Sayfadaki görseller
PDF
ePub

treggiare. Ciò esprime il gran trapasso di un alto carattere da un sistema d'idee in un altro, il penoso, ma irremovibile proposito di un sacrificio, una promessa del genio a Beatrice, a sè stesso, a tutti i mortali. Ma questo Genio avea pur viscere umane: e perciò, partitosi dall' amico, e ritornato nella camera delle lagrime, piangendo e vergognandosi fra sè medesimo, dicea: se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietà le ne verrebbe ». ORLANDINI, Sulla V. N., in Dante e il suo secolo, p. 397.

IO HO TENUTI LI PIEDI. Assomiglia a quel di LUCREZ. VI 1155: Languebat corpus leti iam limine in ipso; e di CATUL. LXVIII, 4: Sublevem et a mortis limine restituam; e di VIRG. Culex 222: te Restitui superis leti jam limine ab ipso.

Pag. 15, lin. 23

IO SO BENE CH'ELLA NON È SAPUTA. II FRATICELLI intende che Beatrice non è consapevole, non ha cognizione di ciò. Meglio il GIULIANI: «So bene che la cagione del mio trasfiguramento non è conosciuta ».

Pag. 15, lin. 29.

PIETÀ NE GIUGNEREBBE ALTRUI. II CAVALCANTI: Qualunque è quel che più allegrezza sente, S'ei vedesse il mio spirito gir via, Si grande è la pielà che piangeria (Son. XXIV ).

Pag. 15, lin. 30.

NELLA SUA AUDIENZA. L'astratto dell'azione di udire: come in CINO: La grave audienza degli orecchi miei M' ave si piena di dolor la mente.

Pag. 16, lin. 1.

MIA VISTA GABBATE. Vi fate beffe della mia cera smorta e di sbalordito. CINO, in simil caso: Non gabbereste la vista e 'l colore Ch'io cangio allor quando vi son presente.

Pag. 16, lin. 3.

FIGURA NOVA. Diversa da quel che era prima: o più tosto, strana, stravagante, come in quel del BOCCACCIO, nov. 85: Calandrino cominciò.......... a fare i più nuovi atti del mondo; o forse anche, figura d'uom semplice, inesperto, soro, o, come i nostri antichi dicevano, nuovo pesce.

Pag. 16, lin. 6.

L'USATA PROVA. Prova, dal provarsi in arme dei cavalieri, qui vale resistenza, come Inf. VIII 122: Non sbigottir, ch' i'vincerò la pruova, Qual ch' alla difension dentro s'aggiri; e XXVII 43: La terra che fe' già la lunga pruova E di Franceschi sanguinoso mucchio.

Pag. 16, lin. 9.

CH'EL FIER TRA MIEI SPIRTI PAUROSI E QUALE ANCIDE E QUAL CACCIA DI FUORA. Questi versi nel suono rammentano quelli del vento Impetuoso per avversi ardori Che fier la selva, e senza alcun rattento, Gli alberi abbatte e schianta e porta fuori (Inf. IX, 67-70). Prima del nostro, il GUINICELLI:

tu m'assali, Amore, e mi combatti: Diritto al tuo riscontro in piè non duro, Chè 'mmantinente in terra mi dibatti Come lo tuono che rompe lo muro E il vento gli arbor per li forti tratti. Il CAVALCANTI (Canz. II): Amore Ruppe tutti i miei spiriti a fuggire.

*

Pag. 16, lin. 10.

CACCIA DI FUORA. Il CAVALCANTI (Son. X): Alto e gentile e di tanto valore Che fa le sue vertù tutte fuggire.

Pag. 16, lin. 17.

POSCIA CHE TU PERVIENI ECC. Del turbamento prodotto dalla vista dell' amata, così

il CAVALCANTI: Cosa m' avvien quand' io le son presente Ch' io non la posso allo 'ntelletto dire (Ball. V).

Pag. 16, lin. 22.

UN DESIDERIO .. CHE UCCIDE E DISTRUGGE NELLA MIA MEMORIA CIÒ CHE CONTRA LUI SI POTESSE LEVARE. II CAVALC. (Ball. VI): Vien che m'uccide un si gentil pensiero Che par che dica ch' io mai non la veggia.

