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in quei Fori o Pozzetti o Stalli, che vogliansi chiamare, s'usasse mai introdur acqua. Seconda è: Se quell' Uno fosse Bambino o Fanciullo. E Terza è: Se il verso di Dante: Rupp' io per un che dentro v'annegava, non abbia subita alcuna alterazione per trascuratezza o arbitrio dei primi copiatori della Divina Commedia.

cer

Alla prima sembra potersi rispondere con tezza: Che quell' Uno non annegava nè potea annegare in alcuno dei detti Fori, ma sibbene nel Fonte. Perchè nef Fori non introducevasi acqua, come fu supposto da taluno, allegando che ivi si celebrassero i Battesimi ordinari, cioè quelli che facevansi odiernamente fuori delle due epoche solenni, delle quali una era il dì del Sabato Santo e l'altra il Sabato precedente alla Pentecoste; che anzi per tali Battesimi ordinari eravi un altro Fonte supplementario o minore collocato appunto dentro il Battistero fra le due colonne dove è ora l'altare della Maddalena. E questo Fonte minore era posto in comunicazione col maggiore mediante un canale sotterraneo, come provanlo i registri de' Consoli nei quali si leggono le spese occorse tempo per tempo per i risarcimenti del detto canale. Perciò nei Fori o Stalli, che impropriamente diconsi dal Landino pozzelli, non si battezzava nè vi si tenea acqua, non facendo mestieri, e anzi il tenervene sarebbe stato d' alcun danno all' edificio, perchè i recipienti per acqua si sogliono costruire e smaltare altramente da quello si pratica nelle altre costruzioni a cui l'acqua o anco sola l'umidità pregiudicano. Adunque sembrami provato che quell'Uno annegasse nel Fonte e non in alcuno dei fori. - E qui non tralascerò d'avvertire esser eziandio stato supposto che quei Fori non fossero in elevazione dal suolo pari al Fonte, ma che fossero anzi pari al livello del suolo. medesimo; al che contradice la struttura di quanti antichi Fonti battesimali rimangono; o se esempio se ne potesse addurre (come ho inteso d' uno in Roma), è da notare che tali Fori fossero così ordinati non per uso de' batte zzatori, ma per quello de' battezzandi, praticandosi a simili Fonti il Battesimo per aspersione e non per immersione; perchè diversamente essendo, entrando i battezzatori in quei stalli, invece d'aver maggiore comodità a tuffare il bambino nel Fonte, ne avrebbero avuta impossibilità ; e invece di essere per la elevazione difesi dalla calca delli spettatori, sarebbero stati a quella senza riparo alcuno sottoposti. Collocandovisi invece i battezzandi, il prete attingendo l'acqua dal Fonte, con maggior facilità faceva l'aspersione; intendendosi però di battesimi d' adulti, che inconveniente e pericoloso sarebbe stato il porre i neonati in quelle buche. Ma poco al proposito nostro importano queste

considerazioni, sendo noto che nel Fiorentino Battistero facevansi i battesimi non per aspersione ma sibbene per immersione.

