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per dire ad Ulisse, accomiatandolo - nè può dirgli | della religione, e per la felicità della patria comune.

altra cosa Seppi (ciò che volevo) ripiglia il tuo cammino, chè ormai non più ascollerd.

Stando adunque all' interpretazione da me proposta, questa medesima singolarissima omofonia de' vocaboli greci e lombardi, che pure singolarmente concordano per significato, svelerebbe un nuovo artifizio drammatico, un modo pur nuovo e pieno d'evidenza immaginato dall'Autore della Divina Commedia per introdurre sulla scena il personaggio di Guido e per farsi strada ad una rassegna cupamente severa dei tirannelli che signoreggiavano, al suo tempo, le città di Romagna. Stando invece alla vecchia interpretazione del P. Venturi e soci, si cade inevitabilmente, come già di sopra notammo, nello sconcio e nel ridicolo se non in peggio di prestare al Poeta più elegante e più puro del secolo d'Augusto l'eloquio plebeo del medio evo.

Egli è perciò che, per quanto la mia nuova chiosa possa parere, a prima giunta, bizzarra ed anche eccentrica, come oggi dicono, pure non mi pèrito di sottometterla alla disamina degli esperti e zelanti cultori degli studj danteschi, pregandoli a giudicare e pronunziare, con tutta libertà e schiettezza, se in alcun vero il mio arco percuota o, se quantunque mosso in traccia del vero, io meriti che mi si ricordi il dettato del nostro Poeta :

Vieppiù che indarno da riva si parte,

Perchè non torna tal qual ei si muove,
Chi pesca per lo vero e non ha l'arte.
Pisa, 6 Giugno 1864

G. BARATTA.

DI UN PASSO DEL CANTO 2.o DELL'INFERNO.

Signor Direttore,

Prego la sua gentilezza a concedermi nuovamente un breve spazio del suo periodico, affinchè io possa rispondere alcuna cosa a quegli onorevoli letterati, i quali rifiutano la mia proposta di porre un interrogativo all'ultimo verso della ottava terzina del secondo Canto dell' Inferno. Non intendo con ciò di dar pascolo a lunghe e ringhiose polemiche, le quali l'animo mio aborre, ma di schiarire viemeglio le ragioni che m'indussero a fare quella proposta ; ragioni il cui valore, dico il vero, non ha potuto essere scemato in me dagli argomenti e dalle erudite citazioni de'miei dotti oppositori. E questo io faccio tanto più volentieri e lietamente, in quanto che nissuno di quei rispettabili uomini si professa sostenitore del dominio temporale dei romani Pontefici; anzi tutti si mostrano fautori della contraria sentenza, per il bene

In questo principio fondamentale adunque eglino sono perfettamente d'accordo meco: ove altrimenti fosse, ella non avrebbe la briga di leggere questo mio foglio. Ma trattandosi d'intendere a dovere un passo d'un Autore che scriveva in Italia poco meno che seicento anni fa, quando tuttavia ferveva la lotta fra il sacerdozio e l'impero, quando Bonifazio VIII apriva le ecclesiastiche ceremonie vestito del manto cesareo; trattandosi d' intendere a dovere un passo di tale Autore, che primo si proponeva di chiarire presso gl' Italiani col suo Poema le idee offuscate dalla ignoranza o dalle passioni circa alla confusione dei due poteri, dobbiamo noi interpretare un tal passo, come suol dirsi, alla spiccia, secondo le nostre presenti convinzioni, e affermare perentoriamente va inteso così, o non piuttosto esaminare i tempi, le circostanze, le opinioni e le passioni dell'Autore e degli uomini che vivevano quando egli scriveva? Mi pare che questo sia un canone di logica, al quale non possiamo contradire. Il mondo ha fatto un gran cammino d'allora in poi, e ciò che allora poteva formar soggetto di sincere convinzioni in molti o per ignoranza o per mal inteso zelo di religione, non può esser più soggetto di dubbio per noi. Niuno difatti, ai nostri giorni, stima necessaria ai pontefici la signoria temporale, se ha buono intelletto e buona fede. Ma era così quando Dante promulgava la separazione dei due poteri? Io certamente non lo credo.

