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melle meo, bibi vinum meum cum lacte meo: comedite amici, et bibite, et inebriamini, charissimi. EZECH., XXIII, 33: Ebrietate et dolore repleberis: calice moeroris et tristitiae, calice sororis tuae Samariae. E poi nelle leggende: Vita di S. Antonio. (V. SS. PP. III, 11): Rapito e tutto ebro in orazione. Vita di S. Eufrosina (Id. III, 105): Ebro di amaritudine. Vita di S.a Pelagia (Id. ш, 132): Ebro di dolore.

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UNO SIGNORE DI PAUROSO ASPETTO. Anche il CAVALCANTI (Son. 3.o) descrive Amore: A guisa d'un arcier presto soriano Acconcio sol per ancidere altrui.

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LA DONNA DELLA SALUTE. I FR. interpr. del saluto. E in fatto DANTE più oltre nella V. N., e altrove, scrive la salute nel senso di saluto: anche nel son. Di donne vidi: A chi era degno poi dava salute Con gli occhi suoi quella gentile e piana; e così il GUINICELLI e LOTTO DI SER DATO e altri rimatori del sec. XIII. Se non che qui, per quel che segue, importerebbe un pleonasmo non grazioso: meglio intendere la donna che reca salute, presso a poco come nel II 75 Inf.: O donna di virtù.

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LE FACEA MANGIARE QUELLA COSA CHE IN MANO GLI ARDEVA. Parlando del Serventese di SORDELLO in morte di Ser Blacas, nella quale, come è noto, il poeta distribuisce tra i vigliacchi principi del suo tempo, il cuore del valente barone perchè se ne cibino, il FosCOLO scrive: « Offrire un cuore umano come vivanda delicata, pare che non sia stato sempre un complimento fuor d'uso ». E recati alcuni degli esempj che citeremo più sotto, aggiunge: «Pare per conseguenza che a quei tempi le descrizioni di atrocità di simil genere non svegliassero nello scrittore e nei lettori il disgusto che immancabilmente ecciterebbero ai giorni nostri. SORDELLO in confronto al gusto dei contemporanei per le storie orribili, diede prova di un sentire meno depravato e d'originalità maggiore. La distribuzione delle parti del cuore eccita meno orrore, perchè non viene rappresentata come un fatto, e il motivo dell'invito ironico al banchetto di Blacas (che è il più nobile elogio che il poeta potesse offrire al suo amico) è l'amaro disprezzo meritato dai principi di quei tempi. (Saggi di critica, 1, 291) ».

Ricorderemo di sfuggita come BERTRANDO DI ALAMANNONE, imitando SORDELLO, divida invece il cuore di Blacas fra le donne da lui amate (RAYNOUARD, Choix, IV, 69), e ci basterà anche ridurre soltanto a mente dei nostri lettori la novella della Pineta (Bocc., Decam. V. 8), ove il cuore della donna spietata è dato a mangiare ai cani per vendetta d'amore; e verremo invece e subito, quelle narrazioni antiche che più somigliano alla nostra, in questo appunto che del cuore dell'amatore si ciba l'amata.

E in primo luogo è da rammentare come nel Decamerone (IV, 9) «Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di Messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui et amato da lei, il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra in terra e muore, e col suo amante è seppellita ». Il BOCCACCIO dice di riferire il caso « secondo che narrano i Provenzali »; e le fonti occitaniche a noi note sono le Biografie antiche dei Trovatori (ved. MANNI, Illustraz. al Decamer., 308; MAHN, Die biograph. d. Troubar., 3.; DIEZ, Leben und Werke d. Troub., 77; GALVANI, Novellino Provenzale, 24; MILLOT, Hist. litter. des Troub., 1, 135) e i rifacimenti del NOSTRADAMUS (in CRESCIMBENI, Comment. II, 37). Disputano gli eruditi se più o meno antica della leggenda del trovatore provenzale sia quella francese del Cavalier di Coucy il quale, scoperto che l'amante della moglie, morto in guerra, le ha mandato il proprio cuore, lo fa mangiare alla moglie inconsapevole, che anch'essa, come l'eroina del BOCCACCIO, si lascia poi morir di fame. (ved. FAUCHET, Origin. de la lang. franç., in MANNI, Illustraz., 313; Hist. littér. de la Franc, XVII, 644, nonchè le Roman du Chastelain de Coucy et de la dame du Fayel, ed. Crapelet, 1829, Paris ).