Alla seconda difficoltà non è ardua la soluzione; avvengachè, come mai potrebbesi immaginare che un bambino caduto nel Fonte o in uno di quei Fori (ammettendo per poco che vi si tenesse acqua e vi si battezzasse) fosse salvato mediante la rottura del Foro in che annegava, e che l'autore di tale rottura cadesse in sospetto d'empietà e sacrilegio per tal fatto? Non eranvi dunque testimoni? non eravi il prete battezziere? non eranvi i padrini del battezzando? non eravi veruno spettatore? Ciò non si può ammettere. E mirabile è come sopra tal punto non tanto li antichi che i moderni Spositori sieno oltremodo parchi d'investigazioni. Nel solo Comento Anonimo pubblicato per cura di Lord Vernon (Firenze, Tipografia Baracchi, 1848, in 4.o, pag. 148), leggesi questo particolare notabile che fornisce, a mio parere non poco lume: E dicie l'Autore che vide in una buca il di di Sabato (Santo) quando si dà il fuoco benedetto, in questa buca sì vi si sconvolse Antonio di Baldinaccio de' Cavicciulli di Firenze per siffatto modo che convenne che quella buca si disfacesse; e fue l'Autore a disfarla. ec. - Due cose sono da notare nelle parole di questo anonimo Comentatore: prima, ammette che quell' Uno annegasse nella buca e non nel Fonte, dicendo che vi si sconvolse per siffatto modo che a volernelo trarre convenne che quella buca si disfacesse. Ciononostante per chi consideri la struttura di tali Fonti, apparirà non solo improbabile ma quasi impossibile che uno vi si sconvolga per modo da entrarvi a capofitto come stavano i dannati descritti dall'Allighieri; e non darà a questa spiegazione maggior peso di quello si abbiano le consimili delli altri Comentatori. La seconda in che il Comentatore dà notizia chi fosse quell' Uno che annegava, c' induce ad argomentare quasi con certezza, che non era un bambino, ma bene un ragazzetto di tanta età da potersi da per sè stesso arrampicare sul Fonte e cadervi dentro. Nè mi rimuove dalla mia spiegazione quello strano capovolgersi che egli suppone di colui che affogava, essendo anco esso indotto nell' errore comune dal vi del verso dantesco, che io opino essere stato alterazione o arbitraria o di trascuraggine dei primi copiatori della Divina. Commedia occasionata probabilmente da soverchia estensione attribuita da quelli alla Comparazione Dantesca, la quale limitasi ai soli fori, ma nell'immaginativa di essi copiatori, comprendendo indebitamente anco quello che annegava, introduttovi dal Poeta a guisa di storico corollario e non come parte integrale della comparazione medesima.

Rimane la terza difficoltà intorno al verso:

rupp' io per un che dentro v'annegava, il quale così si legge non solo nelle stampe, ma anco nella maggior parte de' Codici mss.; nè io, per dir vero, so d'alcuno che porti diversa lezione da questa. Nondimeno credo l'opinion mia ben fondata sopra le allegate ragioni, e che il verso di Dante nel suo originale stesse piuttosto in uno dei tre infrascritti modi o in altro consimile, che in quel vulgato, cioè :

Rupp' io per uno che dentro annegava. Rupp'io per un che dentro s'annegava. Rupp' io per un che là dentro annegava.

Verrò per ultimo alla probabile esposizione del come quell' Uno si fosse condotto al pericolo di affogare nel Fonte, e del come l'Allighieri, per salvarlo dall' imminente morte, rompesse uno di quei fori o stalli de'battezzatori. - Rimanendo il Battistero aperto al pubblico quasi l'intero giorno per il servizio delli odierni battesimi, interveniva alcuna volta, che non trovandosi nella chiesa devoti od altre persone, anco il servo di guardia escisse fuori, come usano di fare e si trattenesse qualche tempo nei dintorni; il che un giorno détte agio al garzonetto de' Cavicciulli d'entrare nel tempio inosservato, ove trovandosi solo, cominciò, mosso dalla fanciullesca vivacità e inconsideratezza, ad arrampicarsi sul Fonte, del quale giunto sulla sponda e volendovi camminar sopra, sì per l'angustia di quella e sì per la levigatezza dei marmi che non consente a' piedi movimenti sicuri, sdrucciolò nell'acqua, la cui profondità era maggiore che non suol esser l'altezza d' un uomo ordinario, come si può conoscere dalla inspezione del Fonte Pisano e d'altri di quell'epoca che ancora si conservano. Ora mentre il garzonetto de' Cavicciulli diguazzava nell' acqua, come fanno quelli che affogano, accadde che Dante fortuitamente entrasse in chiesa e tosto udito quel diguazzare nel Fonte, accorsovi per vedere che fosse, si slanciò pronto sulla sponda a fine d'afferrare il fanciullo e trarnelo fuori; e facendo a ciò mestieri d'un saldo punto d'appoggio, egli, o fermò il piede sulla lastra marmorea d'uno di quei fori o vi s' attenne con una mano mentre con l'altra afferrava il caduto, adunando in tal punto d'appoggio tanta forza che la tavoletta del marmo essendo sottile e forse non ben salda, si ruppe; nè essendovi testimoni del fatto, ne seguitò, come sempre accade, che qualche maligno inimico dell'Allighieri interpretasse a sacrilegio quell'atto che a carità del prossimo era da attribuire. Così o in consimile modo, mi sembra che debba esser intervenuto il caso accennato dall' Allighieri; rimanendomi, qualunque sopra ciò possa essere l'altrui giudizio, fermo nella credenza, che quell' Uno fosse un

fanciullo e non un bambino; che annegasse nel fonte e non in alcuno di quei fori; e che al caso non fossero presenti altri che l'Allighieri e il fanciullo che annegava.

