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Virgilio, domandato da lui se di quel luogo era mai a cuno uscito,

Rispose: io era nuovo in questo stato,

Quando ci vidi venire un Possente,
Con segno di vittoria incoronato.

In egual modo sublime è la seconda di quelle due terzine della stessa cantica, allorchè Marone promette al Poeta di guidarlo nell' Inferno, e quindi nel Purgatorio; ma soggiungegli di non poterlo in Paradiso guidare a motivo

Che quello 'mperador ec. (I, 124 al 129.)

Quella distinzione tra imperare e reggere sembrami nuova del tutto e grandiosa; come infatti luminosamente indica il primo il dominio di un padrone, l'altro quel di un padre di famiglia. Credo poi inutile di far osservare quanta elevatezza ritrovasi in quell'ultima esclamazione, giacchè dev'essere certamente visibile allo sguardo di tutti.

Nè di men sublime ricolmo è quel modo d'indicare il sommo Aristotile, usato dal Poeta in quell'altra terzina della cantica stessa:

Poichè 'nnalzai ec. (IV 130 al 132.)

non potendosi più degnamente qualificare il filosofo più grande e più dotto della ingegnosa Grecia.

E così pure una grandiosa e sublime immagiue l'Alighieri presenta nel canto I del Paradiso, allorchè, per descrivere quello splendore vivissimo, che la sua vista percosse all' entrar che fece nella celeste dimora, dic'egli:

E di subito parve ec. (v. 61 al 63.)

Peraltro il primo luogo tra i sublimi tratti della divina Commedia devesi certamente ai quattro ultimi versi di quello squarcio del canto XXXI del Paradiso:

Se i barbari venendo ec. (v. 31 al 40.)

Ed in questa veramente egregia quartina, oltre la sublimità delle immagini, osservar si deve eziandio con

quanta arte ed esattezza abbia Dante adoperato le antitesi che così spesso in difetti soglion degenerare.

CAPO VIII.

Armonia imitativa.

Finalmente tra gli squarci della divina Commedia che veri modelli dir si possono di armonia imitativa, in primo luogo annoverar si dee quella introduzione al canto XXI dell'Inferno, che una superba similitudine nel tempo stesso presenta:

Così di ponte in ponte ec. (v. 1 al 18.)

Allorchè in questo curioso squarcio l'attento lettore pronunzierà quell'emistichio la tenace pece, non potrà certamente sfuggirgli quanto il suono di esso imiti il viscoso e l'attaccaticcio di quella sostanza; come neppur potrà sfuggirgli quanto tutte quelle rime ristoppa, poppa e rintoppa imitino il rumore che le orecchie assorda nei marittimi lavori degli arsenali.

Sono pure a tutti note quelle altre terzine del genere stesso, che leggonsi nel canto XXXII della prima cantica, in cui, descrivendo il gelo durissimo di Cocito, dice l'Alighieri.

Perch'io mi volsi ec. (v. 22 al 3o.)

E sebben questo pezzo tacciar si possa di una qualche bassezza, pure non dee certo negarsi che in esso il suono dei versi imiti mirabilmente l'atto che dal Poeta descrivesi,

E per ultimo tra questi ingegnosi squarci di armonia imitativa merita di essere principalmente rilevata quella quartina che termina il c. XXXI dell' Inferno; nella quale, dopo aver narrato che Anteo preselo, unitamente a Virgilio, nelle gigantesche sue braccia, Dante soggiunge: Ma lievemente ec. (v. 142 al 145. )

quartina in cui, oltre l'armonia imitativa, va anche ammnirato l'immaginoso, il sublime ed il bello di quell'ultima comparazione.

CAPO IX.

Difetti di stile nella divina Commedia,
e conchiusione.

Ma io già mi avveggo che, trasportato dal mio entusiasmo per l'Autore di questo poema sublime, oltrepassato ho forse di troppo i limiti che prefissi mi era nel presente Discorso: quindi al medesimo fine io porrei, se un duro, ma necessario tributo rendere non dovessi prima alla debolezza dell'umana natura, enumerando ancora quei difetti di elocuzione che nella divina Commedia principalmente urtato mi hanno; difetti però che nei posson dirsi sopra un bellissimo volto, o poche o leggerissime macchie in su la faccia del Sole. Di cinque specie sono pertanto, a parer mio, i vizj di stile nell'Alighieri; cioè: pensieri falsi; espressioni triviali e proverbj volgari; giuochi di parole e freddure; immagini basse, e qualche volta indecenti ; ultimo abusi della lingua latina, sì perchè malamente adattata alla rima, sì perchè con niuna grazia ed eleganza

per

trattata.

