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uno mercato a comperare berbici,' ed ebbene due per bisante. Tornando con le sue pecore, uno fiume ch' avea passato era molto cresciuto per una grande pioggia che era stata. Stando alla riva, brigossi d'accivire in questo modo: che vide uno pescator povero con uno suo burchiello a dismisura piccolino, si che non vi capea se non il villano ed una pecora per volta. Lo villano cominciò a passare con una berbice, e cominciò a vogare. Lo fiume era largo; voga, e passa. E lo favolatore restò di favolare, e non dicea più. E messer Azzolino disse: Che fai? via oltre. Lo favolatore rispose: Messere, lasciate passare le pecore, poi conteremo lo fatto; che le pecore non sarebbono passate in un anno, sì che intanto potè bene ad agio dormire.

Qui conta del re Currado padre di Curradino.

Leggesi del re Currado padre di Curradino, che quando era garzone si avea in compagnia dodici garzoni di sua etade. Quando lo re Currado fallava, li maestri che gli erano dati a guardia non batteano lui, ma batteano di questi garzoni suoi compagni per lui. E que' dicea: Perchè battete voi cotestoro? Rispondeano li maestri: Per li falli tuoi. E que' dicea: Perchè non battete voi me, chè mia è la colpa? Diceano li maestri: Perchè tu sei nostro signore. Ma noi battiamo costoro per te; onde assai ti dee dolere, se tu hai gentil cuore, ch' altri porti pena delle tue colpe. E perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di fallire per la pietà di coloro.

1 Berbici per Pecore è rimasto ai Francesi nella voce brebis. Brigossi d' accivire. S'ingegnò di provedere al suo bisogno. Accivire è caduto in disuso.

3 Vogare. Remare.

SECOLO DECIMOQUARTO.

NOTIZIE STORICHE.

Il pontefice Bonifazio VIII per sottrarsi al pericolo che gli sovrastava qualora Alberto d' Austria e Filippo il Bello si fossero collegati contro di lui, riconobbe imperatore l'austriaco, e sperò di averlo compagno a reprimere la baldanza del re francese. Ma Filippo non poteva essere così di leggieri spaventato nè illuso; e nel settembre del 1303 mandò Nogaret in Italia, il quale con Sciarra Colonna e con altri, già guadagnati da lui, fece prigioniero Bonifazio in Anagni. Una tradizione accolta anche dall' Allighieri aggiunge che il vecchio pontefice fu trattato durissimamente, e che Sciarra Colonna trascorse fin anco a dargli uno schiaffo. Veramente, il popolo dopo tre giorni lo tolse loro di mano e lo condusse a Roma quasi trionfante; nondimeno il dolore e lo sdegno di quell'ingiuria soverchiarono le sue forze, e ne morì poco appresso.

Benedetto XI, che gli successe, tenne il pontificato soltanto nove mesi; poi morì in Perugia dov' erasi trasferito per la poca sicurezza di Roma. Suo successore fu Bertrando di Goth arcivescovo di Bordeaux, creatura del re di Francia: e poichè gli Orsini e i Colonnesi, potenti di ricchezze e di fautori, tenevano sempre Roma sossopra e infermo il pontificato; riuscì facilmente a Filippo di persuaderlo a lasciare un paese, dove non avrebbe potuto essere nè autorevole mai nè sicuro. Il nuovo eletto andò quindi tramutandosi per varie città della Francia; coronossi nel 1305 in Lione prendendo il nome di Clemente V, e fermò la sua sede in Avignone nel 1308.

In quel medesimo anno morì Alberto d' Austria: laonde Carlo di Valois fratello di Filippo il Bello sollecitava Clemente V ad effettuare la promessa di Bonifazio VIII, coronandolo imperatore: ma quel pontefice propose segretamente Arrigo conte di Lussemburgo, temendo la soverchia grandezza a cui la Casa di Francia

sarebbe salita acquistando la dignità imperiale. Essa fu dunque conferita ad Arrigo, settimo di questo nome.

