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Ma già non fia il tornar mio tanto tosto,
Che io non sia col voler prima alla riva.
Perocchè il luogo, u'fui a viver posto,

Di giorno in giorno più di ben si spolpa,
Ed a trista ruina par disposto.

E da questa ruina egli non voleva campare: voleva incontrarla e cadervi, per non vedersi vivo quando la patria fosse morta. Questa imagine si fa veramente pietosa e tenerissima: e sovra tutto quando noi guardiamo ch'egli scrisse queste cose nel bando. Ed in che stato! Egli solo, egli povero, dannato al fuoco, tenero padre, assai figliuoli, senza Ja donna sua, il suo patrimonio ridotto in pubblico: nè danno, nè onta aveva mai fatto a Firenze: avea sotto Pisa e in Campaldino sudato per lei nell'armi: più nella toga: già il primo oratore e l'ottimo de'magistrati: ed ora con questa mercede, che a uscio a uscio mendicava la vita, e scendeva e saliva per pane le scale altrui: e tutto per ira della patria; ed egli voleva per la patria morire!

XV Se non che il tenne vivo e confortato la speranza del ritornare, siccome leggiamo in quel libro del Convivio; ch'egli ne' suoi ultimi anni cominciò, nè potè finire per morte. Ed ivi dice di questa sola speranza con un affetto così maraviglioso, che le sue parole avrebbero forza di mitigare qualunque animo gli fosse più crudo Ahi! piaciuto fosse al Dispensatore dello universo, che la cagione della mia scusa mai non fosse stata! Chè nè altri contro me avria fallato; nè io sofferto avrei pena ingiustamente. Pena, dico, d'esilio e di povertà! Poichè fu piacere de' cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno, nel quale nato e nodrito fui fino al colmo della mia vita, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto il cuore di riposare l'animo stanco,

e terminare il tempo che m'è dato. Per le parti quasi tutte, alle quali questa lingua si stende, mendicando sono andato: e mostrando contro mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente molte volte essere imputata al piagato. Nel leggere le quali parole non può essere che non cada da qualche occhio fiorentino una lacrima su queste carte; veggendo il curvo, canuto, miserabile vecchio, sull' orlo del sepolcro, tutta abbandonare la fierezza di quell' alto suo animo per lo solo nome della cara sua patria.

XVL Alla quale, e forse negli ultimi suoi anni, inviò quella dolorosa canzone, in che tutte si annodano le sentenze e di disdegno e d'amore che noi siamo iti appostando per le altre scritture di lui. Perchè quivi ei la chiama Madre de' magnanimi, Madre della loda, Suora di Roma, Ostello della salute, Reina serena e gloriosa in sulla ruota d'ogni essenza beata. E la priega poi che percuota i traditori congregati alla sua morte; i quali l'hanno vestita di dolore, e piena di vizj: e le grida che elegga se le fa più o la pace fraterna, o lo stare come lupa. Quindi da ultimo comanda a suoi versi che dentro la terra per cui egli piange, vadano arditi e fieri, poichè li guida l'amore. Le quali ultime parole si fanno sigillo a tutti i nostri argomenti: e mostrano l'amo re della patria essere la vera e sola radice di tutte quelle dolenti parole ch' egli ne mosse. Ma perchè questa canzone aiuta molto bene le presenti considerazioni, e perchè, essendo assai bella ed alta, è gran peccato che vada per le stampe alquanto lacera ed incorretta, noi qui la recheremo emendata secondo la fede di ottimi codici.

Vol. V.

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meno che degna ad un uomo nel grembo della filosofia nutricato. E veramente non è concesso per ricuperare la patria il partirsi dall'onestà: vuolsi sofferire ogni pena, anzi che perdere la dolcezza dell'innocenza. Onde quell' Agide, mentr' era condotto alla morte, chiamava sè stesso e migliore e più felice di coloro che l'avevano condannato: giudicando più miserabile cosa la gioia del reo, che la pena dell'innocente. Imperocchè l'innocenza non si lascia dentro le mura della patria; e neppure sull'uscio e nel profondo del carcere: ma la costanza, la gravità, la fortezza e la sapienza si portano seco nell'esilio e ne'ferri e sotto il carnefice. Ch'elle sono virtù che non ricusano nè dolore, nè supplicio.