In che, in ultima analisi, consistevano le due teorie fondamentali dei Ghibellini e dei Guelfi, quantunque dei primi niuno avesse saputo formularla prima di Dante? In questo: i primi volevano che esistesse l'impero, unico signore dell'amministrazione temporale', ma non negavano al pontefice la preminenza, o piuttosto il concentramento in lui di tutta l'autorità spirituale; anzi per questa parte, come si rileva da un passo che trovasi verso la fine del libro della Monarchia, e che è citato da alcuno de'miei oppositori, Dante stesso consente che in alcuna cosa il principe romano sia al romano pontefice soggetto. I Guelfi volevano che l'impero non esistesse, o che esistesse soltanto di nome, ma in ogni caso sempre lungi dall'Italia, e in guisa che fosse al servigio della santa sede, non tanto nelle materie spirituali, quanto nelle temporali; ed ognuno sa a che punto su tal proposito le cose pervennero quando i papi fecero e disfecero i re a loro senno.

Or bene; questi due diversi principj dei Ghibellini e dei Guelfi sono, a parer mio, toccati nelle due terzine ottava e nona del Canto II dell' Inferno con quella disinvoltura e maestria che mi sembra di aver notate nel mio primo articolo. La dottrina guelfa è evidentemente accennata nella ottava, e più preci

samente nelle parole fur stabiliti per lo loco santo, ec.: quella ghibellina, coerente alla filosofia della storia seguita dall'Alighieri, nella nona, e particolarmente nelle parole furon cagione di sua vittoria, e del papale ammanto. Circa alla prima, come non hanno posto mente i miei oppositori alla forza di quella particella PER che denota in servigio, nel che tutto consiste il cardine delle pretensioni papali? Come non hanno egualmente pensato, che quella congiunzione E, oltre ad essere storica, è anche filosoficamente e speculativamente vera, vale a dire che dalla poetica discesa d' Enea all' Inferno derivò l'impero e il papato, senza però che possa e debba inferirsene subjezione temporale del primo al secondo? Come, in conseguenza, si sono potuti tutti accordare a dire, che, secondo la volgata, non vedono contradizione fra questo ed altri passi di Dante, e che qui la cosa, va intesa, nè può intendersi altrimenti che in senso affatto spirituale?

Ma non tanto chiara ed evidente trovarono tale interpretazione i più antichi commentatori, i quali, appunto per essere più vicini al Poeta, debbono essere da noi giudicati più fedeli relatori delle opinioni di quei tempi. In fatto di estetica dantesca è probabile che noi vediamo più di loro; ma circa certe idee, che sono come un eco del modo di pensare del secolo in cui il Poeta visse, eglino hanno per me grandissima autorità.

Odasi il buon Boccaccio nel commento alle suddette terzine la quale.... e il quale.... fur stabiliti.... per evidenzia da Dio per lo loco santo, cioè per la sede appostolica, u siede.... il papa. E che questo fosse preveduto e ordinato da Dio, appare nelle cose seguite poi, fra le quali sappiamo Costantino imperatore.... lasciò Roma e la imperial sede al papa, e andossene a Costantinopoli: e oltre a questo, ordinò e fe i suoi successori sempre colla loro potenza esser presti contro a ciascheduno, il quale infestasse o turbasse la quiete della Chiesa di Dio e de' pastori di quella. Perchè merilamente dice l'autore essere stabiliti e Roma e lo Imperio per lo santo luogo dell'appostolica sede. - Vedano qui i miei onorevoli oppositori la dottrina guelfa pura promulgata da un quasi coetaneo di Dante; e vedano, se ammessa tale interpretazione al noto passo controverso, secondo il comun modo di leggerlo, vi abbia contradizione fra esso e cento altri luoghi di Dante. Certo nasce in noi la curiosità d'indagare come il buon Boccaccio, se fosse vissuto più a lungo, avrebbe messo d'accordo questa sua interpretazione con tutti gli altri tratti ove il testo canta chiaro contro le dottrine guelfe.

Il Landino e il Vellutello commentano quel passaggio pure alla guelfa, ma non si compromettono tanto contro i Ghibellini.

L'autore dell'ottimo Commento, dopo avere spiegato come dalla discesa d'Enea nacque l'universale monarchia e principato del mondo, ripiglia: L'altra questione.... Ma qui siamo avvertiti che il ms. è mancante, sicchè restiamo all'oscuro di quanto egli pensasse circa a quello che a noi importa.

