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Pag. 27, lin. 15.

DA TANTA PIETATE. Da vista, da spettacolo tanto pietoso. Similmente Inf. VII 97.: Or discendiamo omai a maggior pièta; e XVIII 22: Alla man destra vidi nuova piëta, Nuovi tormenti e nuovi tormentati.

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SE' TU COLUI C'HAI TRATTATO SOVENTE DI NOSTRA DONNA. Nella canz. Donne ch'avete aveva detto: Ma tratterò del suo stato gentile... Donne e donzelle amorose, con vui, Chè non è cosa da parlarne altrui.

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SOFFERSI PER MOLTI DI AMARISSIMA PENA. Così la volg. Leggerei, col TRIVULZIO e col TORRI: per nove dì, più consentaneamente al nono di, sotto rammentato e alle idee di DANTE sul numero

nove.

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IO RITORNAI... ALLA MIA DEBOLETTA VITA. Così tengo che debba leggersi col TRIVULZIO, cogli EDD. PESAR., Col TORRI, col GIULIANI; e non debilitata, col FRATICELLI: perchè debiletta, come nota il GIULIANI, meglio risponde alla mia frale vita della canz. seguente.

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ANCORA CHE SANA FOSSE. Il GIULIANI, in compagnia del TORRI, leggerebbe sano fossi. Non bene, parmi; perocchè l'osservazione sia su la vita umana in generale.

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COMINCIAL A TRAVAGLIARE COME FARNETICA PERSONA E AD IMAGINARE IN QUESTO MODO. Cfr. Purg. XVIII 140: Nuovo pensier dentro da me si mise Del qual più altri nacquero e diversi, E tanto d'uno in altro vaneggiai Che gli occhi per vaghezza ricopersi E'l pensamento in sogno trasmutai.

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DONNE... MARAVIGLIOSAMENTE TRISTE. È il virgiliano: et simulacra modis pallentia miris Visa sub obscurum noctis, Georg. I 477. E VIRGILIO da LUCREZIO, I 124: quaedam simulacra modis pallentia miris.

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E PAREAMI VEDERE IL SOLE OSCURARE. Il Rossetti (Spir. antip. ec. pag. 408) nota che tutti questi modi figurati di dire sono tratti dall' Apocalisse, ed al presente fantastico luogo corrisponde il solenne giudizio a cui vien Beatrice nel c. XXIX del Purg. L' Apocal. cap. VI, all'apertura del quarto suggello: ... Ed ecco si fece un gran tremuoto, e il sole divenne nero come un sacco di pelo, e la luna divenne tutta come sangue. E le stelle del cielo caddero in terra, come quando il fico, scosso da un gran vento, lascia cadere i suoi ficucci. E il cielo si ritirò, come un libro convolto.

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DOLCISSIMA MORTE, VIENI A ME ec. Se ne ricordò FAZIO DEGLI UBERTI, sebbene per altre ragioni, nella canz. Lasso, che quando ecc: Io chiamo, io prego, io lusingo la morte Come divota cara e dolce amica, Che non mi sia nemica Ma vegna a me come a sua propria cosa. E se ne ricordò, in argomento più consimile, ALESSO DI GUIDO DONATI nella ball. De, come sofferis' tu (Cantilene e ballate ec., Pisa, Nistri, 1871, pag. 307): E ònne tal disio, Po' che se' stata in questa donna mia, Che, s'a me fatta pia Non vien' tostana, a te verrò tost' io, E, per trovarti, in cosa tanto dura Mi gitterò che tu n'avra' paura.

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TU 'L VEDI CH'IO PORTO GIÀ LO TUO COLORE. Altrove il p. stesso: Io porto Morte pinta nella faccia; e il PETR. (Son. S'io credessi per morte): quella sorda Che mi lassò de' suoi color dipinto E di chiamarmi a se non le ricorda.

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LO TUO COLORE. I CAVALCANTI: Io pur rimango in tanta avversitate Che qual mira di fuore Vede la morte sotto 'l mio colore (Ball. VI).

