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Le tariffe compensative sono pure una preoccupazione del protezionista. E qui egli ha ragione qualora intenda a imporre un dazio sopra le materie, le quali paghino nell'interno una tassa di produzione. Per esempio, i nostri spiriti pagano per la distillazione: ed è partito non che logico necessario che un dazio consimile s'imponga agli spiriti esteri. Ma il dazio compensativo acquisterebbe il carattere di una protezione eccessiva se si volesse tenere in conto la generale contribuenza dello Stato. Primiera. mente, perchè una contribuenza consimilé si paga da' produttori in tutte le nazioni; secondariamente, perchè il dazio del prodotto estero è pagato in ultimo luogo dal consumatore indigeno, e per ciò aumenta i tributi, e rende tanto più disagiata la vita giornaliera, dispendiose le industrie, più scarsi i risparmii, e sgagliar disce le forze produttive. E si erra, a mio credere, quando si stima la importazione quale nuova produzione, mentre a me sembra un semplice scambio di dovizie; anzi un prezzo equivalente ai prodotti che si vendono allo straniero. Laonde se si è pagato il tributo del nostro prodotto, non è d'uopo pagare un altro tributo sul prodotto che viene a prendere il suo posto. Però lo scambio internazionale si deve riguardare più presto una circolazione di ricchezza mobile, un insieme di contratti, di passaggi e di affari; e i dazii doganali dovrebbero avere l'indole puramente fiscale di quelle tasse, che noi chiamiamo appunto della ricchezza mobile o degli affari.

Le Dogane si sogliono contornare di formalità minuziose' e dispendiosissime, le quali hanno la natura di tasse compensative. Tasse per la verifica delle merci, dei loro traslocamenti, per imballaggi, per marche e bolli, per registrazione, per accompagnatura, per certificati, per visite sanitarie, per magazzinaggi, per statistica, e via discorrendo. A bene considerare sono tanti servigi pubblici, che s'intenderebbero pagati collo stesso dazio. E qualora la Dogana arrivasse a persuadersi di far pagare un dazio solo, potrebbe avere gli stessi introiti, liberando il commercio da un timore che lo impaura e lo aliena, perchè egli fugge soprattutto le vessazioni, le lungaggini e le incertezze, avendo bisogno di calcolare sul positivo. Per tali ragioni noi siamo favorevoli ai Punti Franchi, i quali sciolgono dalle noie e spese sopraddette almeno il commercio di deposito e di transito. E siamo stupiti che finanzieri liberali li abbiano osteggiati. E invero opponevano un'obbiezione fiacca; vale a dire che la Do

gana non abbia mezzi di vigilare i Punti Franchi. Non abbiamo noi dunque funzionarii e guardie oneste? Poi faremo di questi Punti Franchi tanti posti d'onore, serbati agli agenti fiscali che diedero maggior prova di solerzia e di probità; e potremo ampliare una si bella ospitalità commerciale, che aggradirà a tutte le nazioni del mondo, le quali accorreranno ad onorare e ad arricchire l'Italia, che porta ora il vanto di avere avuta un'idea magnanima, colla quale si tolgono ai Magazzini Generali alla francese i fastidii lunghissimi e inquisitoriali della registrazione, e si salva la libertà mercantile senza danneggiare le Dogane degli Stati.

Anzi per vedere semplificati i superstiziosi procedimenti del commercio internazionale noi ci uniamo coi protezionisti a preferire le tariffe specifiche alle tariffe a valore. Imperocchè egli è vero che la tariffa a valore è più giusta e più proporzionale, ma è vessatoria, dovendo il commerciante sottoporre ogni sua merce alla stima di un agente doganale, che condannato a stare in un confine remoto dello Stato è il più delle volte un estimatore incapacissimo.

La tariffa specifica invece ha le sue categorie, e fa tutto pesare sulla bilancia e pagare a misura. Nessun indugio, perchè le dispute sono rarissime. Tuttavia è chiaro che i prodotti esteri più grossolani pagano maggiormente. Cosicchè si viene a proteggere l'industria nazionale scadente e trascurata. Ma se il dazio è mite, si sente poco la differenza: nè da cotesta differenza è trattenuto il commercio, il quale sopra ogni cosa vuole sapere la certezza, non ricevere oltraggi, e passare spedito.

Ed ora chiuderò il mio dire, concludendo che il protezionismo mercantile non è finito: sia perchè i Governi hanno bisogno di trarre dal commercio internazionale dei proventi grandi; il che non si consegue se non per mezzo di tariffe differenziali e d'indole protettiva, non potendosi tutte le merci gravare di uguali dazii; sia perchè le tariffe stesse protettive avviano altresi al libero scambio, potendosi per giustizia e utilità di reciprocanza ottenere nei trattati commerciali concessioni liberali dagli Stati ancora superstiziosi e resistenti.

