Ancorach'io ne dica alquanto meno. Riede alla mente mia ciascuna cosa, Che fu da lei per me giammai veduta, O ch'io l'udissi dire; E fo come colui che non riposa, E la cui vita a più a più si stuta Da lei mi vien d'ogni cosa il martire: Tanto più di ragion mi dee dolere: Ne' suoi sembianti verso me turbata, Cotal m'è or, quale mi fu a vedere, Dietro al desio che a madonna mi tira E il grande lacrimar che mi distrugge, E non saprei io dir qual io divegno; E la figura sua ch'io dentro porto, Giammai trovar chi mi desse conforto, Finch' io sarò dal suo bel viso scorto. Per avventura da madonna udita: Pria salutando, e poi sì le dirai, Di più vederla anzi la mia finita; GANZONE XXI. Perchè nel tempo rio Dimoro tuttavia aspettando peggio, Mai consolar, se non m'aiuta Iddio A lui, che vegna nel soccorso mio: Che miseri, com'io, Sempre disdegna, come or provo e veggio. Non mi vo' lamentar di chi ciò face, Perch'io aspetto pace Da lei sul ponto dello mio finire; Ch'io le credo servire, Lasso! così morendo, Poi le diservo, e dispiaccio vivendo. Deh or m'avesse Amore, Prima che 'l vidi, immantenente morte; Che per biasmo del torto Avrebbe a lei, ed a me fatto onore; Della mia vita, che testè non more: Nel qual d'amar la gente disconforto; L'un per usanza, e l'altro per E me ciascun isforza, Sicch'io vo'per men male, Morir contra la voglia naturale. È tanto forte, che spesse fiate sua forza: Daria al mio cor la morte più leggera: Dell'anima mia trista, che non pera, Ella non muor; ma viene in gravitate: Che ciò per soverchianza non mi mova N'avrà forse mercede Allor di me il Signor che questo vede. Canzon mia, tu starai dunque qui meco, Accioch'io pianga teco; Ch'io non ho dove possa Ch'appo lo mio penare Ciaschedun altro ha gioia; salvo andare; Non vo'che vada altrui facendo noia. GANZONE XXII. Griovene donna dentro al cor mi siede E mostra in se beltà tanto perfetta, Io non saprò dischiarar ciò che vede Perchè ogni lor vertù ver lei è ita; Da quel Signor ch'apparve nel chiar viso, Quando mi prese per mirar sì fiso. Dimorasi nel centro la gentile Leggiadra, adorna e quasi vergognosa: Appresso de' suoi piedi l'alma umile; E, posciachè nel gran piacer si accende, Gli begli occhi si levano soave Per confortare la sua cara ancilla: Onde qui ne scintilla L'aspra saetta che percosso m'ave, Tosto che sopra me strinse la chiave. Allora cresce 'l sfrenato desiro, E tuttor sempre, nè si chiama stanco Che 'I si converta in amaro sospiro: E pria che spiri, io rimango bianco, E, s'egli avvien ch'io colga alcun conforto, Ancor di certo ciò non m'assicura; Perchè di rado nel vincer s'acquista, Poi sulla mente dritto li per meggio Sicchè li pensier c'hanno vaga spene, Fra lor medesmi si coviglia e strigne: La fantasia, la qual mi spolpa e snerba; Ed è conversa in senso naturale, E sempre non allenta: E di qualunque prima mi rammenta, |