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TUTTI I DOLOROSI MESTIERI. Così va letto col BISCIONI e il GIULIANI (la volg. misterü). Mestiere nella lingua antica era l'officio dei morti; SACCHETTI: lo ritrovò star malinconoso e pensoso, come se facesse mestiero di qualche suo parente. E così mestier nel provenz.: RAIMONDO FERALDO, Qui dira messas y mestiers. Ed è curioso che il FRATICELLI, il quale arreca questi due esempii, legga poi misterii. Del resto, questa prosa del sogno e della visione fu tradotta in alessandrini francesi da C. A. SAINTE-BEUVE in Poésies de J. Delorme (Paris, Levy, 1863 ).

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DI NOVELLA ETATE. Inf. XXXIII 88: Innocenti facea l'età novella... Uguccione e'l Brigata.

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E ROTTA SÌ DALL'ANGOSCIA DEL PIANTO. A me più che non dall' angoscia e dal pianto, piace la lez. del BISCIONI: dall' angoscia del pianto: per quel che DANTE ha detto nella prosa: la mia voce era si rotta dal singulto del pianto. Cfr. (nella canz. Gli occhi dolenti) Pianger di doglia e sospirar d'angoscia; e Purg. XXX 97: Lo giel che m'era intorno al cor ristretto Spirito ed acqua fessi, e con angoscia Per la bocca e per gli occhi uscì del petto.

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CH'IO SOLO INTESI IL NOME NEL MIO CORE. È spiegato e amplificato dal TASSO, Ger. lib. XVI 36: Volea gridar: Dove, o crudel, me sola Lasci? ma il varco al suon chiuse il dolore, Si che tornò la flebile parola Più amara indietro a rimbombar sul core.

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CH'IO CHIUSI GLI OCCHI VILMENTE GRAVATI. Purg. XXX 78: Tanta vergogna mi gravò la fronte; Par. XI 88: Në gli gravò viltà di cuor le ciglia.

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COSE DUBITOSE. Paventose: da far paura. Più a dietro (p. 3 §. III): lo quale ella mangiava DUBITOSAMENTE; che poi nel Son. è reso così: Lei PAVENTOSA umilmente pascea. Inf. XXXIII 45: E per suo sogno ciascun dubitava.

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CHE DI TRISTIZIA SAETTAVAN FOCO. Inf. XXIX 44: Lamenti saettaron me diversi Che di pietà ferrati avean gli strali.

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CHE FAI? NON SAI NOVELLA? GUIDO CAVALCANTI: Par ch' una stella si mova E dica: tua salute è dipartita. (Ball. V).

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PIOGGIA DI MANNA. È qui il luogo opportuno di raccogliere alcuni usi singolarissimi delle parole pioggia e piovere presso i nostri antichi rimatori. GUIDO CAVALCANTI: Par che nel cor mi piova Un dolce Amor si bono Ch' io dico: Donna, tutto vostro sono (Ball. III) Era in pensier d'amor quand' io trovai Due forosette nove : L'una cantava: e' piove Foco d' Amore in nui (Ball. VI) E veggio piover per l'aria martiri Che struggon di dolor la mia persona (Ball. VIII).- CINO DA PISTOJA: Tutto ciò ch'è gentil se n' innamora: L' aer ne stà gaudente, E'l ciel piove dolcezza ula dimora (p. 106) Lo spirito di laule Che piove Amor d' ordinato diletto Da cui il gentil animo è costretto (p. 191) LAPO GIANNI: In colei si può dir che sia piovuta Allegrezza, speranza e gioi compita Ed ogni rama di virtù fiorita (Poet. prim. sec. II, 109). E DANTE: Ciascuna stella negli occhi mi piove Della sua luce e della sua virtute (Ball. Io mi son pargoletta) · Sua beltà piove fiammelle di fuoco Animate d'un spirito gentile Ch'è creatore d'ogni pensier buono (Canz. Amor che nella mente) — E da' suoi raggi sovra 'l mio cor piove Tanta paura che mi fa tremare (Son. Dagli occhi della mia donna).