Pag. 17, lin. 6.

[ocr errors]

CIÒ CHE M'INCONTRA. Io interpungerei così: Ciò che m'incontra, nella mente muore, e spiegherei: «< Ogni pensiero che si opponga al desiderio di vedervi, muore nella mia memoria quando ec.» Mente per memoria, come Inf. II. 8: O mente che scrivesti ciò ch'io vidi Le stampe leggono: Ciò che mi incontra nella mente, muore; e il GIULIANI interpr.: « Ogni opposto pensiero che sorga nella memoria, resta distrutto dal mio desiderio ec... » Ma, o allora lo spiegare DANTE CON DANTE ? DANTE nella prosa anteced. al Son. ha detto: si tosto com' io imagino la sua mirabil bellezza, si tosto mi giugne un desiderio di vederla, lo quale è di tanta virtude che uccide e distrugge nella mia memoria ciò che contra lui si potesse levare.

Pag. 17, lin. 10.

Lo viso ec. Cioè: il viso si cuopre di pallidezza, ch'è il color conveniente alla passione che porto dentro il cuore. HORAT. carm. III, X, 14: Et tinctus viola pallor amantium. PETR. son. 155.... un pallor di viola e d'amor tinto. DANTE stesso (pag. 48 §. XXXVII): Color d'amore e di pietà sembianti; e Purg. XVII 45... s'io vo' credere a' sembianti Che soglion esser testimon del core.

Pag. 17, lin. 11.

DOVUNQUE S'APPOJA. LAPO GIANNI: Colei. . . Cui gentilezza ed ogni ben s'appoja (Poet. primo secol. II, p. 118). Ed è voce viva nel dialetto siciliano, donde forse la trassero i poeti fiorentini, per tradizione dei loro antecessori dell'isola: Culonna chi s'appoja l'arma mia: LIZIO-BRUNO, Canti delle Isole Eolie p. 76.

Pag. 17, lin. 12.

E PER L'EBRIETÀ. Cioè: per l'eccesso di quel tremore che rassembra allo stato dell'ebrietà, che mi fa parere ebro.

Pag. 17, lin. 13.

LE PIETRE PAR CHE GRIDIN. Le pietre, ne' rispetti del POLIZIANO, sono più gentili: I' ho mossi a pietà già questi sassi Ne' quali or poso il mio corpo scontento.

Pag. 17, lin. 14.

PECCATO FACE CHI ALLOR MI VIDE. I FRATICELLI vuol riferirlo a Beatrice che in quel tempo non mostravasi sensibile all'affetto del poeta. Ma ciò è contrario all'esposizione del poeta stesso, dove questo verso è chiaramente riferito a persona indeterminata, ed è contrario al contesto del son. ove, al v. 12, di Beatrice parlassi in seconda persona. Mi vide cioè: mi vede: conforme al lat. videt.

Pag. 17, lin. 17.

PER LA PIÈTA CHE IL VOSTRO GABBO ANCIDE. Una volta piacque la var. del cod. Antaldi nell' ediz. di Pesaro: Per la pietà che il vostro gabbo AVVEDE; la quale dava anche modo di toglier via lo antiquato vide per vede del v. 9. Anche il FRATICELLI leggeva così nella sua 1.a ediz., e interpretava: «Per l'angoscia che s'accorge del vostro gabbo o scherno». Era contrario alla esposizione di DANTE. Meglio spiegò il TORRI: «Il sentimento di compassione rimane estinto (per metafora ucciso) dal vostro beffardo contegno: il qual sentimento di compassione sarebbe mosso, destato, in altri dall' aspetto affannoso che mostra la mia interna voglia di morire; se non che ognuno v' imita non solo in non commiserarmi, ma anzi nel prendere a dileggio il mio tormento: » la quale interpretazione fu poi accolta e dal FRATICELLI nelle posteriori edd., e dal GIULIANI.

Pag. 17, lin. 18.

VISTA MORTA. Il CAVALCANTI (Son. XIX) definisce il pallore mortale prodotto da angoscie amorose: Quello pauroso spirito d'amore Lo qual suol apparer, quand' uom si muore. E più sotto: il morto colore.

Pag. 18, lin. 7.