Mi passo di ciò che notino Benvenuto da Imola, ossia Jacopo della Lana, e Francesco da Buti, i quali più o meno guelfamente commentano quelle terzine... Non posso peraltro tacere circa al primo, che egli illustrando in seguito il verso del Purgatorio « Vieni a veder la tua Roma che piagne », ci regala una chiosa veramente di squisito sapore. Tua, egli dice, perchè ivi s'incoronava il re dei Romani; CESARE MIO PROTETTORE. Imitabile modello per la Civiltà Cattolica, l'Armonia e compagni !

Tra tanti chiosatori guelfi o guelfeggianti, il solo che i posteri potrebbero consultare con profitto è quello conosciuto sotto l'appellativo di falso Boccaccio, unico commentatore ghibellino, e che fu pubblicato, non sono molti anni, per cura di Lord Wernon. Ma egli apparecchia ai lettori una burla anco più spiritosa di quella dell'ottimo Commento; poichè, dopo aver illustrato la storia di Enea e di Lavinia, dice: di loro dovea disciendere lo 'mperio di Roma e del mondo, e così fu. Impero che per loro disciendenti fu edifichata Roma el suo imperio, il quale signoreggiò tutto il mondo.

E qui tira giù il sipario, nè dice verbo della teoria guelfa, o che si trovasse imbrogliato, o qual' altra ne fosse la cagione. E il diligentissimo Nannucci, che primo stampò il ms., tace anch'egli su questo particolare, e ci lascia al buio.

Ora dall'esame di questi antichi commentatori, e di altri che potrei aggiugnere, ma me ne astengo per evitare la sazietà, per lo meno resulta chiaro che il luogo controverso, come comunemente si legge, fu inteso dai più antichi nel senso guelfo mi sarebbe facile aggiungere l'autorità di altri commentatori più vicini a noi, che di questo tratto si fecero arme per sostenere la signoria temporale dei papi; ma, a dire il vero, mi par tempo sprecato. Ho risposto queste cose a' miei onorevoli oppositori per tentare di convincerli, che senza quell' interrogativo da me proposto, il tante volte citato passo non è limpido com'essi s'immaginano, e che il lume che essi vedono non viene da quel tratto del divino Poeta, ma sì dal sapere che hanno nell'intelletto, e dall'animo loro franco delle passioni di parte.

Dichiaro peraltro che non tornerò più a stancare gli altri e me stesso su questo soggetto. Intanto ella, signor Direttore, mi creda

F. S. ORLANDINI.

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Come dall'Allighieri così è scolpito l' Epico greco colla spada in mano in una sua famosa apoteosi, antico rilievo che si trova nella biblioteca dei Colonna in Roma. Omero, checchè vada fantasticando con abuso d'ingegno e di erudizione il Vico, dotto ma sistematico, fu persona vera, fu veramente un singolo uomo, dal quale cantati furono e l'ira del Pelide Achille e le peregrinazioni di Ulisse, non che le battaglie tra le rane e i topi, satira fierissima (come parve) delle guerricciuole tra'piccoli e gelosi stati della sua nazione. Accenna Erodoto anche ad un poema sulla guerra di Tebe: questa fu forse una tra le consuete rapine del tempo. Preceduto dai poeti Orfeo, Lino e Museo fiorì, al dire del Barthelemy, quattro secoli dopo la presa di Troja. Varie città con bella emulazione si contrastarono la gloria de suoi natali, giustizia postuma: però che in vita ebbe sorte non dissimile da quella del Tasso e di Camoens; costretto a mendicar per la Grecia, com'ei fosse straniero, pane ed asilo. E fu ventura per Ctefilo di Samo, l'averlo ospitato: l'atto cortese ha reso immortale l'oscuro nome di costui. Solone prescrisse ai suoi rapsodi di attenersi nei racconti all' ordine tenuto da Omero; in tanta estimazione era appo il sapiente il poeta. Licurgo trascrisse i due poemi maggiori, ne fece dono alla sua Lacedemone, e così meglio furono noti alla Grecia; ed imparò preziose lezioni di saggezza in quelle poesie che per menti grossolane erano alimento a sterile e puerile curiosità. Dipoi a questa giustizia che il gran legislatore gli rese, testimone Strabone, più d'una città gli eresse altari, e que' d' Argo ne' riti religiosi lo invocavano ed inviavano a Chio chi sacrificasse in onor suo. Ed Alessandro si tenne povero tra tante e splendide conquiste, perchè mancava un Omero a celebrarlo, come aveva questi fatto di Achille.

