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Medaglia commemorativa del Centenario. C. MILANESI e L. PASSERINI. Parte non officiale. Studi danteschi. - Dante e le belle arti. Prof. FERRAZZI. Lezioni sulle condizioni morali e politiche d'Italia, ec. T. Z. SAIANI. - Commento mitologico. L. N. Notizie. - Avvisi.

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Le associazioni per l'Italia si ricevono in Firenze alla Direzione del Giornale, alla Tipografia Galileiana di M. Cellini e C., e presso i principali Librai.

Incaricati generali per le Associazioni:

Per la Spagna e Portogallo, Sig. Verdaguer, libraio a Barcellona, Rambla del Centro;

Per il resto d' Europa: Sig. Ermanno Loescher, libraio a Torino, Via Carlo Alberto, N.° 5.

LETTERA AL MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE SUL PIÙ AUTENTICO RITRATTO DI DANTE.

Onorevole signor Ministro.

Non si potrà giammai lodare abbastanza la bella deliberazione presa da cotesto ministero di volere, mediante una medaglia, perpetuare la memoria del giorno nel quale tutta Italia celebrerà il natalizio del suo maggior Poeta e noi mentre, al pari d'ogni buon italiano, ne siamo lietissimi, ci riputiamo a grande onore d'essere stati richiesti di dire il nostro parere intorno al più autentico ritratto che oggi si abbia o si conosca dell' Allighieri. Ma per corrispondere più convenientemente, e nel miglior modo che per noi si possa, al commessoci incarico, che ben volentieri e di tutto cuore accettiamo, bisogna che ci addentriamo colla maggior considerazione e colla più scrupolosa critica in somigliante argomento.

Scrissero Filippo Villani, Giannozzo Manetti, ed in ultimo luogo il Vasari, che Giotto ritrasse Dante nella cappella del Palagio del Potestà di Firenze, insieme con Corso Donati e ser Brunetto Latini: e questi ritratti, stati per

lunghissimi anni nascosti insieme colle altre pitture, fu

rono nel 1841 scoperti, e restaurati, come ora si vede, dal professore Antonio Marini. Noi non porremo in dubbio che veramente in quel luogo sia tra gli altri il ritratto del Poeta, ma neghiamo ricisamente che esso sia stato dipinto dalla mano di Giotto: ed a questo ci conducono

* par considerazioni; l'una rispetto al tempo in vuc e dipinto quel ritratto; l'altra rispetto al luogo. Quero al tempo, se noi riguardiamo alla età che mostra Da ile, ei pare che non possa essere maggiore di 25 anni; almeno oggi apparisce cosi. Ora essendo il Poeta nato nel 1265, il suo venticinquesimo anno cadeva nel 1290; quando, cioè, Giotto nato nel 1276 toccava appena i suoi quindici anni, età troppo tenera per credere che a lui fosse commesso e non al suo maestro, o ad altri artefici più risoluti nell'arte e più noti, di dipingere nel più augusto e nobile edifizio che avesse allora Firenze.

Qualora poi si volesse che non nel 1290, ma tra il 1303 ed il 4320 Giotto dipingesse quel ritratto (ritenendo che nella sua prima e vera forma rappresentasse il Poeta più attempato, e che se oggi ce lo mostra cosi giovane, se ne debba accagionare il restauro fattone dal Marini, quando esso era assai guasto, mancante dell'occhio bucato da un arpione e stracciato nella guancia; come si rico. nosce benissimo dalla cromolitografia cavata sul calco fatto sopra il ritratto appena fu scoperto), nascono allora altre difficoltà; le quali sono: che giammai l'artefice avrebbe potuto dipingere, in compagnia dell'Allighieri, quel Corso Donati che fu capo della parte Nera, e senza forse principale cagione della condanna e dell'esilio del Poeta; e che nel palazzo, residenza e tribunale del potestà, e dove Cante dei Gabbrielli aveva nel 1303 profferita la sentenza che condannava Dante al fuoco, si dipingesse la immagine sua con quella del Donati, la cui memoria era allora odiosa alla città; e se pure dipinta, non fosse tosto cancellata. Non nella cappella di quel palazzo, ma si bene sulla sua facciata si dipingevano per ignominia i ribelli e i traditori del Comune; e questo era il luogo che la ferocia della fazione nemica e vincitrice avrebbe destinato all' immagine del grande ed infelice Poeta.

Pure vogliamo per poco concedere che questo ritratto, nonostante le ragioni da noi addotte in contrario, sia stato dipinto da Giotto, non nel 1290, ma dopo il 1321, quando già morto l'Allighieri, all'odio delle fazioni nemiche successe l'ammirazione dei suoi concittadini: ma allora bisogna dire che esso, insieme colle altre pitture che ornavano quella cappella, andasse in tutto perduto nel furioso incendio che ai 28 di febbraio del 1332 guasto in modo il palagio del potestà, che si dovette 'rifarlo dai fondamenti il qual lavoro, per varie cagioni, e tra le altre per il nuovo incendio patito nella cacciata del duca di Atene, solo dopo il 1345 ebbe il suo compimento. È forza dunque il concludere che le pitture le quali anche oggi si vedono nella cappella del palazzo pretorio, e per conseguente il ritratto del Poeta e degli altri, siano posteriori all'anno suddetto. Infatti il tempo loro è accertato dall'arme dipinta ai piedi della figura orante del potestà che le fece fare; e questa appartiene a messer Tedice dei Fieschi da Genova, il quale tenne quell'officio in Firenze per un anno, cominciato il di 31 ottobre 1358: onde ne segue che Giotto, morto fino dal 1336, non poté essere il pittore chiamato a condurre quell'opera. A nostro avviso esso é lavoro di Taddeo Gaddi, il più amato e il più valente tra i suoi discepoli; e c' induce in questa opinione il fatto che, essendo eletto questo insigne artefice a dipingere nella cappella dei Rinuccini nella sagrestia di S. Croce