GIUNIO CARBONE.

DEL DOTTOR DANTE ALLIGHIERI.

« Lume non è se non vien dal sereno Che non si turba mai, anzi è tenebra, Od ombra della carne, o suo veneno ».

Questi versi del decimonono del Paradiso mi si offrono spontaneamente alla memoria nell' istante ch'io intendo appunto di toccare qualcosa, molto scarsa e disadorna certamente, intorno a Dante Allighieri siccome a solenne professore di medicina. Con questo non voglio dire che in me risplenda il lume rischiaratore della terribile profondità che s'intravvede nella dantesca triologia; ma intendo che dal tutto insieme e delle parti più alte di quel poema unico si. dee prendere l'indirizzo e la illustrazione delle cose particolari e meno elevate. Poichè Dante ha da essere per gli Europei, e specialmente per noi Italiani, quasi come un padre della Chiesa e un dottore in ogni umana e divina scienza, al quale dobbiamo appressarci con tutta la riverenza e purità della mente per cercare nel suo Poema. Per la qualcosa assai bene e col suo grande accorgimento fu dal Sanzio nella pittura a fresco della Disputa rappresentato fra tutti que' sacerdoti e spiriti magni l'Allighieri, poeta e teologo tanto grandissimo che nessuno potè per ora comprendere tutta la sua smisurata dottrina, il nuovo concetto e l'acutissimo intendimento. Ora di costui, intorno al quale si parla meno impropriamente quando si usano le sue frasi, m'è dolce il tenere alcune parole. Amiamolo, sì, a gara quest' uomo glorioso, il quale nemico d'ogni opera bieca ci alletta e felicita co' suoi scritti, lasciati in eredità alla nazione, la quale fu da lui rigenerata. Esso è come il ministro maggiore della natura, cioè il sole, che abbarbaglia le pupille inferme e conforta gli occhi robusti e che non guardano losco. In lui si pascettero tutti i nostri buoni, e da lui meritamente fuggirono, non solo monna Berta e la Cianghetta, ma anche pur Martino e Lapo Saltarello.

Questo Divino sorto a Firenze di prosapia e non di costume d'allora, come dice di sè lui stesso, fra le parti si tenne quasi sempre imparziale in una città arrabbiata, e a que' dì quando periva ogni uomo che stesse colle mani alla cintola, e qualche volta si vedeva un disseziente spento senza legge in

processo di tempo dovea poi vedersi, sotto reggimenti che chiamavansi civili, appiccato in ballatoio od arso colui che poche ore prima era stato applaudito dagli spasimanti delle palle e del marzocco. Dante, infatti, uomo retto anche quando l'iracondia gli faceva offesa ed anche quando per alterezza adombrava, si tenne sempre stretto alla civile religione e senza ostentazione praticò rigorosamente le regole della morale. Poichè se per aiutare in que' tempi difficili la sua patria dovette piegare verso il partito ghibellino, godette però in sè stesso al pensare che gli era bello l'aversi fatta parte per sè medesimo, nè alcuna idea de'guelfi spregiò, se era profittevole ed attuabile.