perchè forse di quei tempi le menti, alquanto grosse, erano più al caso di apprezzare i sali e la morale delle satire, che la finezza e le grazie liriche del Venosino. Nacque. in Venosa di padre liberto e povero, console Lucio M. Torquato; pure il genitore dei prodotti del magro campicello fece uso ad educarlo appo maestri di conto; ai quali egli stesso, custode incorrotto, lo conduceva. Grato fu Orazio alle cure paterne, e se ne tenne di esser nato da poveri ma benigni genitori. I Greci esemplari, massime Omero, prediletto e primo rudimento furono di quell' animo sveglio, e per tempo carezzato dalle Muse; e belle e nuove armonie ei trasse da tutti i lirici greci, e cantò le amorose fantasie, le allegrezze dei conviti, le caste amicizie, i riti religiosi, la severa morale degli antichi Romani, le glorie dei contemporanei; qualche volta carezzatore dei grandi, ma grandi erano, e se adulò, pur senza gravi ammaestramenti nol fece. Da' boschetti d'Academo, ove applicava l'animo alla filosofia, fu dalla guerra civile balestrato in mezzo alle battaglie; ma pare che Marte non fosse benigno al tribuno come Apollo era al poeta. Sottrattosi ai pericoli della guerra, corse rischio di essere sommerso presso il capo di Palinuro. Nuovo pericolo dipoi incontrò nelle strettezze a cui ridotto l'aveva la disfatta di Bruto per cui parteggiò. Ma Vario, Plozio e Virgilio, anime candide, seppero far conto del suo ingegno e lo acconciarono presso Mecenate che l'onorò della sua amicizia, e benignamente risguardarono ai suoi versi Tiberio Claudio, ed Augusto. Mecenate lo donò della villetta sabina, e del feudo su cui questa giaceva, luogo dolce ed ameno da lui cantato vivere beatissimo

Il suo ingegno festivo, il cuore aperto, oltre agli amici detti di sopra, gli guadagnarono e Pollione e Messala, e il delicato poeta Tibullo ed altri. Folleggiando giovinetto nel gregge di Epicuro, natura età pare applicasse l'animo a più severa filosofia. Egli era pronto all' ira, ma placabile, parco di parole, mingherlino, lippo e canuto sul dinanzi, sebbene morisse a soli 57 anni. Fu sepolto nell' Esquilio presso Mecenate, venuto a mancare nell'anno stesso.

Orazio.

L'altro è Orazio satiro.... (Inf., c. IV).

Il poeta lo chiama satiro per satirico, a modo dei Latini; denominazione datagli nel medio evo

Ovidio.

Ovidio è il terzo, e l'ultimo è Lucano.
(Inf., c. IV).

Ovidio nacque in Sulmona l'anno 709 di Roma, studiò l'arte. oratoria sotto Aurelio Fusco, e vi si fece onore; pure la natura lo chiamava a far versi, che dalla fantasia come da viva fonte sgorgavano. Il padre vecchio ed ambizioso mal comportava che le Muse lo rimovessero dalla via luminosa degl' im

pieghi preparata dalla eloquenza. Il giovinetto compiacente s' ingegnò di contentare il buon vecchio; ma natura la vinse sovra ogni rispetto, e la prosa veniva sempre con piedi e numeri. Egli era tutto fuoco nel comporre, ma sciaguratamente tutto ghiaccio nel correggere; quindi serio e temperato e soverchiamente diffuso; il perchè la sua poesia, ricca quanto è d'immagini e di affetti, è alquanto minuziosa nelle descrizioni, snervata nello stile. La sua opera maggiore sono le Metamorfosi. Rilegato a Tomi sul Ponto Eussino (la vera causa è un problema), all'udire sentenza così severa le gittò nel fuoco; ventura grande per le lettere che ne circolassero altre copie. Scrisse pure i riti religiosi di Roma, opera della quale ci resta la sola metà; la Medea tragedia irreparabilmente perduta, ma che lasciò vivo desiderio di sè; l'Eroidi, meste elegie non povere di eleganza e ricche di affetto; certi libercoli osceni che forse ebbero molta parte ai suoi mali; ed i Tristi ei libri de Ponto, nei quali deplora la lontananza dai suoi e dal delicato clima della sua patria, il freddo intenso del suo luogo di esilio e la vicinanza dei popoli feroci, che sempre azzuffandosi lo spaventavano. Non fu pazienza o adulazione che bastasse a placare Augusto ed il suo successore: furono inesorabili, e neanche alle sue ceneri, come aveva chiesto, fu dato di tornare a Roma. Morì in Tomi presso agli anni 60, dopo nove o dieci di esilio insopportabili.

