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per lo meno di trovare l'Allighieri in manifesta contradizione con sè stesso.

Io invece manderei cotestoro a leggere i versi 124-135 del Canto XVII del Paradiso, e ripeterei a chi si sgomenta della trista e matta loro presunzione, tanto da pensare comunque a schermirsene; ripeterei, dico, l'energico ammonimento di Cacciaguida, pregandolo di non lasciarsi fare velo all' intelletto dall'altrui malignità, e di non mettere un empiastro, dove non è ferita, in un corpo di tutta bellezza, ch'è quanto dire di tutta unità, qual è la Divina Commedia.

Loco santo, successor del maggior Piero, papale ammanto, qui tutto è spirituale: il mondano, il temporale, il profano è impossibile che, in buona fede, si possa trovarcelo. Dante ha in mira qui l'idea cattolica, l'unità della fede e del culto, vagheggiata da lui non meno che l'unità dell' impero civile; e contro la ricca dote, e contro il confondere due reggimenti (quello di Cesare con quello di Dio) egli inveisce ogni volta che può, e cerca di poterlo spesso implicitamente, se il freno dell'arte non gli consenta di farlo esplicitamente.

L'impero di Roma fu bensì una realtà gigantesca, ma pur sempre una realtà mondana; laddove lo stabilimento della Chiesa universale fu l'attuazione d'un' altissima idea, di cui quel fatto complesso e stragrande doveva essere il preparatore. A questa ideale tutrice del vero e del santo, alla Chiesa universale, indipendente e libera, guardava Dante con amore e con riverenza questa egli voleva pura ed aliena dalle ingerenze e dalle cupidigie, che troppo sovente la contaminarono. Libera Chiesa in libero Stato ripeteva sul suo letto di morte l'uomo che più giovò all' Italia nell'ambito del reale; e del concetto medesimo si faceva banditore, fin da sei secoli a questa parte, l'uomo che più le ha giovato nello spazio sconfinato dell' idea.

E quel trascorrimento, che seguita alla terzina,

Fratelli Nistri, Tipografi Librai in Pisa.

Commento di FRANCESCO da BUTI sopra la Divina Commedia di DANTE ALLIGHIERI (letto nella Università di Pisa dal 4365 al 1440, Testo di Lingua inedito, citato dagli Accademici della Crusca el loro Vocabolario) pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa 1858-1862. Tre gr. Tomi in 8.o con Ritratto di Dante dip. da Giotto, e del Buti.. it. L. 45, 00 - Lo stesso, Edizione da Biblioteche, in 8.° massimo di carta imperiale con margini allargati (ediz. di 75 esempl.). . » 75, 00 Ediz. citata nella ristampa (che è in corso) del Vocabolario della Crusca. Si spedirà franca per posta nel Regno a chi ne rimetterà ayli Editori in Pisa l'importo con Vaglia Postale.

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TIP. GALILEIANA DI M. CELLINI B C.

alla quale il chiarissimo autore dell'articolo vorrebbe dare senso interrogativo; quel trascorrimento, della vittoria di Enea al papale ammanto, non è egli un rincalzo al concetto espresso da quella? E questo rincalzo potrebb'egli rincalzo potrebb'egli mai essere sforzato a senso d'interrogazioni, quando afferma apertissimamente un fatto; e sia pure, com'è, un fatto immaginario? Nol potrebbe assolutamente; e così nol può la terzina precedente da esso epilogata. La quale terzina, e per la sostanza del concetto, che non contempla nè poco nè punto il potere temporale, ma sì la sede apostolica, secondo la sua primitiva e verace istituzione; e per il rincalzo anzidetto, che le vien dietro; non potrebbe, a parer mio (e mi scusi il chiarissimo sig. Orlandini, assumere in buona grammatica la forma interrogativa. Non si tratta solamente d'eufonia, o com'egli dice, di durezza: si tratta di sintassi e di uso fondato in ragione, il quale vuole, nelle interrogazioni regolari, il soggetto posposto al verbo, o, se venga anteposto, un pronome pleonastico, che, succedendo al verbo, vi faccia le veci del soggetto anteposto. E qui, invece, soggetto anteposto sono due pronomi, non personali, ma relativi, senza supplemento alcuno (che già non potrebbe starvi) in coda al verbo. Mi fa poi meraviglia la citazione d'un'altra terzina del canto VI del Purgatorio, l'ultimo verso della quale :

Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? indubitatamente e correttissimamente interrogativo, dice essere l'istessa forma l'articolo, al quale io son venuto finora contradicendo. Il suo chiarissimo autore non me ne voglia male: tutti possiamo sbagliare: tutti possiamo essere tratti in errore non dalle ree soltanto, ma spesso altresì dalle nobili passioni; ed io accennava sul cominciare ch'egli forse vi fu tratto dal desiderio di sconfiggere dei già sconfitti e messi ormai al bando della pubblica opinione.