I. Tra i pensieri falsi merita di essere da prima riprovato quello che leggesi nel canto II dell'Inferno, ove, cer. cando il Poeta di giustificare la grazia accordata ad Enea di scendere in quel tenebroso luogo, dice a Virgilio, che quell' Eroe

...

fu dell'alma Roma ec. (v. 20 al 27.) induzione tanto falsa e stiracchiata, che inutile sarebbe di farla al leggitor rilevare, bastandogli di porvi gli occhi sopra per esserne pienamente convinto.

Vol. V.

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Egualmente falso, e degno del più manierato Seicentista, è quell'altro pensiero del canto XI del Paradiso, relativo alla patria di s. Francesco, allorchè s. Tommaso d'Aquino, alludendo all'Appennino, presso il quale la città di Assisi è situata, così col Poeta si esprime:

Di quella costa là ec. (v. 49 al 54.)

II. Fra le triviali espressioni e i volgari proverbj che iucontransi nel poema di Dante, di molta critica sembrami degna quella terzina del canto XV dell'Inferno, in cui, dopo aver inteso da ser Brunetto Latini la predizione delle disgrazie che dovevan colpirlo, soggiunge il Poeta:

Non è nuova agli orecchi miei ec. (v. 94. al 96. ) Così triviale è pure quell'altra espressione, di cui, parlando con Virgilio, egli servesi nel canto XX della can

tica stessa:

Maestro, i tuoi ec. (v. 100 al 102.)

Nè triviale meno è quel proverbio da lui usato nel canto XXII della citata cantica:

Noi andavam ec. (v. 13 al 15.)

Nella cantica del Purgatorio incontrasi quindi un'altra bassissima espressione, quando narra il Poeta che il fumo il quale l'aer ricopriva, era

al sentir di così aspro pelo,

Che l'occhio stare aperto non sofferse.

E finalmente è da riprovarsi non poco quella terzina che offresi nel canto XXI della suddetta cantica, allorchè Virgilio, dopo essere stato da Stazio istruito del motivo per cui il monte del Purgatorio avea tremato, e per cui le anime purganti avean cantate le lodi del Signore, soggiunge all'Autore della Tebaide:

ormai veggio la rete ec. (v. 76 al 78.)

III. Tra gli squarci contenenti freddure e giuochi di parole devesi soprattutto annoverare quello del c. I dell'

Inferno, ove parlasi della simbolica lonza, la quale, dice il Poeta,

.... non mi si partia dinanzi ec. (v. 34 al 36.) Nè da riprovarsi meno è quell' altro ridicolo giuoco di parole che leggesi nel canto XIII della cantice stessa, ove Dante, parlando di un'idea che Marone ebbe a suo riguardo, in tal modo si esprime:

Io credo ch'ei credette ec. (v. 25 al 27.)

Tra questi difettosi squarci del terzo genere quello contiensi eziandio del canto XIV dell'Inferno, in cui egli descrive come alcuni di quei dannati scuotevano dal loro corpo la pioggia di fuoco che su di essi cadeva :

Senza riposo mai ec. (v. 40 al 42.)

Freddo e ridicolo in egual modo è quell' altro giuoco di parole che incontrasi nel canto XIII del Purgatorio, ove finge il Poeta che da una certa donna sanese, chiamata Sapia, a lui detto venga:

Savia non fui ec. (v. 109 al 111.)

Così pure difettosa reputar si deve quella terzina del canto III del Paradiso, in cui Piccarda, sorella del di lui amico Forese, all'Alighieri dice:

E questa sorte ec. (v. 55 al 5.)

Ma più di tutti gelato e del più stomachevole seicentismo ripieno è quel concetto che leggesi nel canto XII della cantica stessa, allorchè s. Bonaventura, dopo avere al Poeta narrato le tanto egregie gesta di s. Domenico, puerilmente esclama :

O padre suo ec. (v. 79 all'81.)

IV. Nel numero delle immagini basse ed indecenti della divina Commedia metter si dee quella del c. XXI dell'In ferno, ove narra Dante che i diavoli Malebranche

Per l'argine sinistro ec. (v. 136 all'ultimo)

Tra questi difettosi squarci del quarto genere annoverar

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