Quest' imperatore fu il primo, da Federico II in poi, che passasse le Alpi e tentasse almeno di ridestare in Italia l'autorità dell' imperio e la parte Ghibellina. Nel suo viaggio ricondusse in Milano Matteo Visconti, che n'era stato espulso dalla fazione dei Torriani; i quali perdettero allora e Stato e patria per sempre. Matteo fu eletto vicario imperiale, e in breve tempo (dal 1310 al 1315) s'impadronì di Piacenza, Bergamo, Novara, Pavia e di molte altre città. Ad Arrigo, diedero favore in quella spedizione i principi di Lombardia, i conti di Savoia, i Pisani e Federico re di Sicilia. Gli si opposero i Guelfi di Toscana, e Roberto re di Napoli, il quale aspirava al dominio di tutta Italia. Ma di questa venuta di Arrigo già si è veduta la storia presso Dino Compagni ; sicchè qui rimane da aggiungere unicamente, ch' egli morì a Buonconvento nel territorio di Siena addì 21 agosto 1313, mentre avviavasi a combatter Roberto nel proprio suo regno. Così furono tronche le speranze de' Ghibellini.

Vuolsi notare per altro che, al tempo del quale parliamo, nè i Ghibellini volevano ristabilire la potenza imperiale, nè i Guelfi cercavano l'ingrandimento dei papi: tutte e due queste fazioni aspiravano ad essere indipendenti dall' Imperio non meno che dalla Chiesa; e solo cercavano di aiutarsi collegandosi temporariamente con quella tra queste due podestà di cui temevano meno, contro l'altra ond' erano oppressi o minacciati. Dei Ghibellini poi alcuni, come i Bianchi di Firenze, erano fuorusciti; altri, come i signori lombardi, erano in istato e potenti. Quando morì dunque Arrigo VII, que' Ghibellini ch' erano fuorusciti o trovavansi in città dominate dai Guelfi, perdettero le speranze concepite alla sua venuta; ma i signori di Lombardia non peggiorarono punto la loro condizione. Essi non erano ghibellini se non quanto era guelfo Roberto di Napoli; e combattevano in compagnia di Arrigo per sottrarsi al pericolo di cadere nella signoria di quel re, non già per ristabilire in Italia la potenza imperiale. Ma il vantaggio a cui agognavano combattendo, non poteva andar disgiunto da un pericolo forse più

1 Vedi pag. 41 e seg.
2 Vedi pag. 36 e seg.

grave di quel che fuggivano: perchè, se avessero abbattuto Roberto coi Guelfi, come potevano assicurarsi che Arrigo non manomettesse la loro indipendenza? La morte di quell' imperatore venne dunque a sottrarli da questo pericolo; e le circostanze che soprarrivarono poi li salvarono da quell' altro pel quale s' erano uniti con lui. Queste circostanze furono primamente l'interregno da Arrigo VII a Lodovico il Bavaro suo successore; la lunga dimora che questi fece in Germania combattendo per la corona con Federigo d' Austria; la politica dei papi che non s'indussero mai a riconoscerlo imperatore; il cattivo successo della sua spedizione in Italia; é le discordie e le sètte nate tra i Guelfi.

Se non che la potenza di Roberto era tanta, da non comportare che i Ghibellini rimettessero punto del loro zelo per contrastargli. Oltre alle forze del Regno, combatteva con quelle de' Fiorentini che, vivo Arrigo, gli si erano dati per cinque anni; e con le forze ancora di Pistoia, Prato e Genova che l'esempio di Firenze avevano seguitato. Morto poi Arrigo, gli si aggiunse anche il grado di Vicario imperiale conferitogli dal pontefice Giovanni XXII, il quale dichiarò vacante l'imperio, non volendo riconoscere nè Lodovico il Bavaro, nè Federico d' Austria suo competitore; e mise fuori quella dottrina, che, vacando l'imperio, la somma delle cose spettasse al pontefice. Però i Ghibellini, necessitati di star sempre in sull' armi, ebbero a capo nella Toscana Uguccione della Faggiola, già partigiano di Arrigo, e fatto signore di Pisa e di Lucca dopo la morte di lui; poi Castruccio Castracani, che successe ad Uguccione quand'egli nel 1316 perdette la confidenza e l'amore dei suoi. E in Lombardia si sostennero colle forze principalmente di Matteo Visconti e di Cane della Scala signor di Verona.