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Le associazioni per l'Italia si ricevono in Firenze alla Direzione del Giornale, alla Tipografia Galileiana di M. Cellini e C., e presso i principali Librai.

Incaricati generali per le Associazioni:

Per la Spagna e Portogallo, Sig. Verdaguer, libraio a Barcellona, Rambla del Centro;

Per il resto d'Europa: Sig. Ermanno Loescher, libraio a Torino, Via Carlo Alberto, N.° 5.

In alcuni articoli da me in questo e quel giornale pubblicati a tal uopo significai come avrei bramato che niuno degl' italiani Municipi o per tenue o per larga somma, giusta le speciali condizioni, non avesse mancato di contribuirvi, affinchè si potesse scolpire sotto al monumento con pienezza di virtù A Dante Allighieri tutti i Municipi d'Italia Ora poi mi occorre un altro pensiero, e bramo comunicarglielo proprio come nacque in mente, perchè mi sembra educativo ad un tempo ed utile all'uopo. I nostri Collegi, i nostri Convitti rimarranno indifferenti alla festa nazionale per l'Allighieri, pel più grande fra gl' Italiani? I giovani, invitati che siano, io credo, con un solo cenno dei loro superiori e maestri, si presteranno volenterosi ad una colletta fra loro; e la offerta della italiana gioventù a rendere o il monumento più ragguardevole o la festa più degna sarà preziosissima. Stimerei anche opportuno questo invito, perchè la gioventù nostra generosa non avesse poi a dolersi, credendo quasi di essere dimenticata. Gli argomenti che possono rendere accettevole tale proposta ella e tutti coloro che per tante guise intendono ad accrescere lo splendore del Centenario Dantesco, possono ed apprezzarli assai meglio di me, e più eloquentemente esporli.

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1267. (Agosto). Venuta di re Carlo in Toscana. Guerra contro Siena.

Corradino figliuolo di Corrado IV di Svevia, risoluto di non lasciare il trono di Puglia a Carlo d'Angiò suo nemico, scende in Italia con 40,000 soldati in sul finire di quest'anno. 1268. (23 di Agosto). Battaglia di Tagliacozzo tra Carlo d'Angiò e Corradino, il quale fu preso prigione e poscia decollato a Napoli a' 29 di Ottobre; pria di morire l'infelice giovanetto gittò dal palco il suo guanto, che fu recato a Costanza figliuola di Manfredi e sposa di Pietro re di Aragona. Questi due fatti accaduti nella puerizia di Dante sono da lui ricordati ne' Canti XXVIII dell' Inferno e XX del Purgatorio.

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Volgarizzamento de' Trattati Morali di Albertano Giudice da Brescia fatto da ser Soffredi del Grazia notajo Pistojese.

Testamento in lingua volgare di Beatrice con-
tessa di Capraja, vedova del Conte Marcovaldo
di Dovadola.

Fontana grande in Perugia. I rilievi sono di
Giovanni Pisano e di Arnolfo Le figure di
bronzo e la conca furouo fuse da maestro
Rosso.

Giovanni Pisano comincia il Camposanto di Pisa.
(18 di Ottobre). Si mette la prima pietra della
Chiesa di Santa Maria Movella de' PP. Dome-
nicani di Firenze. Gli architetti ne furono fra
Ristoro da Campi, fra Sisto e fra Giovanni.
Secondo il Vasari l'opera restò finita nel corso
di settant'anni.

1279. Firenze richiama i Ghibellini e fa loro prender parte nel governo, cessate la signoria e vicaria di re Carlo.

1282. (30 o 31 di Marzo). Al tocco di vespro il popolo di Palermo caccia gli Angioini divenuti intolleranti in Sicilia per tirannie, crudeltà, ruberie e libidini; per lo che Dante fa dire a Carlo Martello nel canto VIII del Paradiso :

Se mala signoria, che sempre accuora
Li popoli soggetti, non avesse
Mosso Palermo a gridar: Mora, mora.