Aggiungo che il lasciar fare e lasciar passare non è precetto applicabile ora nè poi: ma un semplice grido che sta scritto sul vessillo della scuola, come la voce libertà si legge sulla porta delle prigioni di Ginevra. Imperocchè la libertà si può benissimo

sposare col chiavistello, quando si sappia che per essere liberi conviene avere il sentimento della responsabilità onesta, morige rata e giuridica: infine quando si pensi che deve signoreggiare sopra a tutti i cittadini il diritto comune e naturale, che è il vincolo più grande della libertà, anzi l'autorità più severa e più vigile sulla cittadinanza; ma nel medesimo tempo la più acconcia a garantire, meglio che non facciano le leggi speciali e doganali, gli individui, i loro averi, le loro industrie, i loro traffici prossimi e lontani, e quel che preme maggiormente l'ordine sociale e pubblico, il quale è cercato per istinto e volere universale da tutti gli uomini.

A. MARESCOTTI.

MEMORIE D'ORIENTE.

V.

L'ARTE DELL'ANTICO EGITTO.

L'arte non è soltanto un lavoro manuale, una molteplice industria che servilmente copia la natura a soddisfare i sensi e i bisogni materiali della vita, ma nell'ordine delle idee è uno spiracolo celeste, è la schietta manifestazione dell' anima umana che, contemplando la natura, aspira alle origini eterne del Bello. Cosi considerata l'arte, mi si presenta varia in ogni tempo, secondo la diversità dei climi e dei costumi delle nazioni che vividamente la manifestano nei suoni, nella parola, nelle linee e nella figura.

Ragionando degli Egiziani, abbiamo argomenti per dire che sino dalle età più remote esercitassero l'arte nei suoni, coltivando la musica. Gli uomini anco nello stato di selvatichezza ebbero comune cogli augelli l'istinto del canto. Gli usignuoli empiono di melodie le selve, e gli uomini educandosi a civiltà fecondarono l'istinto melodico secondo l'intimo sentimento, bramoso di affetti e di novità. Nelle prime loro melodie gli uomini, meravigliati degli spettacoli della natura, avranno mandato al supremo Creatore il cantico della riconoscenza; ond'è che nei santuarii incontriamo i primi segni della musica. I maestosi templi dell'Egitto aveano schiere di cantori, e libri santi che contenevano gli antichi inni agli Dei. Inoltre i dipinti e bassorilievi dei sepolcri spesso ritraggono arpe, lire, flauti ed altri stromenti musicali ch'erano in uso ad animare le danze ed onorare le feste religiose. Memorabile fra i molti è l'ipogeo di Beni-Hassan

che colle sue dipinture richiamandoci ai tempi della dodicesima dinastia dei Faraoni ricorda Noum-hotep, governatore del distretto di Sah. Gli stanno innanzi diciassette persone (simboleggianti trentasette) dell' asiatica tribù degli Amou in atto di fare ossequente offerta. Uno di que' stranieri tocca la lira col plettro e colle dita, e forse colla musica saluta il monarca che li accoglie ospitalmente nel frugifero Egitto ai tempi di Osortasen II. Non sappiamo quali norme seguissero gli Egizii nell'esercizio de' suoni. Conoscevano la sinfonia tripla, ossia l'armonia degli stromenti, l'armonia delle voci e quella delle voci e degli stromenti, ma non innalzarono a sublimità di magistero la musica, la quale era un'industria delle ultime classi del popolo, e talvolta dei ciechi.

Cercando qualche traccia dell'antica musica, sono tratto a pensare che le cantilene a poche note, che lungo il Nilo suonano da gran tempo, siano ancora le medesime con cui anticamente inneggiavasi nei santuarii e nelle reggie. Cosi probabilmente opinava Giuseppe Verdi, che nell' epopea musicale dell' Aida, celebrando sul Nilo le imprese trionfali del novello Impero contro l'Etiopia, ci ripete amabilmente ingentiliti dall' arte italiana i canti popolari che udii più volte pellegrinando su le rive del sacro fiume. Così pure diverse tribù dell' Affrica avranno ereditato dai selvaggi proavi il kilindo, l'upato e il tomtom, sorta di tamburi e timballi, ed altri simili stromenti, insieme coi flauti e le arpe, coi cembali e le trombe.

Poche notizie ci rimangono della musica degli antichi Egiziani, e poche eziandio dei loro canti. La poesia fu sempre la più grata espressione della parola, il fiore più odoroso delle letterature; e sul Nilo olezza nelle scritte geroglifiche che adornano i monumenti, e nei rituali funebri che consolano di speranze le case dei morti.

Le scritte faraoniche del vecchio Impero sono d'uno stile semplice e conciso; non cosi le altre de' secoli seguenti, che spesso trasmodano in pompose glorificazioni. Fra le più feconde di notizie storiche e d'immagini ardite va segnalata quella dissepolta dal Mariette, fra le rovine di Karnac; colla quale il Dio Amone parlando al suo diletto Tutmosi III narra enfaticamente le conquiste militari ottenute dal magnanimo Faraone, in terra e in mare, sotto la divina tutela. Ma il più spiccato esempio di poesia egiziana, a noi noto, appartiene ai fasti della diciannovesima dinastia; ed è il poema di Pentaour in onore di Ramse II, poema che di quattro secoli precede quelli di Omero.

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