Indole di Dante. - Vero è che di sua natura era per tutte guise trasmutabile ed avea gli occhi intenti a mirare concetti ideali; ma questo suo naturale talento, a cui dava permissione quando era soletto e vivea con sè stesso o andava a sua voglia, non lo traviò per maleficio dal sentiero della virtù, anzi gli fu utilissimo per raccogliere da ogni parte una masserizia infinita di oggetti e concetti, che quasi plenitudine volante (per usare sue parole) se gli aggirarono per la mente e fantasia, e quando amore gli spirava le immagini fedeli di quelle cose e di quelli scritti che gli venivano sotto la penna. Perchè il nostro poeta era uomo che non coartava mai il pensiero in grazia della parola e scriveva allora solamente (ed in anima sobria, forte e delicata era spesso) quando si sentiva chiamato. Dante sino da piccoletto, preso a' dolci sguardi e al saluto di colei che vestiva di onesto colore sanguiguo, correva ad amare, ed in mezzo a'pianti e a'dolori, tutt'altro che puerilmente si beava, s'imparadisava, s'indiava negli occhi lucenti e giovinetti di quella Beatrice, che potente a beatificarlo nel corpo quaggiù, seppe come donna della mente di lui, tanto fare che a quell' impulso che sempre gli rampollava nella mente innamorata, venissero appresso que' lavori che doveano conseguire per merito l' immortal fama, della quale godendo l'uomo s'insempra ed eterna. Nata era stei da tribo celeste e si faceva brolo di fiori pur mo' nati, dove si ventila coll'orifiamma e colà dove mai non verna e sempre raggiorna, senza mai annottare. Nè il fiero garzoncello era fra que' tali che perdono la loro vita dietro a fatue cose; imperocchè se la donna, passionata di tanta misericordia dimostravasi verso la vedova vita di lui, egli non disbramò con azione indegna la decenne passione che gli facesse poi troppo amaro il desio amoroso. Ma accogliendo come grazioso dono di eccelso favore quest'apparizione, la onorava con ossequio di operazioni alte ed usava indefessamente il tempo.

CO

Il dottore Allighieri. Ma come io vado inoltrando a riguardare l'ampiezza di questa Commedia e del

suo Autore, il quale da Francesco Sacchetti è detto ingegno maraviglioso sopra natura e intelletto umano, che potè descrivere fondo a tutto l'universo e più, mi smago e non valgo a poter giugnere a squadrarne l'altezza. E dopo il sentimento di profonda umiliazione che prorompe in tanta disuguaglianza, mi è forza ov' io non voglia perder del tutto l'impresa, ricorrere ad uno spediente. Io so infatti che per attingere qualche sorso da tanto senno, è mestieri considerare e in certa guisa cogliere a parte a parte quest' ingegno deiforme e dirompere mentalmente tutta quella distesa. E così gli studianti, facendo opera diversa gli uni dagli altri, ma dettata da amore, poterono come in prima divisare quel raggio che conquideva ogni occhio piccoletto e debole, quando si fosse messo direttamente a mirarlo. Conciossiachè avendo i tauti spositori considerato questo miracolo d'autore e di cittadino, acerrimo e negli studi della pace e nel giuoco della guerra, chi dal canto dommatico, chi dal legale, questi come filosofo e quasi come letterato, altri come astronomo ed altri como artefice ed i più come poeta, a me è nato in cuore il pensiero di risguardarlo siccome dottore nell'arte ippocratica, cioè di quel vecchio di Coo, del quale dice Dante stesso che natura lo fa agli animali che ell' ha più cari. Nè questo lato dell'incommensurabilità dantesca abbia da sembrare supposto, esagerato o ridicolo per coloro che, non istringendo e spegnendo la sufficienza medica nel tastare i polsi, vogliono con Francesco Puccinotti che il dottor fisico dettatore ed esempio di religiosa civiltà assidasi fra legislatori e sacerdoti, e sanno che Dante, prima delle sue traversie, volle essere ascritto a quella capitudine delle arti maggiori, la quale si componeva di farmacisti, che allora si nominavano speziali. Che anzi dal testimonio del Boccaccio sappiamo che in tempo del bando e delle grandi · sue vicende, stando l' Allighieri in Siena, essendogli in una bottega di semplicista venuto sott'occhio un libro che esso da molto tempo cercava, si pose quivi immantinente a leggere e per molte ore stette così intento, che non mosse costa, sebbene vi fosse dinanzi alla porta dell' officina gran movimento di persone. Or questo libro poteva essere molto lontano dalla farmaceutica trattazione?