Ma più antica sembra certo l'avventura del cavalier Guiron, narrata così in un frammento del poema di Tristano, come se fosse cantata da Isotta: En sa chambre se set un jor pitus d'amor Coment dan Guirun fu supris — Pur l'amur de la dame ocis

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E fait un lai Qu'il sur tule rien E coment li cuns puis li dona Le cuer Guiron à sa moillier Par engin un jor à mangier E la dolur que la dame out· Quant la mort de sun ami sout (Tristan, ed. Michel, III, 39, 95; WOLF, Ueb. die Lais, 52). Pur del XII secolo è il Lai d'Ignaurès del trovero RENAULT (pubbl. da Monmerqué et Michel, Paris, 1832) nel quale si narra come il cavaliere brettone Ignaurès amasse insieme dodici donne, che finalmente avvedendosi dell'inganno, lo obbligano a scegliere una fra loro. Ma uno dei mariti scopre la tresca, e si accorda cogli altri, e gettano il cavaliere in prigione: però le mogli, ancora innamorate del bel garzone, giurano di non mangiare se ei non sia libero; i mariti lo uccidono e ne spezzano il cuore in dodici parti che presentano alle mogli, come fosse un delizioso manicaretto. Quando le mogli sanno che cosa hanno mangiato, non vogliono al nobil cuore dell' amatore sovrapporre altro cibo, e si lasciano morire tutte d'inedia: ( ved. LE GRAND D' AUSSY, Fabliaux IV, 162; Hist. littérair. de la France, XVIII, 776; SAINT-MARG GIRARDIN, Tabl. de la litterat. franç., 146.). Per altre versioni della stessa leggenda in altre antiche letterature d'Europa, vedi ciò che ne dice il VON DER HAGEN (Gesammtabent., I, CXVI) per illustrazione al poema su quest' argomento, di CORRADO DI VÜRZBURG: e aggiungivi la leggenda del cavaliere Brennberger riferita nelle Deutsche Sagen dei fratelli GRIMM (vol. II, p. 252 della traduz. francese ).

In Italiano, innanzi al Decamerone, abbiamo una narrazione del Novellino (testo Borghini, n.o 62), che è un evidente reminiscenza dell' Ignaurės, trovandosi anche qui più donne alle quali è dato da mangiare il cuore dell' amante; salvo che, invece di lasciarsi morire, si rifugiano nel chiostro, e si danno a santa vita.

Il cuore mangiato era dunque episodio di racconti cavallereschi comunemente conosciuti nell'età di DANTE, ed era tanto frequentemente adoperato da non eccitare la repugnanza che muove in altri tempi e con altri costumi. Ma come forma comune, come immagine poetica assai nota delle erotiche leggende, il cuor mangiato era anche suscettivo di significazione allegorica: e questa appunto gli fu data da DANTE nella presente visione. Nella quale egli ha voluto significare figuratamente come l'anima sua fosse disposata a quella di Beatrice, come il cuor suo passasse dal proprio petto in quello di Beatrice, sebbene non con pieno consentimento di questa, formando di due cuori un sol cuore (o, come dice CINO: insieme due coraggi comprendendo): come, infine, l'amante si trasformasse nell'amata, pel pieno possesso da lei acquistato degli affetti onde la fonte è nel cuore. Le frasi di dare il cuore, possedere il cuore, oltrechè sono modi di dire e non immagini, non esprimevano certamente tanto quanto l'ALIGHIERI è riuscito a esprimere con quel simbolico pasto. Certo non egualmente potente si mostra, ad esempio, FRANCESCO DA BARBERINO Ove parlando della donna sua dice: Io per me sono un suo servo fedele Ch'ella non isdegnò colle sue mani D'aprir lo petto e portarsene il core, Ed in suo loco lasciò un odore Da quelle man che distese nel fianco Che tiene in vita le membra, rimase Ad ubbidienza di lei che le chiuse. (Reggim. delle donne, part. IV). Il BOCCACCIO poi si è evidentemente ricordato di questa visione dantesca nel sogno del re di Marmorina raccontato sul principio del secondo libro del Filocopo, nel quale è adombrato il destino dei due amanti Fiorio e Biancofiore: « A lui pareva essere in su un alto monte, e quivi avere presa una cerbia bella e bianchissima, la quale a lui molto piaceva e molto gli parea avere cara; la quale tenendo nelle sue braccia, gli parea che del suo corpo gli uscisse un lioncello presto, e visto il quale, egli insieme con quella cerbia senza niuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma stando alquanto, vedea scendere giù dal cielo uno spirito di graziosa luce risplendiente, il quale apriva colle proprie mani il lioncello nel petto, e quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E poi gli parea che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante, e fatto questo si partiva. (pag. 79, ed. Moutier )».

Chiuderemo col dire come la leggenda del cuore dato in pasto, resta tuttavia in Italia in un frammento di poesia popolare riferito dal Prof. NANNARELLI (Studio comparativo sui canti popol. di Arlena, Roma, 1871), nel quale si racconta come una giovinetta s'innamorasse di un servo del padre, che, scoperto il segreto, uccide colui e ne manda il cuore alla figlia: 0 Fabia bella, accetta sta pietanza - È il core di Zerbon, la tua speranza. Patre crudele, patre sciagurato — Un amante

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ch'io avea me l'hai ammazzato. Il frammento veramente non dice che Fabia si cibasse del cuore; ma dal chiamarlo pietanza si potrebbe arguire che tale fosse la malvagia intenzione paterna.

