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Quanto poi alle mutazioni, PAR. X, 3. e XXXIII, 123., esamiuale tu, cortese leggitor, per te stesso, e vedi se pare a te, come pare a me, che procuri Monsignor nostro di addensar tenebre anzichè diradarle.

PAR. X, 119. Avete qui ragione, Monsignore: tempi dee leggersi, e non templi. Troppo chiare sono le parole che voi ( B. F. pag. 9) riferite di Paolo Orosio, colle quali ne manifesta scopo essere della sua Storia lo smentire la calunniosa persuasione de' Gentili, che per la fede di Gesù Cristo fossero quei tempi più disgraziati degli antecedenti. Chiaro altresì dimostrate che il provvedersi Agostino del latino di Orosio, altro non importi che lo avere Agostino impiegata seco la penna d'Orosio in difesa della Cristianità.

Cessate solamente, Monsiguor mio, di perciò inveire con. tro della milanese nidobeatina edizione, Dandole biasmo a torto e mala voce. Degnatevi di vederla, chè troverete anzi leggere essa ottimamente tempi, e non templi. E mia è stata la balordaggine; chè dopo di avere nello scartafaccio mio segnata cotal varia lezione, ed anche un ricordo di congiungere ad essa la chiosa del vostro primo Aneddoto, quando poi fu d'uopo valermene, tutto fatalmente sfuggimmi di vista.

PAR. XVIII, 131. Leggendo io colla nidobeatina e colla volgata, Pensa che Piero e Paolo, che morìro, mi rimprovera Monsignore, e vuole si legga, come in un antico codice, Pensa che Pietro e Polo, che ec., sì per la conformità all'ultimo verso di questo medesimo canto, Ch'io non conosco il Pescator, nè Polo, e si perchè Paolo è, dice Monsignore, nome presso Dante trisillabo; e ne reca in prova il verso 32, c. II, dell' INF. Io non Enea, io non Paolo sono B. F. pag. 103.

R. Come la nidobeatina e la volgata leggono anche antichi mss. ( quelli, per cagion d'esempio, della Casanatense, segnati H. III, 4. H. III 5); nè che dica Dante Polo in rima, ciò prova che debba dirlo anche per entro il verso; siccome che faccia egli trisillabo il nome Paolo, INF. II. 32, non prova che nol potesse qui fare bisillabo. Pietro, esempigrazia, dice Dante perentro il vero 51, c. XIII del PURG., ove poteva dir Pietro, come dicelo in rima, INF. II, 24; e, riguardo alla quantità, tra gli altri esempj molti, la voce fiate ora la fa trisillaba, come in quel verso, La qual molte fiate l'uomo ingombra, INF. II, 46; ed ora bisillaba, come in quell' altro verso, pria nel petlo tre fiate mi diedi, PURG. IX, 111. Troppo dure

Ma

ritorte cinger vorrebbe ad un Poeta Monsignor nostro con coteste sue uniformità .

PAR. XXVI, 134. Avendo trovato che il Daniello legge questo verso, El s'appellava in terra il sommo bene, e parendomi incontrastabili le ragioni, su delle quali fonda esso cotale lezione, l'autorità cioè di antichi testi che dice di aver veduti, e quella, che oguuno può vedere, di Dante medesimo, che nella sua Volgare Eloquenza dice la prima voce di Adamo essere stata quella ch'è Dio, cioè El: aggiungendo io a queste l'autorità di s. Isidoro, che nelle sue Etimologie, dietro la scorta di s. Girolamo, scrive: primum apud Hebraeos Dei nomen El dicitur, secundum nomen Eloi; passai quindi a determinarmi di leggere col Daniello, e ad abbandonare tanto la volgata lezione, Un s'appellava in terra il sommo bene, quanto la nidobeatina, I s'appellava ec.

