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SONETTO XXII.

Deh pellegrini, che pensosi andate

Forse di cosa, che non v'è presente,
Venite voi di sì lontana gente,

Come alla vista voi ne dimostrate?
Che non piangete, quando voi passate
Per lo suo mezzo la città dolente,
Come quelle persone, che neente
Par che intendesser la sua gravitate?
Se voi restate per volerlo udire,
Certo lo core ne' sospir mi dice,
Che lagrimando n'uscireste pui.
Ella ha perduta la sua Beatrice;

E le parole, ch' uom di lei può dire,
Hanno vertù di far pianger altrui.

SONETTO XXIII.

Oltre la spera che più larga gira

Passa 'l sospiro, ch'esce dal mio core;
Intelligenzia nova, che l'Amore

Piangendo mette in lui, pur su lo tira.
Quando egli è giunto là, ove 'l desira,

Vede una donna che riceve onore; E luce sì, che per lo suo splendore Lo pellegrino spirito la mira. Vedela tal, che, quando il mi ridice,

Io non l'intendo, si parla sottile Al cor dolente, che lo fa parlare. So io che 'l parla di quella gentile; Perocchè spesso ricorda Beatrice,

Sicch'io lo intendo ben, donne mie care.

SONETTO XXIV.

Perch'io non trovo chi meco ragioni

Del Signor a cui siete voi ed io,
Conviemmi sodisfare al gran desio,
Ch'io ho di dire i pensamenti buoni.
Nulla altra cosa appo voi m'accagioni
Dello lungo e noioso tacer mio,

Se non il loco ove io son, ch'è sì rio,
Che ben non trova chi albergo gli doni.
Donna non c'è che Amor le venga al volto,
Nè uomo ancora che per lui sospiri,
E chi 'l facesse saria detto stolto.
Ahi, Messer Cin, com'è 'l tempo rivolto
Al danno nostro, ed alli nostri diri,
Da poi che l' ben ci è sì

poco ricolto.

SONETTO XXV.

Deh ragioniamo un poco insieme, Amore,

E tra' mi d'ira che mi fa pensare,

E se vuoi l'un dell'altro dilettare Diciam di nostra donna, o mio Signore. Certo 'l viaggio ne parrà minore Prendendo un così dolce tranquillare, E già mi par gioioso il ritornare Udendo dire, e dir del suo valore. Or incomincia, Amor, che si conviene, E muoviti a far ciò; ch'ell'è cagione Che ti dichine a farmi compagnia . O vuol mercede, o vuol tua cortesia, Che la mia mente, o il mio pensier dipone, Tal è il desio che aspetta d'ascoltare.

Sonetto,

SONETTO XXVI.

onetto, se Meuccio t'è mostrato, Così tosto il saluta, come 'l vedi, E va' correndo, e gittatili a' piedi, Sicchè tu paia bene accostumato. E quando sei con lui un poco stato Anche il risalutrai, non ti ricredi; E poscia l'imbasciata tua procedi, Ma fa' che 'l tragga prima da un lato. E di': Meuccio, quei che t'ama assai Delle sue gioie più care ti manda, Per accostarsi al tuo coraggio buono. Ma fa' che prenda per lo primo dono Questi tuoi frati, ed a lor sì comanda Che stien con lui, e qua non tornin mai.

SONETTO XXVII.

Chi udisse tossir la mal fatata

Moglie di Bicci vocato Forese, Potrebbe dir che là fosse vernata Ove si fa 'l cristallo in quel paese. Di mezzo agosto la trovi infreddata, Or pensa che dee far d'ogni altro mese: E non le val perchè dorma calzata Merzè del copertoio ch' ha Cortonese. La tosse, il freddo e l'altra mala voglia Non le addivien per omor ch'abbia vecchi, Ma per difetto ch'ella sente al nido. Piange la madre, che ha più d'una doglia, Dicendo: lassa me, per fichi secchi Messa l'avrai in casa il conte Guido.

SONETTO XXVIII.

Bicci, novel figliuol di non so cui,

Se non ne domandassi Mona Tessa, Giù per la gola tanta roba hai messa Che a forza ti conviene or tor l'altrui. E già la gente si guarda da lui

Chi ha borsa al lato là dove s'appressa, Dicendo: questi che ha la faccia fessa È piuvico ladron negli atti sui. E tal giace per lui nel letto tristo Per tema non sia preso all'imbolare, Che gli appartien quanto

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Di Bicci e de' fratei posso contare

Che per lo sangue lor del male acquisto
Sanno a lor donne buon cognati fare.

SONETTO XXIX.

Ome, Comun, come conciar ti veggio

Si dagli oltramontan, si da' vicini! E maggiormente da tuo' cittadini Che ti dovrebbon por nell'alto seggio. Chi più ti dee onorar que' ti fa peggio; Legge non ci ha che per te si dicrini: Co'graffi, colla sega e cogli uncini, Ciascun s'ingegna di levar lo scheggio. Capel non ti riman che ben ti voglia: Chi ti to'la bacchetta, e chi ti scalza, Chi il vestimento stracciando ti spoglia. Ogni lor pena sopra te rimbalza: Niuno non è che pensi di tua doglia, O stu dibassi quando sè rinalza.

SONETTO XXX.

Se nel mio ben ciascun fosse leale,

Si come di rubarmi si diletta,

Non fu mai Roma quando me' fu retta
Come sarebbe Firenze reale.

Ma siate certi che di questo male

Per tempo o tardi ne sarà vendetta. Chi mi torrà con verrà che rimetta In me Comun del vivo capitale. Che tal per me sta in cima della rota, Che in simil modo rubando m'offese, Onde la sedia poi rimase vuota. Tu che salisti quando quegli scese, Pigliando asempro mie parole nota, E fa' che impari senno alle sue spese. Poi che justizia vedi che mi vendica, Deh non voler del mio tesor far endica.

SONETTO XXXI.

Volgete gli occhi a veder chi mi tira,

Per ch'io non posso più viver con vui,
Ed onoratel, che questi è colui

Che per le gentil donne altrui martira.
La sua virtute, ch'ancide senz'ira,
Pregatel che mi lasci venir pui:
Ed io vi dico che li modi sui
Cotanto intende quanto l'uom sospira.
Ch'ella m'è giunta fera nella mente,
E pingemi una donna si gentile,
Che tutto mio valore a piè le corre;
E fammi udire una voce sottile

Che dice: dunque vuo'tu per niente,
Agli occhi miei sì bella donna torre?

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