BATTAGLIA D'AMORE. GUIDO GUINICELLI: Ed io dallo suo amor sono assalito Con si fiera battaglia di sospiri Che contro a lei di gir non saria arditó. GUIDO CAVALCANTI (Son. XXIV ): L'anima mia vilmente è sbigottila Della battaglia ch'ella sente al core. E anche (ibid.): Per gli occhi venne la battaglia pria. E Son. IX: La nova donna a cui mercede io chieggio Questa battaglia di dolor mantiene. E Canz. II.: La mia virtù si parti sconsolata, Poichè lasciò lo core Alla battaglia ove Madonna è stata.

Pag. 18, lin. 24.

UNO TREMUOTO. La volg. UN TERREMOTO. Forse qui tremoto, è in vece di tremilo, formato al medesimo modo che tremolare, tremore: non bene, ma amo meglio di credere che DANTE formasse di testa questo nuovo vocabolo di quello ch' e' pensasse alla truffaldinesca metafora del terremoto.

Pag. 19, lin. 2.

CREDENDOMI TACERE E NON DIR PIÙ. Se DANTE non avesse fatto intendere sul bel principio della V. N. di voler qui raccogliere soltanto alcune delle poesie scritte per Beatrice, probabilmente innanzi a questo luogo donde comincia materia nova e più nobile che la passata, avrebber trovato posto alcuni componimenti che leggonsi nel suo Canzoniere. Diremo quali sono le rime che spettano a questo primo periodo della vita, dell'amore e dell'arte di DANTE.

In primo luogo il bel sonetto: Guido, vorrei che tu e Lapo ed io, che ha tutto l'ardore e il sereno entusiasmo della gioventù. Esso fu certo scritto contemporaneamente o poco dopo alla Serventese in lode delle sessanta belle fiorentine: dappoichè l' amata di Lapo vi è designata soltanto col numero che le spetta in quella. Vi si cantano, con nota soave e melanconica, i piaceri dell' amore più remoti dalla

materia e dal senso, e quali può trovarli una vivida immaginazione scaldata da un affetto che sale per propria forza al cielo limpido e quieto delle ilee. DANTE vorrebbe che Amore lo ponesse insieme con i suoi migliori amici Guido e Lapo, e colle donne loro e la sua propria, in un vascello che scorresse il mare, non obbedendo all' impeto cieco dei venti, ma al volere concorde degli amanti: i quali, ragionando insieme di amore, menerebber così una vita piena delle misteriose voluttà che dona lo stare in seno alla vasta natura. Questo bellissimo sonetto deve esser nato in uno di quei momenti di amorosa ebbrezza, nei quali vorrebbesi fuggire il mondo, ma in compagnia delle persone più dilette, e la somma felicità sembra consistere nella non mutabile persistenza di una condizione di cose sognata per ottima fra tutte, e l'anima dolcemente si annega in placida quiete ed in estatico assorbimento. A questo sonetto risponde, o almeno certo corrisponde, un componimento di Lapo (Poet. prim. sec. II, 104 ), nel quale egli pure ci dice qual sia secondo lui la massima felicità, quale il sogno prediletto della sua giovanile fantasia. Ei non vorrebbe soltanto possedere la donna amata, ma avere la bellezza di Assalonne e la forza di Sansone. Vorrebbe che Arno corresse balsamo, le mura di Firenze fossero inargentate, le vie lastricate di cristallo, in pace tutto il mondo, piena sicurezza per ogni contrada, l'aria temperata egualmente di estate e di verno, e migliaja di donne e di donzelle adorne cantassero intorno a lui sera e mattina, entro giardini pieni di frutta e di augelli, rinfrescati da acque correnti e risuonanti della musica di chitarre e violini; e la vita durasse sempre giovane, sempre sana e lieta e senza cure, finchè a lui si schiudessero le porte del cielo. Questa poesia di Lapo Gianni, a torto dimenticata, ma meritevolissima di considerazione per la nota che vi predomina, di sensualità e di mollezza orientale, è come il sogno di un anima tocca la prima volta d'amore, di una fantasia non ancora turbata dalle amarezze della vita: è l'anelito di un adolescente e il sospiro di un artista. Tutto sorride intorno al poeta, e tutto egli riveste di quella gioia serena che entro gli abbonda, e che comunica agli altri uomini e alle cose, come un prodigo che getta e sparnazza i suoi tesori. Nei versi di Lapo si sente un anima assetata di gioie misteriose, di indefiniti e infiniti piaceri; e nel mentre ci rivelano l'anima del poeta nei suoi più intimi recessi, si direbbero evidentemente ispirati a quella vita di spassi popolareschi, di canti armoniosi, di allegre danze, in che compiacevasi la gioventù coetanea dell' ALIGHIERI, finchè la patria la chiamasse ai fieri ludi di Montaperti e di Campaldino.