Monsignor Canonico però, aderendo più ai codici che colla nideobeatina, quantunque spregiata, convengono e leggono, I s'appellava in terra il sommo bene, così e non altrimenti vuole si scriva: poichè Adamo (eccone la sua ragione), introdotto qui dal Poeta, racconta che la lingua ch'egli parlò, intieramente perì alcun tempo innanzi che si fabbricasse Babele; e ne reca in prova ch'egli in vita chiamò Iddio con un nome, che dop ola sua morte andò in disuso e dimenti canza, essendosene trovato ed usato un altro . S'inganna dunque il P. Lombardi, che legge col Daniello El s'appellava, giacchè anche in oggi El è uno dei nomi di Dio B. F. pag. 18.

R. Non dovendo noi qui cercare qual fosse realmente il primo nome d'Iddio, ma bensì qual Dante credesselo; e dicendoci egli stesso, nella sua Volgare Eloquenza, che la prima voc: d'Adamo fu quella ch'è Dio, cioè El, che possiam noi pretendere d'avvantaggio? Poi, anche di superfluo cercando, perchè vorrem noi rendere Dante con cotesta I discorde, non solamente da se medesimo, ma da'santi Dottori Isidoro e Girolamo? O, ribatte Monsignor nostro, la primiera lingua dicela Dante spenta prima della intrapresa edificazion di Babele ed El anche in oggi è uno dei nomi di Dio. Anche la lingua latina, rispondo io, è spenta, e nondimeno ci sono da essa fino a'di nostri rimasi termini che adopriamo alcuna volta per sinonimi des termini italiani.

CAPO II.

Esame delle correzioni che pretende Monsignor
Canonico doversi fare nelle chiose.

Dal principio del canto I dell'INF. fino al v. 60 Lante, dice

Monsignore, quanto alla persona sua propria non guardò alla Morale, ma alla Storia: ed intese per la Lonza Fiorenza, per lo Leone il Regno di Francia, e per la Lupa la Curia romana ; essendo egli stato da queste tre potenze veramente perseguitato, e ridotto all' infelicità dell'esilio, com'egli deplora nel suo Poema. Il Padre Lombardi, che scrisse in Roma, egli è da scusarsi se non usò il senso istorico da me scoperto di quelle fiere, e pubblicato nell' Anedd. II cap. 25 e segg. B. F. pag. 5.

R. Su via, Monsignore, giacchè ne rimandate al vostro Aneddoto II, dove diffusamente trattate questa nuovissima scoperta, prendiam dal medesimo anche la storica significazione della Selva, ch'è (dite) la Reggenza pubblica fiorentina; e la traccia seguendo dell' allegoria, vediamo che storia ne viene. Dice l'allegoria che, teutando Dante di uscire dalla oscura selva, impedivanlo la Lonza in prima, poi il Lcone, e poi la Lupa. Dunque, secondo le vostre significazioni, sarà la storia, che, tentando Dante di uscire dalla fiorentina pubblica Reggen. za, se gli opponesse in primo luogo Fiorenza, poi il Regno di Francia, poi finalmente la romana Curia. E non la vedete, Monsignore, questa storia diversa affatto dalla Storia? Vi giuro che se, anche trovato mi fossi a scrivere in Spitzberg, non che in Verona, mai non mi sarei accoppiato con voi in cotesto pensamento.

INF. V. Pel comento del Boccaccio al verso 137, Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse, deride Monsignore aspramente la mia chiosa, in cui dico che vaglia quel verso il medesimo 25

Vol. V.

come se fosse detto: Galeotto fu il nome del libro, e di chị lo scrisse; diversamente cioè da quant'egli pretende doversi capire, che fu quel libro e chi lo scrisse il ruffiano tra i due Cognati. B. F. pag. 103.

R. Il Boccaccio in quel suo comento ci dice egli pure degli spropositi; e quello tra gli altri solennissimo, che il Veltro (INE. 1 101, e segg.) sia Cristo giudice, ed i Feltri le nuvole.

Comenti antichi al par del Boccaccio asseriscono essere il romanzesco libro, di cui Dante favella, stato scritto da quel principe Galeotto medesimo che fu il mezzano tra Lancillotto e Ginevra e se io fallai nella mia chiosa in citarli, non fallo ora certamente; e souo gli stampati da Vendelino da Spira e dal Nidobeato, el manoscritto segnato 61 della corsiniana biblioteca.