>> Si ammettono al governo in Firenze i popolani, che fino allora non ne avevano preso parte alcuna; i grandi però che volevano esservi ammessi dovevano essere ascritti ad una delle arti. Fiorisce Sordello mantovano, cavaliere e uomo di grande autorità, valoroso poeta in lingua

»

:

provenzale (Dante, Purg. Canto IV e VII). Nella difesa di Dante, Giulio Perticari dà un racconto provenzale della vita di Sordello, e una poesia dello stesso (serventese) in romano provenzale.

1282. Cronica fiorentina di Ricordano Malespini. 1284. (5 di Giugno). Vittoria navale di Ruggeri di Loria, ammiraglio del re Petro, sulla flotta di re Carlo alla vista di Napoli. (6 di Agosto). Vittoria navale de' Genovesi su' Pisani alla Meloria. Questa sconfitta de' Pisani comincia il periodo della decadenza della loro republica.

«

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Fiorisce Dino da Mugello celebre legista.

Giovanni Pisano lavora nel duomo di Siena. 1285. (7 di Gennaio). Muore Carlo I re di Napoli. Tabernacolo in S. Paolo fuori le mura presso Roma, opera di Arnolfo (di Lapo?) e di Piero. Logga di Orsanmichele in Firenze.

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Dimmi se i Romagnoli han pace o guerra,
Ch'io fui de'monti là intra Urbino

E il giogo di che Tever si disserra.

Dante allora, cui Virgilio dà di gomito susurrandogli all'orecchio « parla tu, questi è latino », prontamente risponde alla domanda di quello spirito romagnuolo, il quale si manifesta per Guido da Montefeltro, e vergognando confessa la sua colpa.

È questo il sunto del Canto XXVI e del principio del Canto XXVII dell' Inferno, ne'quali i Commentatori, più o meno attenendosi alla glossa di cui il Venturi fu l'Amerigo Vespucci, se non il Cristoforo Colombo, s' ingegnano di attribuire al raffronto della grandezza e celebrità dei re d'Itaca e d'Etolia coll'umile ed oscura persona dell'Allighieri il sospetto, concepito ed espresso da Virgilio, che quei superbi greci potessero essere schivi del detto del suo discepolo; come, a spiegare e giustificare l'issa ten va più non t'aizzo, usato da Virgilio per licenziare la fiamma da cui sono fasciati gli spiriti de'suddetti achei Capitani, si contentano della citazione dei versi del Canto I dell' Inferno, laddove lo stesso Virgilio dice di sè:

E li parenti miei furon lombardi,
E mantovani per patria ambidui

Ma se della prima di suddette spiegazioni mal sa appagarsi chi rifletta che Virgilio, onde sottrarre ad una specie di umiliazione il discepolo da lui amato quasi figliuolo, avrebbe potuto facilmente procacciargli la stima e la grazia dei due re greci, come già avevagli procacciata quella del Signore dell'altissimo canto e della sua bella scuola; tanto meno può starsi pago della spiegazione seconda chi avverta quanto strano, incoerente e ridicolo sia il supposto che il cantore di Enea, per favellare con eroi celebrati dalle maggiori muse di Grecia, si valesse del lin

guaggio lombardo parlato dal volgo nel 1300, quand'anche per lombardo si volesse intendere italiano.