La seconda poesia di questo periodo è il sonetto: Di donne io vidi una gentile schiera Quest' Ognissanti prossimo passato. Allude essa a uno di quei ritrovi festivi nei quali a DANTE spesso appariva l'amata, circondata dalle sue compagne. Altre volte Beatrice gli era apparsa alle feste del Maggio (pag. 2. §. 11), o per la via (pag. 3 e 10. §§. III, X), o in chiesa (pag. 5. §. v): qui si racconta un nuovo incontro, ma senza dichiararne il luogo: probabilmente però, ad una festa religiosa, o ad un ritrovo solazzevole per occasione di sacra solennità. E il sonetto appartiene evidentemente a questo primo tempo nel quale l'amatore cerca sopratutto il saluto, e il poeta ne fa argomento ai suoi versi. In Beatrice ancora il poeta non ha scorto tutta la virtù che il cielo vi ha infusa: ed essa gli appare sopratutto nella sua bellezza esteriore, non come personificazione di ciò che avvi di più perfetto, ma come Angiolo figurato.

In terzo luogo viene il sonetto: O dolci rime che parlando andate. In esso, rivolgendosi alle sue rime, alle rime dettate per colei che oscura tutte le altre donne, le avverte di repudiare e respingere dal loro consorzio un componimento poetico, suo proprio o d'altri, che non contiene nella sua sentenzia Cosa che amica sia di veritate. Ma se per le parole di lui foste incoraggiate a movere verso la donna vostra, ite per raccomandare un che si duole Dicendo: ov'è il disio degli occhi miei? Probabilmente trattasi di un componimento nel quale lo sdegno dell' amante non corrisposto aveva traboccato la misura, o la natura sensuale dell' uomo aveva oltrepassato il segno.

Fors'anco la Ballatina: In abito di saggia messaggiera appartiene a questo tempo. In essa il poeta manda a dire alla donna sua, per mezzo della Ballata, come gli occhi che portavano corona di disiri, Per riguardar sua angelica figura, Ora, perche non posson veder lei, Li strugge morte con tanta paura Ch' hanno fatto ghirlanda di martiri. Il GIULIANI appoggiandosi alla frase: digli quanto mia vita è leggera la vorrebbe appropriare al tempo al quale spetta anche la canzone: Donna pietosa e di novella etade: a noi parrebbe piuttosto spettare quel tempo in che DANTE divenne di si frale e debole condizione che a molti amici pesava della sua vista (pag. 4. §. IV): o a quello in che, nega

tagli la beatitudine del saluto, lo giunse tanto dolore, che partitosi dalle genti, in solinga parte andò a bagnare la terra d'amarissime lagrime (pag. 10. §. XII).