:

Ammesso Galeotto autore del libro, subito cessa ogni ripugnanza alla interpretazione mia, che Galeotto fu il nome del libro, e di chi lo scrisse. Imperocchè, quando anche Galeollo espressamente intitolato non fosse quel libro, potè Galeotto ap pellarsi dal nome stesso dell'autore; come volgarmente appellasi Ariosto l' Orlando furioso, e Tasso il Goffredo.

All' opposto, questa storia e questa interpretazione rigettandosi, quell'inconveniente, se non altro, conseguirebbe che non si farebbe altro in questo verso che con istucchevole aggiunta avvisar cosa, che pel già detto ne' versi precedenti sarebbe anche prima più che bastantemente intesa.

INF. X 76 e seg. Piacemi moltissimo di leggere coi codici di Monsignore e colla Nidobeatina questi due versi cosi:

E sè continuando al primo detto,

S'elli han quell'arte, disse, male appresa ec. e d'intendere con esso lui quel primo se pronome, e come se fosse detto: E sè rimettendo, o riattaccando al primiero discorso; ed è troppo bene a proposito l'esempio ch'egli reca del Boccaccio (Giorn. 3 Nov. 8.): l'Abate con molte altre parole alle prime continuandosi. B. F. pag. 78.

Solo che colla Nidobeatina scrivo elli, e non egli con Monsignore; imperocchè, per avviso del Cinonio (Particelle 101, 16.), tanto erano gli antichi lontani dallo scrivere egli nel numero del più, che scrivevano elli anche nel numero del meno.

INF. X. Spiegando il Landino e il Venturi in quel v. 82, E se tu mai nel dolce mondo regge, essere la particella se

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deprecativa, e non condizionale, m'oppongo io loro; primiera. mente perchè tra i molti esempj che abbiamo e dal Cinonio e dal Vocabolario della Crusca della particella se posta in luogo di così nelle formole deprecative, ad imitazione di quelle latine, sic te Diva potens Cypri, Sic tua Cyrnaeas fugiant examina taxos ec., niuno esempio si trova, in cui alla se aggiungasi la mai, che qui le si aggiunge: siccome nè anche tra i latini esempj del deprecativo sic mai non gli si trova ag giunto l'unquam, che per l'opposto trovasi bene spesso unito alla si condizionale: si unquam in dicendo fuimus aliquid, si unquam alias fuimus ec. Poi perchè, non vedendo Farinata (quello che col Poeta parlava), com'egli stesso confessa (v. 100. e segg.), se non le cose rimote, e le vicine o presenti ignorando, doveva conseguentemente ignorare se continuasse Dante ad avere stanza nel mondo; e però al bisogno e richiesta di saper cosa che succedeva allora nel mondo, doveva convenientemente premettere la condizionale, se tu mai nel dolce Mondo regge, antitesi in luogo di reggi, all' ovvio significato di duri.

Contrariamente Monsignore incomincia a compromettersi di un decisivo esempio della deprecativa se congiunta colla mai; ed eccolo, dice, in questo medesimo canto X, v. 94: Deh, se riposi mai vostra semenza. Rivolgesi poscia al primiero verso e nega potersi sostener condizionale quella proposizione, se tu mai nel dolce mondo regge; poichè, dice, quando la condizionale presto o tardi si fosse verificata, che doveva scguir. Te? Doveva forse Dante tornare allora in Inferno a recar la risposta a mess. Farinata, perchè i Fiorentini fossero incontro alla di lui schiatta crudeli in ogni lor legge ? B. F. pag. 131 e seg.

R. L'esempio del verso 94 tanto non è decisivo per dimostrare alcuna volta deprecativa la formola se mai, ch'io a quel verso pure (e Monsignore lo poteva vedere) spiegola per condizionale. Quanto poi aggiunge Monsignore in prova che nel verso 82 non possa la formola se mai essere condizionale, tutto

fonda egli nello inammissibile supposto, che regge formi Dante
da riedi, ritorni, e non da reggi, duri, persisti.
Inf. XII. Li versi 4 e segg. sono:

Qual'è quella ruina, che nel fianco
Di qua da Trento l'Adice percosse,
O per tremuoto, o per sostegno manco;

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