Dante fisiologo. Era questo nostro autore del numero di coloro a' quali cogli antichi filosofi, Eracli clito specialmente e i maghi, e co' moderni Oken, Gioberti ed altri ben fu avviso che il mondo nelle sue parti essenziali e primigenie sia provenuto dall'etere quasi l'etere fosse la celebrata materia prima. Perciò Dante (Cantica 3', C. XXVII, t. 46) denomina la vita umana coll' elogio di figlia a colui che apporta mane e lascia sera. Oltre a ciò ben sapevasi da

quell' altissimo quasi al par degli odierni come accada il mistero della generazione (2a, XXV, 13–25); onde parla a dilungo e da maestro, precorrendo la modernità, vuoi nel conceder all' uomo l'officio attivo e dare alla donna il passivo nel lavorìo formativo del portato, vuoi nel fare a questo portato, come a soggetto della forza vitale correre il ciclo di vegetante, di senziente e di razionale. Sapeva benissimo in che modo la creatura mediante il cordone ombellicale od ilo, viva di conserva colla pregnante; giacchè in un medesimo canto parla due volte di quel delicato vincolo sanguifero (1, XXIX, 7) sia quando, a fare intendere la cicatrice che sta in mezzo del ventre, dice ove comincia nostra labbia, e quando per descrivere il cavo del ventre favella di quella parte, dove è primamente preso il nostro alimento intrauterino.

Alcuni tra' moderni posero che ogni animale non sia in origine altro che un' otre o sacco dermoideo, nel quale il tubo digerente può fare le veci di superficie e voltata buccia, la superficie far vece di tubo intestinale. Sicchè per sentenza di costoro, non solo la membrana muccosa della superficie e quella dell' intestino hanno contiguità ma anche continuità e medesimezza di tessuto, diguisachè dall' aspetto e natura dell' una tu possa arguire l'aspetto e la natura dell' altra a tuo piacere. A questa opinione, se altri volesse abbondare, si potrebbe trovare un appoggio presso il gran biografo e filosofo di Cheronea, il quale andò più avanti col riconoscere non negli animaletti inferiori ma ne' più alti siffatta analogia fra l'esterno e l'interno d'un vivente. « La volpe d' Esopo (dice Plutarco nel Convito de' sette savi), venuta a contesa di varietà col liopardo, pregò il giudice, che avanti di dar sentenza, avvisasse le parti interne, perchè le troverà molto più varie ». Il perchè Dante, ampliatore della ricchezza scientifica, posseduta dagli antipassati, usando la solita sagacità, e volendo dare a divedere, sotto allegoria, la versatilità e la perfidia della pantera, cioè dello spirito di parte che infieriva per Firenze, lo addita al pelo macchiato e alla pelle gaietta di quella fera (1a, I, 11, 14), così volubile dell' anima come varia del corpo.

Nella Cantica del Purgatorio si fa parola del sonno, il quale è sotto un certo riguardo immagine della morte. Ma sotto altro rispetto, come accennasi per l'Allighieri (2*, IX, 6, XXVII, 31), il sonno, lasciando in certe ore mattutine che l'anima pellegrini a suc piacere, può diventar nunzio di futuro. Per il che non è meraviglia se alcuni eletti ingegni abbiano concepito immagini sublimi e pensamenti inaspettati, mentrechè le membra, sepolte nel sonno, alleggerivano il velame che chiude all'anima il mondo degli

spiriti. Che se Dante dice che il vivere è un correre alla morte, intende accennare al temporaneo disfacimento del corpo e non all' anima; la quale come fenomeno e come individuo passa, ma nella sostanza rimane e nel genere anche rispetto alle membra è perenne.

Imperocchè noi quaggiù moviamo tra la morte e la vita, fra la distruzione e la riproduzione, entro il male ed il bene. Così procedendo dal possibile andiamo al reale, dal successivo al continuo, e dal temporale all' eterno. Perciò l' uomo è rassomigliato al verme, alla ninfa e alla crisalide, che chiudendosi nel bozzolo si trasforma presto in farfalla angelica per poggiare ai colli celesti (2a, X, 41-43).