Dichiarazione del verso

ma chi n'ha colpa ereda

Che vendetta di Dio non teme suppe.
Purg. XXXIII, 36.

Signor Direttore,

L. N.

Prego VS. di stampar questa che è brevissima. Io raccomando da molto tempo, e sempre in vano, la ristampa del Commento Laneo edito dal Vindelino

Fratelli Nistri, Tipografi Librai in Pisa.

Commento di FRANCESCO da BUTI sopra la Divina Commedia di DANTE ALLIGHIERI (letto nella Università di Pisa dal 1365 al 1440, Testo di Lingua inedito, citato dagli Accademici della Crusca nel loro Vocabolario) pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa 1858-1862. Tre gr. Tomi in 8.° con Ritratto di Dante dip. da Giotto, e del Buti.. it. L. 45, 00 - Lo stesso, Edizione da Biblioteche, in 8. massimo di carta imperiale con margini allargati (ediz. di 75 esempl.). » 75, 00

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nel 1477. Vi ho lavorato attorno molti anni, e non ho finito; poichè nessuno vuole darmi per ciò i suoi torchi, io ho agio a compiere i fatti miei.

Errano Landino, e quelli citati a col. 2, pag. 75 del suo Centenario spiegatori di un' usanza fiorentina. L'usanza non la trovate in nessuno storico nostro, ma è di Grecia. Il mio scopo è il Lana: or ecco più giusta la notizia.

«Ma chi n' ha colpa. - Qui intromette una usanza « ch'era anticamente nelle parti di Grecia in questo << modo che se uno uccidea un altro elli potea an<< dare nove di continui a mangiare una zuppa suso << la sepoltura del defunto; nè 'l comune, nè parenti << del morto non faceano più alcuna vendetta. Ora « vuole dire l'autore che perchè li mali pastori e li << stupratori della Chiesa continuano per molto tempo «lo peccato e la colpa, che la vendetta di Dio non << teme suppe; ciò è: non perdona s'ella non com<< misura cotanta pena quanta s'avviene alla colpa

« commessa ».

Noto qui che in tutto il Commento più volte avviene che il Lana riferendo spiegazioni afferma averle avute dall'autore istesso, ond' io prèdico sempre che codesto è Commento più prezioso che altri mai. Spero che il Borghini del Fanfani dia conto anch'esso di quest'Opera di cui già vi feci parola. Volete onorar Dante? Ristampate (riveduto) il commento fatto dal

suo amico.

Milano, 2 Maggio 1864.

LUCIANO SCARABELLI.

Avvertenza.

Si pregano i Signori Associati al GIORNALE DEL CENTENARIO a sodisfare il pagamento della prima rata di Associazione, che scade nel corrente mese.

ISI

LA DIVINA COMMEDIA

DI

DANTE ALIGHIERI

MANOSCRITTA DA G. BOCCACCIO
Roveta, negli occhi santi di Bice MDCCCXX.
Volumi Tre.

Deposito generale in Firenze, presso PAPINI e C., successori PIATTI, Via Vacchereccia.

Si spedisce franco per il Regno, mediante Vaglia postale

di Ln. 9.

Gli articoli letterari di questo Giornale non si potranno riprodurre senza licenza della Direzione.

G. CORSINI Direttore-Gerente.

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All' appello di Firenze, plaudente Europa dalle sue cento cattedre dantesche, tutti i paesi d'Italia risposero, e s' apprestano già a commemorare il dì natalizio dell' universale civilizzatore, del grande intelletto, del magnanimo cittadino, tributo di riconoscenza dei Comuni italiani, dal fascio dei quali egli voleva scaturisse la potenza unificatrice della sua patria.

Centesi! sempre dei primi ad onorare i sapienti, i magnanimi, i benemeriti, concorrete anche a quest' opera; e ne andrete superbi il dì sacro destinato forse a giubbileo della Nazione, se Ravenna, illustre già per essere tutta intera un monumento di tempi antichissimi, con sacrificio ineffabilmente gran-. de restituirà a Firenze le ceneri di DANTE, che redente dal durissimo esiglio riposeranno nel bel S. Giovanni; esaudito il voto del Vate dell' umanità, e vinta

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