La lotta tra le due fazioni si agitò particolarmente sotto le mura di Genova. Roberto fatto capo dei Guelfi in quella città, vi sostenne l'assalto dei Ghibellini concorsi per espugnarla; tra i quali si rese illustre principalmente Marco Visconti figliuolo di Matteo. Genova non fu presa; ma Roberto perdette tutti gli altri vantaggi che le sue forze gli avrebbero dati se avesse po

tuto usarne a suo senno.

Si crede che quel re e Giovanni XXII si fossero accordati di partirsi l'Italia tra loro. A tale effetto, Giovanni, oltre all' aver inviato Beltrando del Poggetto suo

cardinale e secondo alcuni suo figlio, affinché si unisse col re e coi Guelfi, ricorse alle scomuniche, e ne fulminò fieramente Matteo Visconti ch' era il maggiore ostacolo a' suoi disegni. Nè contento a quella scomunica, interdisse le città soggette a Matteo, e pubblicò una plenaria remissione di colpe e di pene a chiunque pigliasse le armi contro lui e i suoi fautori.

I tempi eran tuttora propizii a tali procedimenti. Quindi Matteo si vide abbandonato da molti; e secondo uno storico antico avea a guardarsi da' suoi cittadini come da pubblici e capitali nemici. Sicchè, per cessare maggiori danni, si ritrasse dal governo, cedendolo a Galeazzo suo figlio; e voltosi ad opere di pietà per ismentire le accuse che gli erano date, nel giugno del 1322 morì a Crescenzago in un convento.

Ne Galeazzo avrebbe potuto resistere all' armi che il pontefice suscitavagli contro, se Lodovico il Bavaro, rimasto finalmente vittorioso di Federico d' Austria, non avesse creduto di dover sostenere i nemici di Roberto e del papa. Quell'imperatore mandò in Italia un esercito al quale si unirono i Tedeschi, che qui si trovavano come soldati mercenari: perciò Galeazzo, che nel 1323 avea veduti i crocesignati fin ne' sobborghi di Milano, nel febbraio del 1324 potè sconfiggerli a Vaprio in compagnia del fratello Marco, e sul finire di quel medesimo anno trovossi libero da' suoi numerosi nemici.

Agli esterni pericoli successero allora le famigliari discordie; di che alcuni incolpano Galeazzo, geloso della gloria militare di Marco; altri accusano Marco stesso, intollerante di non essere primo nel governo come sentiva di esser primo nell' armi: e dicono che quando nel 1327 Lodovico il Bavaro venne in Italia per la corona imperiale, egli lo inimicò a Galeazzo, rappresentandoglielo come inclinato a pacificarsi col papa. Questo è poi certo, che Lodovico depose Galeazzo e lo fece imprigionare nella torre di Monza; d'onde nol trasse che dopo un anno, a preghiera del ghibellino Castruccio.

La venuta di Lodovico parve rinnovare in Italia tutto ciò che s'era veduto nell' antica gara tra il Sacerdozio e l'Imperio. Il pontefice dalla sua sede di Avignone scomunicò l'imperatore; e questi dichiarò lui scismatico, eretico e decaduto. Pigliò poi in Roma la corona imperiale per mano di due vescovi scomunicati, e se la fece riconfermare da un nuovo papa eletto da lui sotto il nome di Nicolò V; il quale poi, prevalendo la

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