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L'ARTE DEL DIRE PAROLE PER RIMA. Più innanzi : Dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino secondo alcuna proporzione. Nè DANTE chiama poeti se non quelli che composero in latino. Dir per rima, dicitori in rima o, semplicemente, dicitori sono nella V. N. e in altri scritti di quel tempo, le denominazioni della poesia e dei poeti nuovi.

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FEDELI D'AMORE. Fedeli, interpreta il FRATICELLI, servitori, soggetti, e così riteniamo anche noi contro il ROSSETTI e suoi seguaci (v. DELÉCLUZE, D. A. ou le poés. amour. 217 e seg.) Che questo sia il significato del vocabolo, si vede anche dall' interpretare ch'ei fa la parola amanti (Piangete, amanti) con la frase: i fedeli d'amore (sollecito i fedeli d'amore a piangere). E già più sopra aveva detto che col Sonetto: O voi che per la via d'amor passate, intende chiamare i fedeli d'amore. Andando più innanzi troviamo: Amore, aiuta il tuo fedele. Del resto, concepire l'Amore come un potente signore, del quale fossero vassalli, uomini ligi, in fede, fedeli, gli amatori sottoposti all'autorità sua, era cosa conforme alle idee erotico-cavalleresche dei tempi, e alla maniera propria della poesia provenzale: e da quelle e da questa Dante non si discosta in queste prime rime della V. N.

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PREGANDOLI CHE GIUDICASSERO LA MIA VISIONE. Un altro esempio di visione mandata per sonetto, per giudicarla e decifrarla, ai compagni dell'arte di dire in rima, lo troviamo in DANTE DA MAIANO. Il quale interrogò i poeti del tempo col Sonetto: Provvedi, saggio, ad esta visione E per mercè ne trai vera sentenza. Le risposte di CHIARO DAVANZATI, di GUIDO ORLANDI, di SALVINO DONI, di Ricco DA VARLUNGO, di SER CIONE BAGLIONE e di DANTE ALIGHIERI, vedile raccolte nel Libro XI delle Rime antiche dei Giunti e nel DELECLUZE, Poés. amoureus. p. 227.

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A CIASCUN ALMA ec. Cfr. il Sonetto e la visione che vi si contiene con quella di CINO nel seguente Sonetto (ediz. Ciampi, p. 122, e 256):

Vinta e lassa era già l'anima mia

El corpo in sospirar et in trar guai,
Tanto che nel dolor m'addormentai,

E nel dormir piangeva tuttavia.

Per lo fiso membrar, che fatto avia,

Poi ch'ebber pianto gli occhi miei assai,
In una nuova vision entrai,

Ch' Amor visibil veder mi paria,
Che mi prendeva, e mi menava in loco
Ov'era la gentil mia donna sola;
Davanti a me parea che gisse un foco,
Dal qual parea che uscisse una parola
Che mi dicea: Deh, mercede un poco!
Chi ciò mi spon, con l'ale d'Amor vola.

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A QUESTO SONETTO FU RISPOSTO DA MOLTI. Il tempo ci ha conservato soltanto le risposte di GUIDO e di CINO, e non parrà superfluo che qui le riferiamo, omettendo quella di DANTE DA MAIANO, colla quale non vogliamo insozzare le pagine di questo libro gentile.

Sonetto di CINO DA PISTOIA.

Naturalmente chere ogn' amadore

Di suo cuor la sua donna far saccente,
E questo, per la visïon presente,
Intese di mostrare a te Amore,
In ciò che dello tuo ardente core
Pasceva la tua donna umilemente,
Che lungamente stata era dormente,
Involta in drappo, d'ogni pena fore.
Allegro si mostrava Amor, venendo

A te per darti ciò che 'l cor chiedea,
Insieme due coraggi comprendendo;

E l'amorosa pena conoscendo

Che nella donna conceputo avea,
Per pietà di lei pianse partendo.
Sonetto di GUIDO CAVALCANTI.
Vedesti, al mio parere, ogni valore

E tutto gioco, e quanto bene uom sente,
Se fusti in pruova del Signor valente
Che signoreggia il mondo dell' onore;
Poi vive in parte dove noia muore,
E tien ragion nella piatosa mente,
Sì va soave ne' sonni alla gente
Che i cor ne porta sanza far dolore.
Di voi lo cor se ne portò, veggendo

Che vostra donna la morte chiedea:
Nudrilla d'esto cor, di ciò temendo.
Quando t'apparve che sen gìa dogliendo
Fu dolce sonno ch'allor si compiea,

Chè il suo contrario lo venia vincendo.