Dante patologo. Sotto il velo di versi strani asconditori di dottrine incomparabili, quel Dante, quegli che due volte nominò Ippocrate (2, XXIX, 46), e fece commemorazione solenne (4, IV, 46-48) di Empedocle, di Dioscoride, Galeno, Avicenna, Averroe, non ebbe ribrezzo di parlar d' impiastro in senso traslato, nè del puzzo che esce dagli spedali, nè di rammentare la mortifera influenza che appestò Egina. Da ciò si mostra frattanto che l'Allighieri era come que seguaci di Esculapio e Macaone, a cui niente fa schifo, perchè niente è brutto, osceno nè reo per sè stesso in natura e nella creazione. Ed ecco altre sue espressioni. La morte è amara (1a, I, 3) e il dolore è cosa memorabile, sia quando fa versare lagrime (1, XXIII, 33), sia quando non le fa scorrere, o perchè stremo (4*, XXXIII, 17), o perchè cruccia una persona forte e maschia (1, XVIII, 28); ma il dolore non uccide! La mattezza è agguagliata alla morte che par cecità dell' anima, e la cecità è trista come la morte, perchè fa morire l'uomo allo spettacolo del mondo visibile. Perciò da tre cose rifugge il nostro pensiero, dalla morte, dalla pazzia e dalla cecità. Di quest'ultima parlandosi dal poeta, vien fuori una patetica descrizione con cui è messo dinanzi al viaggiatore l'uomo abbacinato, che non vede lume del cielo (2., XVI, 4). Altrove si tiene molto di altre due malattie dell'occhio, cioè la presbitia quando non può scorgersi che a gran distanza mentre dappresso gli oggetti sono confusi, e, se io bene intendo parlasi anco della miopia, in cui s' ammicca per discerner bene i soli oggetti vicinissimi; chè a' lontani non giunge il nerbo del loro viso (1', XV, 7). E laddove in altra infermità, o l'eccesso della doglienza o il male stesso, come presso gli assiderati, ammorza ogni sensibilità; mentre ne' poveri loschi, guerci ed accecati avviene l'opposto, giacchè il sensorio s'alza e raffina in incredibile squisitezza.

Il nostro Dottore favella di due mali di nervi. L'epilessia o morbo sacro; vale a dire malcaduco, e anche la licantropia è descritta ; perciò un pover uomo

il quale è sorpreso immantinente da questo malore (dagli antichi e da qualche moderno fanatico scambiato coll' ossessione) sente cascarsi giù senz'altro (1a, XXIV, 38). L'altro morbo nervoso descritto è una specie di tetano, che potria chiamarsi tropostotono, in cui egli immagina che nè davanti nè di dietro, nè di fianco si curvi o torca la persona degli indovini, ma che con un certo scavezzamento di collo la testa si gira in guisa da guardare le spalle (1a, XX, 4-8). Da sè stesso però dice, che in patologia questo travolgimento non si conosce, facendo così aperto che lui era in quella disciplina molto innanzi e che, penetrato l'andamento della morale caducità, sapeva rallargare il campo nosologico.

L'alto Dottore osserva nella stessa Cantica dolorosa e sconsolata dell'Inferno quelle alterazioni del tessuto cutaneo, che sono dette malori della pelle. Non intendo qui accennare al sudore (4a, III, 44) prodotto dallo spavento, ma voglio ben rassegnarci le sanguinose punture, fatte da' mosconi e dalle vespe sulle ignude carni degli infingardi (1a, 22, 23); la lebbra, che senza refrigerio tormentava i truffatori, tutti pieni di schianze (42, XXIX, 25-29), e, per non toccare dello eccidio a danno degli scommettitori dell' amicizia e degli scismatici, porrò qui il cenno delle piaghe, prodotte dall' ardore eternale, sopra coloro che vanno in zoccoli per l'asciutto (1a, XVI, 5). | Forse la insaziabile fame della lupa, incontrata nell' ingresso del tristo regno, non ha del malaticcio, essendo proprio di siffatte bestie un così acuto insaziabile appetito (1, 1, 33): nè le gozzoviglie, di cui s'empieva Ciacco, dedito alla colpa dannosa della gola possono forse chiamarsi effetto d'infermità (4a, VI, 48). Ma la bene fastidiosa malattia è la quartana, distinta per l'accessione a ribrezzo intensissimo ed ha cattiva indole quella lenta morbosa ritenzione, alcune volte prodotta da ostinate febbri di periodo, associate ad ingrossamento de' visceri ipocondriaci; la quale ritenzione è da' fisici dottori appellata idropisia e più determinatamente ascite (1, XXX, 17, 23).