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E VEDEA CHE PAREAN PIOGGIA DI MANNA GLI ANGELI CHE TORNAVAN SUSO IN CIELO. Simile imagine ritorna nella canzone alla Morte (Morte, poi che io non truovo): Che mi par già veder lo cielo aprire, E gli angeli di Dio quaggiù venire Per volerne portar l'anima santa Di questa in cui onor lassù si canta. E alla pioggia di manna si può confrontare, come nota il GIULIANI, la similitudine che il p. adoperò Par. XXVIII 70, a significare la dispersione de' beati onde era circondato l'apostolo Pietro: Si come di vapor gelati fiocca In giuso l'aer nostro, quando il corno Della capra del ciel col sol si tocca, In su vid' io così l'etere adorno Farsi, e fioccar di vapor trionfanti Che fatto avean con noi quivi soggiorno.

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ED UNA NUVOLETTA AVEAN DAVANTI. Cfr. Inf. XXVI 35: Vidi il carro d' Elia al dipartire ...... Si come nuvoletta in su salire.

ED UNA NUVOLETTA AVEAN DAVANTI. « Gli antichi pittori costumarono fino al Secolo XVI di rappresentare l'anima che si parte dal corpo nella forma di un fanciullo che avvolto d'una bianca nuvoletta vola al cielo » WITTE, Anmerkungen, pag. 29.

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VEGGENDO IN LEI TANTA UMILTÀ FORMATA. La morte non lasciò segno di terrore sul viso di Beatrice, ma solo umiltà e pace, osserva il WITTE. Cfr. questi tre versi, e più il luogo della prosa corrispondente, alla morte di Laura nel PETR. Tr. Mort., I 172, e a quella di Clorinda nel Tasso, Ger. lib., XII 68 e 69.

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TU DEI OMAI ESSER COSA GENTILE. Più sopra, nel Son. doppio del §. VII (pag. 7) l'avea chiamata villana e di pietà nemica.

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PRIMAVERA. A questo nome o sopranome dell' amata di Guido, allude il CAVALCANTI stesso colle parole: Avete in voi li fiori e la verdura E ciò che luce è bello a vedere. (Son. XIV).

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CHI VOLESSE SOTTILMENTE CONSIDERARE, QUELLA BEATRICE CHIAMEREBBE AMORE, PER MOLTA SIMIGLIANZA CHE HA MECO. Giustamente osserva il FÖRSTER che alla piena intelligenza di questo passo richiedesi la cognizione delle idee di DANTE intorno l'amore, le quali specialmente si contengono nel seguente luogo del Conv. III. 2. « Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale dell'anima e della cosa amata; nel quale unimento di propria sua natura l'anima corre tosto o tardi, secondo che è libera o impedita. E la ragione di questa naturalità può essere questa: Ciascuna forma sostanziale procede dalla sua prima cagione, la qual è Iddio, siccome nel libro di cagioni è scritto; e non ricevono diversità per quella, ch'è semplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la materia in che discende. Onde nel medesimo libro si scrive, trattando dell' infusione della bontà divina e fanno diverse le bontadi e i doni per lo concorrimento della cosa che riceve Onde, con ciò sia cosa che ciascuno effetto ritenga d'lla natura della sua cagione, siccome dice Alfarabio quando afferma che quello ch'è causato di corpo circolare ha in alcuno molo circulare essere, ciascuna forma ha essere della divina natura in alcuno modo: non che la natura divina sia divisa e comunicata in quell', ma da quelle partecipata, per lo molo quasi che la natura del sole è partecipata nell' altre stelle. E quanto la forma è più nobile, tanto più di questa natura tiene. Onde l'anima umana, ch'è forma nobilissima di queste che sotto il cielo sono generate, più riceve della natura divina che alcun' altra. E, però che naturalissimo è in Dio volere essere (però che, siccome nello allegato libro si legge, prima cosa è l'essere, e anzi a quello nulla è), l'anima umana esser vuole naturalmente con tutto desiderio; e, però che il suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole a Dio essere unita per lo suo essere fortificare; e, però che nelle bontadi della natura umana la ragione si mostra della divina, viene che naturalmente l'anima umana con quelle per via spirituale si unisce tanto più tosto e più forte quanto quelle più appaiono perfette, lo quale apparimento è fatto secondo che la conoscenza dell'anima è chiara o impedita. E questo unire è quello che noi dicemo Amore ».