DANTE dice che il verace giudicio del detto sogno non fu veduto allora per alcuno, ma ora è manifesto alli più semplici: forse perchè niuno aveva ben inteso che significasse, che cosa annunziasse al suo cuore (per servirci qui di una frase adoperata dal poeta per altro sogno indovino) quel ricoglier che faceva Amore la donna nelle braccia, e girsene con lei al cielo.

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OND'IO DIVENNI... DI SI FRALE E DEBOLE CONDIZIONE CHE A MOLTI AMICI PESAVA DELLA MIA VISTA. Cfr. il CAVALCANTI (Ball. IV): Novella doglia m'è nel cor venuta La qual mi fa dolere e pianger forte; E spesse volte avvien che mi saluta Tanto d'appresso l'angosciosa Morte, Che fa in quel punto le persone accorte, Che dicon in fra lor: questi ha dolore; E già, secondo che ne appar di fore, Dovrebbe dentro aver novi martiri.

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PIENI D'INVIDIA. Come? se non conoscevano l'oggetto della passione di DANTE? D'invidia per la frale e debole condizione di lui, non parrebbe. Del resto invidia usasi anche per odio e per gelosia amorosa. Il GIULIANI afferma che qui prende il senso di malignità, onde procedeva il malvagio addomandare che costoro faceano. Io sarei tentato di dichiarar questa invidia coi versi 11 e 12 del son. rinterzato che leggesi a pag. 6 (§. VII).

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PORTAVA NEL VISO TANTE DELLE SUE INSEGNE. Qui indizi, segnali, come in simil caso piacque al PETRARCA: Perch' al viso d'amor portavo insegna, Mosse una pellegrina il mio cor vano; e (nella canz. Amor, se vuoi): Ritogli a morte quel ch'ella n' ha tolto E ripon le tue insegne nel bel volto.

Pag. 5, lin. 5.

DISTRUTTO. Cfr. CAVALCANTI (Canz. II): Gli spiriti fuggiti del mio core, Che pel soverchio del suo gran dolore, Eran distrutti.

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CHE IL MIO SEGRETO NON ERA COMUNICATO, LO GIORNO, AD ALTRUI. Qui lo non istà semplicemente a significare durata di tempo, come i in quel luogo dell' Introduz. al Decam.: esser nocivo u dormire il giorno e nell' uso comune, ma fa propriamente da aggettivo determinante, come notò il TRIVULZIO: illo die. Così nella canz. Io son costretto ec. fatta probabilmente dal POLIZIANO per Giuliano de' Medici: Ch'io mi credetti, il giorno, Fosse ogni dea di ciel discesa in terra. Non ne so altri esempi.

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FECI PER LEI CERTE COSETTE PER RIMA. Di queste cosette fatte per la donna dello schermo deve essere, per es., il son. Di donne vidi, il cui v. 4, Seco menando Amor dal destro lato, e il 14, Dunque beata chi l'è prossimana, io credo accennino a Beatrice, che sotto forma vera di Amore è introdotta anche nel son. Piangete, amanti. Ma parmi difficile riferire a questo o ad altri schermi di D. la canz.: E' m' incresce di me, che certo è di lui, e l'altra: Morte poi ch'io non truovo, su la cui autenticità ho del resto qualche dubbio.

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UNA EPISTOLA SOTTO FORMA DI SERVENTESE. Gran peccato è che niun vestigio rimanga di questa serventese in lode delle sessanta belle fiorentine. Anche questo dei componimenti laudativi di più donne insieme, era uso provenzale: basti ricordare il Carroccio di RAMBALDO DI VAQUEIRAS (RAYNOUARD, III, 260; MAHN, I, 368). Anche il SACCHETTI sotto forma di Battaglia delle vecchie e delle giovani (Saggio di Rime di diversi buoni autori, Firenze, Ronchi, 1825 pagg. 19-114) non altro fa che celebrare la virtù e la bellezza di alcune donne del tempo suo. Un frammento in 3." rima attribuito al BOCCACCIO, nel quale molte fiorentine si lodano, fu riferito dal MANNI, Storia del Decamerone (p. 143) e in servigio di questo luogo di DANTE citato dal WITTE nei suoi commenti. Noi crediamo di far cosa grata al lettore stampando qui per la prima volta un Serventese di ANTONIO PUCCI, che possiamo supporre calcato su quello smarrito di DANTE, chi sappia quanto cotesto poeta popolano fu studioso e imitatore dell' ALIGHIERI. Il Serventese è tolto da quel codice Kirkupiano donde traemmo già altre poesie inedite del Pucci, e lo stampiamo quale trovasi nel ms.

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