Ed alla mia fenice, Tanto leggiadra, hai dato ore sì corte ? Che fian brevi, locati avessi in lei ! Crudel, quelle amorose Dolci parole umane, Quei prieghi, quelle lagrime e quel viso Ch'avrian fatto pietose Le tigri orride, ircane, Come non t'hanno (oimè !) vinto e conquiso ? Tutti i mortali anciso Hai tu con un sol colpo, E in duo lumi celesti Gli uman nostri chiudesti. Ma più che te, Natura e 'l Cielo incolpo, Che fan si perfett' opra Perchè vil terra la nasconda e copra. Nulla più, o Ciel, ne cale Del tuo vago e sereno, Non più splendono a noi stelle nè solc. Veder pinto il terreno Di gigli, d' amaranti e di vïole, Se l'alme luci e sole Mirar più non ne lice Ch' avean tant' alme accese A gloriose imprese, Ond' era più che mai Roma felice, Ed al suo primo onore Salia, scórta da tanto e tal splendore? O poverella mia, statti piangendo In questo orrido speco, Chè ne verran de l' altre a pianger teco. qui, ed anche più sotto ove parla dei lumi umani chiusi in duo lumi cclesti (cioè col chiudersi degli occhi della defunta), l'Autore dà in quei concettini che piacquero troppo al Seicento. FINE DEL SECONDO VOLUME, |