La Canzone: La dispietata mente che pur mira è, per concorde sentenza del FRATICELLI e del GIULIANI, assegnata agli anni giovanili del poeta, quando il saluto di Beatrice fu uno dei maggiori desideri amorosi dell' ALIGHIERI. Dai versi: 'l disio amoroso che mi tira Verso 'l dolce paese ch' ho lasciato, si desume che la Canzone fosse scritta fuor di Firenze, probabilmente in quell'assenza dalla città nativa onde è parlato a pag. 8 (§. IX), trovandosi verso quelle parti ov'era la gentildonna ch' era stata sua difesa, avvegnaché non tanto lontano fosse lo termine del suo andare quanto ella era. Questa Canzone forse non per altro fu da DANTE esclusa dalla V. N. se non perchè in essa si veggono le tracce di un affetto sensuale, trattenuto appena nei limiti dell' omaggio cavalleresco, e appena velato dal consueto frasario dell' uso poetico. Egli infatti dichiara di non poter più attendere: che è al fine di sua possanza, ed ella lo sa: che l'uomo può sostenere tutti i carichi insino al peso che è mortale: che essa è quella che più ama, che gli può far maggior dono, e in che più riposa la sua speranza. Ma a chi è diretta la Canzone? I versi: E quelle cose che a voi onor sono Dimando e voglio: ogn' altra m'è noiosa: Dar mi potete ciò ch' ALTRI non osa, e specialmente quell' ALTRI, ci fanno nascere il dubbio che sia rivolta alla gentildonna che fu primo schermo del l'amore di Dante. Il che non dovrebbe parer strano, perchè, a confessione del poeta, sappiamo che per costei aveva già fatto certe cosette per rima (pag. 5. §. v). E se ad alcuno paresse che, ad onta del linguaggio dubbioso, il poeta parli troppo chiaro, risponderemmo che questo sarebbe appunto un segno che la Canzone è rivolta alla gentildonna che servivagli di schermo, poichè appunto egli voleva far credente altrui della veracità di quell' affetto: në in siffatto caso il poeta si sarebbe comportato più prudentemente di quello che fece dappoi col secondo schermo, quando in poco tempo la fece sua difesa tanto che troppa gente ne ragionawa oltre li termini della cortesia: sicchè per questa soperchievole voce, Beatrice gli negò il suo dolcissimo salutare (pag. 9. §. x).

Ma a Beatrice senza fallo è rivolta la Canzone: E' m' incresce di me si duramente. E che appartenga a questo primo periodo dell'amore di DANTE, si desume dal confronto di più luoghi. Infatti, la strofa V: Lo giorno che costei nel mondo venne, Secondo che si trova Nel libro della mente che vien meno La mia persona parvola sostenne Una passion nuova Tal ch'io rimasi di paura pieno: Ch'a tutte mie virtù fu posto un freno Subitamente si, ch' io caddi in terra Per una voce che nel cuor pércosse: E se 'l libro non erra, Lo spirito maggior tremò si forte Che parve ben che morte Per lui in questo mondo giunta fosse: Ora ne incresce a quei che questo mosse, corrisponde al racconto della pag. 2 (§. 11), sebbene poeticamente riferisca al nascimento ciò che avvenne soltanto alla prima apparizione di Beatrice. E di questa è così detto seguitando: Quando m' apparve poi la gran bellate Che si mi fa dolere, Donne gentili a cui io ho parlato, Quella virtù che ha più nobilitate, Mirando nel piacere, S' accorse ben che 'l suo male era nato: E conobbe 'l disio ch' era criato Per lo mirare intento ch' ella fece; Sicchè piangendo disse all' altre poi: Qui giugnerà in vece D' una ch' io vidi, la bella figura Che già mi fe' paura, E sarà donna sopra tutte voi Tosto che fia piacer degli occhi suoi, con evidente riferimento a quel che si legge a pag. 2 (§. 11) della V. N.; con cui si accordano anche questi altri versi della str. IV: L' imagine di questa donna siede Su nella mente ancora Ove la pose Amor ch'era sua guida, E non le pesa del mal ch'ella vede, Anzi è vie più bella ora Che mai, e vie più lieta par che rida, E alza gli occhi micidiali e grida Sopra colei che piange il suo parlare: Vatten, misera, fuor, vattene omai.

Finalmente, a questo periodo apparterrebbe la Ballata: Io son chiamata nuova ballatetta, se veramente fosse del nostro poeta, e l' altra vaghissima Ballata, che non sapremmo col GIULIANI togliere all' Alighieri: Per una ghirlandetta, la quale ci sembra composta da DANTE in una di quelle occasioni nelle quali vide Beatrice insieme con altre donne . . dilettandosi l' una nella compagnia dell' altra (pag. 19. §. XVIII). Anche il sonetto: Io sono stato con amore insieme, del quale fa menzione CECCO D'ASCOLI e che risponde a quello di CINO.: Dante, quando per caso si abbandona, conviene a questo periodo, e potrebbe trovar suo luogo nei paragrafi che contengono i pensamenti d'amore. (pag. 13, 16. §§. XIII, XV).

« ÖncekiDevam »