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moveva e non fiatava: e ancora dubito che fra poco non mi gitti le radici per le spalle, e non vi si abbarbichi.

ERC. Io piuttosto credo che dorma, e che questo sonno sia della qualità di quello di Epimenide (3), che durò un mezzo secolo e più; o come si dice di Ermotimo (4), che l'anima gli usciva del corpo ogni volta che voleva, e stava fuori molti anni, andando a diporto per diversi paesi, e poi tornava, finchè gli amici per finire questa canzona, abbruciarono il corpo; e così lo spirito ritornato per entrare, trovò che la casa gli era disfatta e che se voleva alloggiare al coperto, gliene conveniva pigliare un'altra a pigione, o andare all'osteria. Ma per fare che il mondo non dorma in eterno, e che qualche amico o benefattore, pensando che egli sia morto, non gli dia fuoco, io voglio che noi proviamo qualche modo di risvegliarlo.

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ATL. Bene, ma che modo?

ERC. Io gli farei toccare una buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo finirei di schiacciare, e che io non ne facessi una cialda; o che la crosta, atteso che riesce così leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli mi scricchioli sotto il colpo come un uovo. E anche non mi assicuro che gli uomini, che al tempo mio combatte

vano a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa tutti in un tratto. Il meglio sarà ch'io posi la clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla con questa sferuzza. Mi dispiace ch'io non ho recato i bracciali o le racchette che adoperiamo Mercurio ed io per giocare in casa di Giove o nell'orto: ma pugna basteranno.

le

ATL. Appunto; acciocchè tuo padre, veduto il nostro giuoco e venutogli voglia di entrare in ter

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colla sua palla infocata ci precipiti tutti e due non so dove, come Fetonte nel Po.

ERC. Vero, se io fussi, come era Fetonte, figliuolo di un poeta, e non suo figliuolo proprio; e non foss i anche tale, che se i poeti popolarono le città col suono della lira, a me basta l'animo di spopolare il cielo e la terra a suono di clava. E la sua palla, con un calcio che le tirassi, io la farei schizzare di qui fino all'ultima soffitta del cielo empireo. Ma sta sicuro cha quando anche mi venisse fantasia di sconficcare cinque o sei stelle per fare alle castelline o di trarre al bersaglio con una cometa, come con una fromba, pigliandola per la coda, o pure di servirmi proprio del sole per fare il giuoco del disco, mio padre farebbe le viste di non vedere. Oltre che la nostra intenzione con questo giuoco è di far bene al mondo, e non come quella

di Fetonte, che fu di mostrarsi leggero della persona alle Ore, che gli tennero il montatoio quando sali sul carro; e di acquistare opinione di buon cocchiere con Andromeda e Callisto é le altre belle costellazioni, alle quali è voce che nel passare venisse gittando mazzolini di raggi e pallottoline. di luce.confettate; e di fare una bella mostra di se tra gli Dei del cielo nel passeggio di quel giorno, che era di festa. In somma, della collera di mio padre non te ne dare altro pensiere, che io m'obbligo, in ogni caso, a rifarti i danni; e senza più cavati il cappotto e manda la palla.

ATL. O per grado o per forza, mi converrà fare a tuo modo; perchè tu sei gagliardo e coll'arme, e io disarmato e vecchio. Ma guarda almeno di non lasciarla cadere, che non se le aggiungessero altri bernoccoli, o qualche parte se le ammaccasse, o crepasse, come quando la Sicilia si schiantò dall'Italia e l' Africa dalla Spagna; o non ne saltasse via qualche scheggia, come a dire una provincia o un regno, tanto che ne nascesse una guerra.

ERC. Per la parte mia non dubitare.

ATL. A te la palla. Vedi che ella zoppica, perchè l'è guasta la figura.

ERC. Via dálle un po' più sodo, che le tue non arrivano.

ATL. Qui la botta non vale, perchè ci tira garbino al solito, e la palla piglia vento, perch'è leggera.

ERC. Colesta è sua pecca vecchia, di andare a caccia del vento.

ATL. In verità non saria mal fatto che ne la gonfiassimo, che veggo che ella non balza d'in sul pugno più che un popone.

ERC. Cotesto è difetto nuovo, che anticamente ella balzava e saltava come un capriolo.

ATL. Corri presto in là; presto ti dico; guarda per Dio, ch' ella cade mal abbia il momento che tu ci sei venuto.

ERC. Così falsa e terra terra me l'hai rimessa che io non poteva essere a tempo se m'avessi voluto fiaccare il collo. O imè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s' ode un fiato e non si vede muovere un anima, e mostra che tutti dormano come prima.

ATL. Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch'è seguito per tua cagione.

ERC. Così farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad instanza di

Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l'altre una dove dice che l'uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perchè il mondo è caduto, e niuno s'è

mosso.

ATL. Chi dubita della giustizia degli uomini? Ma tu non istare a perder più tempo, e corri su presto a scolparmi con tuo padre, che io m' aspetto di momento in momento un fulmine che mi trasformi di Atlante in Etna.

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