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LICENZA

Al momento di porre in torchio l' ultimo foglio di questa novella stampa dell' aureo libretto dantesco, volemmo riprendere in esame il già fatto, per vedere se nulla fosse da aggiungere o da correggere e quel che trovammo di errato o di omesso ci è parso debito nostro avvertir qui al lettore. E prima delle aggiunte.

Da pag. 60 a pag. 62 abbiamo arrecato diverse opinioni sul controverso passo del MOLTI NON SAPEANO CHE SI CHIAMARE. Quando già avevamo stampato quel foglio, esciva a luce in Roma il primo fascicolo della Rivista di Filologia Romanza diretta da L. Manzoni, E. Monaci, E. Stengel, nel quale si contiene un articolo del sig. U. A. CANELLO sulla interpretazione di cotesto passo. Il sig. CANELLO riferiamo qui la sua interpretazione colle parole del Professor FLECHIA che nella Rivista di Filologia d'istruzione classica, (Torino, Loescher, 1, 8, p. 401) la riassume e poi la confuta <«< crede di vedere sotto la forma di chiamare non già quella di un infinito, ma sì una sporadica forma verbale, derivata dal perfetto del soggiuntivo, e procedente quindi foneticamente da clamarint (clamaverint). In appoggio della quale opinione egli cita più luoghi della cronaca mantovana di ALIPRANDO BONAMENTE (MURATORI, Antiq. It., v), in cui veramente s'incontrano molte forme rispondenti a quelle dell' infinito, ma che hanno manifestamente valore ben altro che d'infinito, onde per es. usare per usava, pigliare per pigliava, dominare per dominava, stare per stava, partire per partirono, gire per girono, compilare per compilasse, ecc. Queste forme pel CANELLO rappresentano tante alterazioni del tipo del perf. del soggiuntivo, sicchè per es. dominare per dominava verrebbe da dominarit ecc., ragionare per ragionavano da rationarint ecc. E perciò egli considera quell'ultima parte del citato luogo della Vita Nuova come rispondente letteralmente a qui nesciebant, quid sic clamarint, che poi finirebbe per dare un senso difficile a capirsi, cioè i quali non sapevano che cosa così abbiano chiamato.

<«< Ora a me pare strano che il perfetto del sogg. sia venuto a dar questa unica forma in re, serviente pei due numeri, per più tempi e modi, e anche per più persone, tanto che si trovi pure usata pel presente dell' indicativo, come per es. nel verso, dal CANELLO non avvertito: A una città che Mantova se dire (IIII, B), cioè si dice, si chiama. Io credo piuttosto che sia qui il caso di vedere nell' infinito così adoperato una, com' oggi direbbero, forma di ripiego, cioè una commoda forma di applicazione generale, secondochè si udiva già una volta usare dai lanzichenecchi parlanti italiano, ovvero come si usava e usasi tuttavia nella così detta lingua franca degli scali di Levante.

«Noi crediamo pertanto che il chiamare sopracitato di Dante sia una vera forma d'infinito quale si usa con valore onnipersonale di soggiuntivo, come per esempio non so che mangiare (nescio quid edam), non sapevano che si fare (nesciebant quid agerent), non so come chiamarlo (nescio quomodo vocem illum), non so dove andare, a chi rivolgermi, non ho che fare con lui, ecc.; e interpretando perciò analogicamente il controverso luogo non si può in quel chiamare non vedere un infinito con senso di soggiuntivo: i quali non sapeano che si chiamassero, chiamando Beatrice, cioè con quale e

quanto nome chiamassero, ossia per servirmi dell'acconcia interpretazione del prof. D' ANCONA, citata dallo stesso CANELLO: « ignoravano quanto dirittamente appropriassero alla fanciulla questo nome significativo, che le davano senza pesarne il valore ». Che Dante usasse por mente al valore etimologico delle parole lo prova la terzina:

O padre suo veramente Felice,
O madre sua veramente Giovanna,
Se interpretata val come si dice.
(Par. XII, (79-81).