XIII Nè per questo quel nuovo Socrate terminò d'amare la patria: anzi in lui ne cresceva per la negazione la brama: tale essendo il cuore dell'uomo, che se quello che cerca non può acquistare, se ne accende ognora in maggiore desiderio. Non trovando adunque altro modo da vincere non già Firenze, ma quella fazione che l'occupava, si volse ad Arrigo imperatore, che, per la sua venuta avea sollevato tutta Italia in isperanza di grandissime novità. Con tale aiuto pensò di ritornare al suo tetto. Ma pure (dice Lionardo Bruno) il tenne tanto la riverenza della patria, che, venendo l'Imperatore contro Firenze, e ponendosi a campo presso alla porta, Dante non vi volle essere, secondo esso scrive (1). Perchè egli voleva ricoverare la patria, non trionfarla coll'arme degli stranieri.

Ma queste pratiche intanto ci mostrano tutte quanto egli sospirasse lo stare in quella; e quanto sia vero ciò che il Boccaccio soggiugne Che Dante questo suo ritorno oltre ad ogni cosa sommamente desiderava: e che quando

(1) Forse nello smarrito suo libro della Storia de' Ghi

bellini. Ved. Lion. Brun. Vit. Dant., pag. xv.

ne fu in lui tolla ogni speranza, non ne fu già tolto il desio. Di che egli medesimo fa testimonio in quegli ultimi canti del Paradiso, che sappiamo scritti quand'era già vecchio. In cui canta, come sperava che un dì la fama del suo poema avrebbe vinta la crudeltà de' suoi nimici: e che allora si sarebbe coronato poeta sovra le fonti del suo bel s. Giovanni; acciocchè dove per lo battesimo avea preso il primo nome, quivi per la coronazione prendesse il secondo.

Se mai continga che'l poema sacro,

Al quale ha posto mano e cielo e terra,
Sì che m'ha fatto per più anni macro,
Vinca la crudeltà che fuor mi serra
Del bello ovile, ov'io dormii agnello
Nemico ai lupi che gli danno guerra ;
Con altra voce omai, con altro vello
Ritornerò poeta, ed in sul fonte

Del mio battesmo prenderò il cappello. Pe'quali versi appare com'egli anche qui prevedesse la querela di offesa patria. Onde vuole che bene intenda chi nota com'egli era nimico non già al bello ovile, ma anzi a que lupi che davano guerra all'ovile. Nè asconde di quanta allegrezza gli avrebbe goduto l'animo al vedersi tornato nell'antica cittadinanza, per cui non dubita affermare ch'egli allora sarebbe ritornato poeta con altra voce. E veramente quel venerabile vecchio si sarebbe sentito brillar dentro il coraggio alla memoria de' giovani suoi anni da lui sudati per la patria nell'arme; quando in quel battisteo avesse rivisto il carroccio ch'ivi riponevasi; cioè quella suprema bandiera del popolo Fiorentino, a lato la quale era venuto da Pisa, trionfando i nimici della repubblica: ed altra volta ritornato era colla vittoria dalla grande strage di Campaldino, dove stette a cavallo nella prima fila.

XIV E qui diremo cosa che a molti sembrerà molto nuova. Cioè che l' Alighieri, stimato oltraggioso a Firenze, l'amò senza fine più del Boccaccio, che tutti lodano quasi di lei tenerissimo. Perchè il Boccaccio, non esule, non depredato, non condannato al fuoco, siccome il misero Dante, fu quasi sempre da lei lontano: e per quel tempo cbe l'abitò vi stette a modo assai ritroso e scortese. Ecco le sue stesse parole. Elle veramente trapassano tutti i segni della gentilezza e del vero. Scrive a messer Pino: Se niuno luogo a spirito punto schifo fu noioso a vedere o ad abitarvi, la nostra città mi pare uno di quelli. La quale ora diciamo nostra; e della quale ( se modo non si muta) ancora ci dorrà essere chiamati. — Ivi veggiamo (acciocchè io taccia, per meno vergogna di noi, i ghiottoni, i tavernieri, e gli altri di simile lordura disonesti uomini) assai,i quali, quale con continenza gravis sima, quale con non dir mai parola; e chi grattando i piedi alle dipinture; e molti coll' anfanare, e mostrarsi tenerissimi padri e protettori del comun bene: i quali tutti ricercando, non si troverà sappiano annoverare quante dita abbiano nelle mani: comecchè del rubar (come fatto lor venga) e del barattare sieno maestri sovrani. Certo se voi avete quell'animo, che già è gran pezza avete voluto ch'io creda, voi vi dovreste vergognare e dolere di non esservi di quella spontaneamente fuggito. E se il mio piccolo e depresso nome meritasse d'essere fra gli eccellenti uomini, e tra molti che feciono il simigliante, nomato, io direi per questo medesimo avere Fiorenza lasciata, e dimorare a Certaldo. Aggiungendovi che, dove la mia povertà il patisse, tanto lontano me ne anderei, che, come la loro iniquità non veggio, così udirla non potessi giammai (1). Così (1) Bocc. Lett. a mess. Pino, c. 274.

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