Gli studiosi o, a dir meglio, i domestici della Divina Commedia, ai quali non è sfuggita l'osservazione che Dante, fin che ha per iscorta Virgilio, conversa soltanto con anime di suoi contemporanei e tutti italiani: meno Ugo Ciapetta, Stazio e Arnaldo Daniello trovano semplice, naturale, e quasi necessario, così all'effetto drammatico come al fine politico del poema, che in bocca di lui suoni la lingua che era viva nel popolo dell'età sua; ma trovano del pari semplice, naturale e convenientissimo che Virgilio, cui è principalmente assegnata nel poema stesso la parte d'interlocutore coi personaggi più distinti per fama o per antichità venerandi, usi la nobile favella del Lazio, detta pur nostra nei Canti VII dell' Inferno e XVIII del Paradiso, e tuttavia comune alla gente non rozza del secolo XIII. Anzi l'accennata diversità di loquela tra Marone e Allighieri chiaramente apparisce in più luoghi, sì della prima che della seconda Cantica; poichè se, ne' continui dialoghi che hanno tra loro i due poeti, anche Virgilio adoperasse il volgare che Dante adopera perchè conscio di essere bene inteso da quel savio che tutto seppe riescirebbe inesplicabile il motivo per cui gli spiriti lombardi, romagnoli o toschi, novelli abitatori del mondo senza fine amaro e del monte che le anime cura, ascoltando quei dialoghi, si facciano ad interrogare il solo Dante intorno alle condizioni dei luoghi e degli uomini lasciati di recente, e lui solo riconoscano per concittadino, come, a mo' d'esempio, Farinata degli Uberti e Catalano de Catalani, nei Canti X e XXIII dell' Inferno.

Altra osservazione, non meno sottile della precedente di cui può dirsi corollario, vien fatta dagli scrutatori del divino Poema, ed è che Dante entra bensì in discorso con Arnaldo Daniello, non italiano, e con Ugo Ciapetta e Stazio, nè italiani nè del suo secolo; ma coi Greci tutti, che incontra visitando i regni del fallire, si sta sempre silenzioso, e a quelli stessi che a lui volgono il parlare per punta, non pur per taglio, quali sono Minos, Flegias, Nesso, Chirone e Capaneo, nei Canti V, VIII, XII, e XIV dell'Inferno, il buon Virgilio è sollecito a dar risposta in sua vece. Quindi non illogicamente deducono aver Dante parJato con Stazio, Ciapetta ed Arnaldo per la perfetta

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Seguendo ora la strada aperta e segnata dalle cose notate sin qui, agevolmente e direttamente si giunge alla conclusione che soltanto da quell' imperizia, se non ignoranza, di Dante nella greca favella, derivi vella, derivi piuttosto che da altra fonte qualunque la cagione per cui Virgilio tronca, direi quasi, sul labbro del suo discepolo l' interrogazione che il desiderio e l'impazienza stanno per fargli dirigere alle ombre dell'avventuroso figlio di Laerte e al Tidide, anche prima di averle vicine; e che perciò il concetto de' versi, di già citati sull'esordire dello scritto presente :

Fa che la tua lingua si sostegna,
Lascia parlare a me ec.

ridotto in frasi più esplicite e più dimesse, sarebbe: << Bada di star zitto, lascia che io faccia per te la « domanda che desideri, giacchè quei due che sono « dentro ad un foco, siccome greci di nazione, sdegne<< rebbero forse del pari, tanto il tuo ignobile lin«guaggio materno, quanto il loro idioma medesimo « non bene parlato ».

Ma, si opporrà se in luogo del poeta fiorentino, perchè non valente grecista, quella fiamma antica è apostrofata dal poeta mantovano, come mai può darsi che questi adoperi poi, per ciò fare, non già il greco, ma sibbene il lombardo, congedandola colle parole udite da Guido di Montefeltro: issa ten va, più non t'aizzo?

Guido, rispondo, giunge là dove sono i poeti soltanto dopo che la fiamma animata da Ulisse e Diomede si è di già mossa per proseguire il suo cammino, come dice il primo terzetto dello stesso canto XXVII :

Già era dritta in su la fiamma e quela

Per non dir più, e già da noi sen gia
Colla licenza del dolce poeta,

Quando un'altra che dietro a lei venia

Ne fece volger gli occhi alla sua cima ec.

L'accorto consigliere di papa Bonifazio non può quindi afferrare fuorchè alla sfuggita le parole colle quali è espressa la licenza del dolce poeta; ma quand'anche suppongasi giunto in tempo da sentirle proferire ben spiccate e distinte, non è punto da meravigliare ch'egli, prendendo equivoco, le scambi con voci di lingua assai diversa, quando l'orecchio il più squisitamente sensibile e delicato può, con somma facilità, essere ingannato dalla somiglianza perfetta e direi quasi identità di suono della locuzione lombarda: issa ten va, più non t'aizzo, colla greca : εἶσα· αῦτ' ἔμβα, ἐπεί οὖν οὔτ ̓ ἀίσω

Isa; aut'emvà, epì un ut aíso, frase che Virgilio deve impiegare, quasi di necessità,

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