«E al valore etimologico di Beatrice, nome proprio, alludeva anche il Petrarca quando diceva nella canzone alla Beata Vergine: Nelle tue sante piaghe, Prego che appaghe il cor,vera Beatrice ». Raccogliemmo a p. 67 quante più notizie potemmo intorno alla leggenda del cuore mangiato nell' età medievale: ma potemmo poi vedere come e per quei tempi e pei successivi, qualche maggior notizia riferisse il GRAESSE nel vol. III, pag. 1120, del suo Lehrbuch einer Literärgesch. Ed a proposito delle credenze superstiziose intorno al mangiare il cuore altrui, sicchè le virtù del mangiato trapassassero nel mangiatore, e ad illustrare la serventese sordelliana, non parrà inutile qui riferire un passo di GAUFREDO MALATERRA (Hist. Sicul. 11, 46) ove è parlato dell'eccidio di Serlo, fatto dai musulmani di Sicilia: Serlone exenterato, Saraceni cor extrahunt. Ut audaciam ejus, quae multa fuerat, conciperent, comedisse dicuntur (Rer. Ital. Script. V, 575).

Alla nota posta a pag. 95 (testo, p. 22, lin. 13) vogliamo aggiungere come il BOCCACCIO nell' Ameto (ed. Moutier p. 41) si ricordasse dei versi di DANTE, scrivendo: Le guance non d'altro colore che latte, sopra il quale novamente vivo sangue caduto sia, lauda senza fine, avvengachè quel colore a lei sospinto per lo caldo nel viso, riposata, partitosi, la rendesse d'essenza d'oriental perla, quale a donna non fuori misura si chiede.

Ai rimatori che parlano non avendo alcun ragionamento in loro di quello che dicono (testo, pag. 37 lin. 1: Annotazioni, p. 105), allude il poeta anche nel Vulg. El. II, 4, dicendo: Revisentes ergo ea, quae dicta sunt, recolimus nos eos qui vulgariter versificantur, plerumque vocasse poetas, quod procul dubio rationabiliter eructare praesumpsimus, quia prorsus poetae sunt, si poesim recte consideremus, quae nihil aliud est quam fictio rethorica, in musicaque posita. Differunt tamen a magnis poetis, hoc est regularibus, quia isti magno sermone et arte regulari poetati sunt: illi vero casu, ut dictum est.

Molta cura ponemmo alla correzione della stampa, ma non però che qualche piccolo errore non ci sia sfuggito. Il lettore facilmente correggerà da per se alcuni versi errati, come a pag. 90: Sopra colei che piange il suo parlare invece di partire; a pag. 95: Quando leggemmo il desiato viso, invece di riso. Anche a pag. 98 nella citazione della Nov. Grass. Legn., anzichè prieda leggasi proda. Un'utile correzione sarebbe stata quella da Lapo in Lapa di Boni a p. 72, nel serventese del Pucci, sebbene il cod. porti così come abbiamo stampato.

Il testo della V. N. anche dopo nuova diligentissima revisione, ci è parso esser riuscito senz' altra menda che uno scrivere invece di scriverne, che d' altra parte non altera punto il senso, alla lin. 20 della pag. 34. Invece, alcuni errori abbiamo scorti nelle note contenenti le varianti, e precisamente nella numerazione delle linee. Senza star qui a correggerli, notiamo che più o meno, in essi incorremmo a pag. 5, 21, 25, 26, 40, 49, 50: ma confidiamo che il lettore vorrà, quando se ne avvegga, perdonarceli, avvertendo che per la composizione definitiva della pagina, più volte fu necessario mutare e rimutare cotesti richiami.

E dopo ciò licenziamo per la stampa l'intero volume, raccomandandolo agli animi gentili e ai cultori della poesia dantesca.

FINE

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