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TACENDO CERTE PAROLE LE QUALI PAREANO DA TACERE. Cioè: che Giovanna si sopracchiamasse Primavera solo come prenunzia del venir di Beatrice; che sarebbe stato un darle una condizione inferiore, rispetto a Beatrice, di bellezza e d'amore, e non sarebbe stato gentile verso essa Giovanna e il suo poeta.

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Pag. 31. lin. 21.

CREDENDO IO CHE ANCORA IL SUO CUORE MIRASSE LA BELTÀ DI QUESTA PRIMAVERA GENTILE. Il primo amico è, come si sa, il CAVALCANTI: e DANTE, quando scrisse il Sonetto che segue, lo credeva preso tutt'ora all'amore di quella Giovanna o Vanna detta ancora Primavera per la quale avea fatto le prime rime (Acete in voi li fiori e la verdura ec.), mentr'egli avea già rivolto l'animo alla Mandetta di Tolosa, per la quale fece le rime della sua seconda e più calda maniera.

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IO VIDI MONNA VANNA E MONNA BICE. Il nominare che fa qui DANTE la donna amata così famigliarmente col suo diminutivo e vezzeggiativo e col titolo di conversazione Monna, come del resto fece anche nel Parad. VII 14, parmi una fra le tante prove, e non delle meno efficaci, per chi prende le cose nella loro realtà e pel loro verso, contro quelli che negano la personalità della Beatrice, contro quelli che sostengono la sua pura e sola essenza di mito o d'allegoria. Del resto, come notarono già il DIONISI il FRATICELLI il TORRI, se Beatrice fosse soltanto un' allegoria, un'allegoria dovrebbe esser pure la Vanna del CAVALCANTI; che finora nessuno ha detto. V'è un altro Sonetto di DANTE indirizzato al CAVALCANTI, ove le due belle donne son nominate in compagnia d'un altra: la donna di LAPO GIANNI, e in guisa che esclude, per chi non viva in un altro mondo che il nostro, ogni idea d'allegoria:

Pag. 35, lin. 3.

Guido, vorrei che tu e Lapo ed io
Fossimo presi per incantamento

E messi in un vasel ch' ad ogni vento
Per mare andasse a voler vostro e mio,
Sì che fortuna od altro tempo rio
Non ci potesse dare impedimento,
Anzi, vivendo sempre in un talento,
Di stare insieme crescesse il disio.

E monna Vanna e monna Bice poi
Con quella ch'è su 'l numero del trenta
Con noi ponesse il buono incantatore.
E quivi ragionar sempre d'amore,

E ciascuna di lor fosse contenta,
Siccome io credo che sariamo noi.

E QUELLA HA NOME AMOR SÌ MI SOMIGLIA. Onde non altri che Beatrice è l'Amore che si lamenta in forma vera Sovra la morta imagine avvenente nel son. 1 del §. VIII di questa opera (p. 7).

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POTREBBE QUI DUBITARE PERSONA DEGNA ecc. Il signor FRANCESCO PEREZ, proponendosi nel capo IV della Beatrice svelata, (Palermo, Lao, 1865, pag. 50 e segg.) di recare innanzi tutti quei passi (di tutte le prose dell' Alighieri) ov'egli esplicitamente ed apertamente manifesta le sue opinioni e dottrine sulla forma allegorica, e se, come, dove l'adoperasse nell'opere sue, della V. N. reca sol questo tratto, che nelle edd. recenti è il §. XXV, e non intiero, e non nella sua connessione con gli antecedenti.

Or qui il p. riporta ed espone un suo sonetto nel quale egli aveva introdotto Amore in persona come prenunzio e presentatore (mi si conceda l'uso di questo vocabolo nel significato della conversazione moderna) di monna Vanna e di monna Bice. Ma egli altro non fa qui che

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