Dante fisico. Parla della caduta dei gravi per legge d'attrazione precorrendo per tanti secoli Isacco Newton (4, XXXIV, 37); descrive l'angolo incidente eguale al riflesso (3, I, 17); non gli sfugge quel cigol o ch' esce d'un tizzo umido, quando arde (4, XIII, 44); non gli pare spregevole l'osservazione d'un papiro che bruci, mutandosi di colore (1, XXV, 22); nè sciocco gli sembra l' intertenersi intorno al fumo esalante dalla mano bagnata quando la temperatura è bassa (1a, XXX, 31). E finalmente parla del prisma in un modo tutto speciale, accennando agli estremi del rosso e del violetto (2a, XXXII, 20). In due luoghi tiene discorso intorno ai vapori trascorrenti poichè in un brano ritrae il fenomeno

delle così dette stelle filanti (2a, V, 13) ed in altro dei vapori mattutini e vespertini (3a, XXVII, 40). Altrove tocca del tremolo (2a, XXI, 49); in altro luogo rammemora lo scorrere d'un fiume. Così non contento alla pittura della luna (2a, XXIX, 18), rappresenta, per compiere il quadro della geografia universale, e l'alba e la sera ed il felice e gentile tepore di maggio che rallegra e conforta co'suoi zefiri l'egro mortale, pellegrino del sentiero della vita.

Fra le potenze dell' aria, dette meteore, viene il fulmine (3, XXIII, 14); e tra quelle, che si dicono venti, dal soave alito di primavera (22, XXVIII, 3-5) tu passi all'aquilone (3a, XXVIII, 27-28), e termini col tremendo uragano (1a, IX, 22, 24). Seguitando gli altri fenomeni prodotti dall' elettricità o dalle diverse temperature viene la nebbia, cioè la pioggia, la neve, la brina, il gelo e la dimoia. Ma per attenuare il senso di questi paurosi mutamenti della natura, abbiamo per bene due volte la descrizione dell' iride.

Dante psicologo. Si è ribadita più volte quest'avvertenza, che in medicina posson farsi in certi infermi dimolte belle cure astenendosi da' rimedi farmaceutici e da'chirurgici col solo cibare la spirituale vita di buona speranza; ed appunto perchè l'uomo è animale binato, può cadere e può risorgere, sia quanto all'anima, sia quanto al corpo, se l'una vogliasi distinguere dall'altro negli effetti. Ed il gran padre Dante volle darci utile documento e per apprendere l'una e per non disconoscere l'altra sostanza, ond'è composto l'umano essere. Nè perchè poeta, si fermò soltanto alle proprietà psicologiche che hanno come uno sprazzo di corporalità, quali sariano il sogno (3a, XXIII, 20) e la visione (passim), nè fu pago al legame psico-fisiologico, dal quale la disforme natura è stretta in unica personalità, più o meno perfettamente (1, VI, 36); ma volle descrivere fondo alla trattazione. E puoi averne prova in vari luoghi. Trovi poi di che apprendere ed in quanto alla fantasia (2a, XXII, 5, 6), in quanto il pensiero (22, XIX, 14) ed in quanto all' ar bitrio (3, V. 7, 8). Appresso favellasi del proprio sè, che è superstite al disfacimento corporeo e con reiterata argomentazione si dà lode all' anima, vuoi come avvivatrice delle membra, o vuoi come creazione puretta. E nel vero non poteva andare altrimenti questa bisogna, sendo questo portento di maestro ito addentro a tutto il nocciolo della filosofia (3, XXIX, 8-12).

Dante interprete delia natura. - Qui si tralascia di citare que' passi della divina Commedia, dove si parla di mineralogia, di botanica, di zoologia, specialmente degli uccelli. Basta il dire che egli essendo vero poeta, sentivasi figlio della natura. Vuoi un piccolo cenno del come studiasse gli effetti na

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