alcuni fatti della vita di S. Maria Maddalena, si servi della quasi medesima composizione che aveva usato nella cappella del potestà, dipingendovi istorie di quella santa: il che egli non avrebbe certamente fatto, se questi affreschi fossero stati opera d'altri. E il Gaddi potè ritrarvi l'Allighieri, la cui fama di gran poeta avea fatto scordare le ire cittadine di una ingratissima patria, che già ne aveva restituita la memoria cancellando le sue diverse condanne: e poté, forse, servirsi in questo dei disegni di Giotto, il quale doveva avere conservate tra i suoi ricordi le sembianze dell'amico poeta. Si può anche credere che da questi ricordi traesse il Gaddi il ritratto di Dante che, insieme con Guido Cavalcanti, dipinse a fresco nel tramezzo di S. Croce, non parendo ch'egli avesse potuto conoscere di persona l'Allighieri: il qual ritratto, perito per la demolizione del tramezzo fatta dal Vasari nel 4566, servi d'esempio a quanti antichi pittori ebbero a rappre sentare il Poeta. Tantochè, se tuttora esistesse, noi anteporremmo senza dubbio questo ad ogni altro: non eccettuando quello della cappella pretoria per le ragioni già dette.

Ma non potendo aver quello del Gaddi in S. Croce, fa di mestieri esaminare se, ed in qual modo, vi si possa supplire.

Non pochi ritratti di Dante restano ancora in Firenze, tutti del secolo XV; alcuni in miniature, altri a fresco o a tempera. Il codice 320 della già Palatina ne ha uno toccato in penna e lumeggiato con bistro; ma esso è evidentemente opera del secolo XVI, alla quale età debbe del pari riportarsi la scrittura del libro, nonostante che il cavaliere Palermo l'abbia nel dotto catalogo di quella biblioteca assegnato al secolo antecedente. Del resto la effigie del Poeta può da chiunque lo voglia, vedersi diligentemente incisa nel catalogo suddetto, a pagine 596 del tomo II. Altro ne ha il codice Laurenziano, che è il 174 di provenienza Strozzi, coll'anno 1327; e per questa cagione si tiene custodito sotto cristallo, e si mostra agli stranieri come uno dei cimelii della biblioteca. Ma per chiarire le falsità della data, ci basti notare che il codice contiene i Trionfi del Petrarca, e che fu scritto da Bese Ardinghelli vissuto fin oltre al 1470: e per conseguenza è chiaro che non solo debba esser tolto dalle rarità poste in pubblica mostra, ma che sia ancora da correggere il Bandini, là dove nel suo catalogo Laurenziano afferma che appartiene all'anno sopra notato. Al contrario assai prezioso è il ritratto dell'Allighieri che sta nel codice Riccardiano 1040, appartenuto, a quanto appare dallo stemma e dalle iniziali, a Paolo di Iacopo Giannotti nato nel 1430; nel quale sono le poesie minori di Dante insieme con quelle di messer Bindo Bonichi. Questo ritratto che é di grandezza quasi la metà del vero e colorito all'acquerello, rappresenta il Poeta, secondo le sue caratteristiche fattezze, nella età di oltre a quaranta anni, senza quelle esagerazioni dei posteriori artisti che hanno fatto di Dante un profilo di brutta vecchia, caricando il naso e la pro minenza del labbro inferiore e del mento: tale insomma che, a nostro avviso, dovrebbe a tutti gli altri preferirsi qualora la testa da incidersi in medaglia dovesse essere di profilo, come pare più ragionevole.

Andrea del Castagno dipinse a fresco l'immagine del divino Poeta in una villa dei Pandolfini presso a Soffiano:

e questa pittura, trasportata sulla tela, trovasi ora nella galleria degli Uffizj. Ma il Castagno effigió Dante quale lo vedeva nella sua fantasia: niente conservando delle note fattezze di lui, che rammentano quelle della razza etrusca, e si riscontrano in grandissima parte degl' illustri fiorentini di quel tempo e degli anni posteriori. Al contrario, se tuttora esistesse, sarebbe da fare gran capitale di quella che nel 1430 fece dipingere maestro Antonio frate dell'ordine di S. Francesco, ed espositore in quel tempo della Divina Commedia nel nostro duomo; ed appendere in quel tempio « per ricordare a' cittadini che facciano arrecare le ossa di Dante a Firenze, e fargli onore, come e'meriterebbe in degno luogo »>. Al quale oggetto, fra gli altri versi, aveva fatto scrivere sotto quella tavola :

Onorate l'altissimo poeta

Che nostro è e tiellosi Ravenna

Perchè di lui non è chi n'abbia pieta.

Ma può supplire alla mancanza di questo il ritratto che tuttora ha onorata sede nella medesima chiesa, dipinto in tavola nel 1465, per commissione degli operai, da Domenico di Francesco, detto di Michelino, scolare di frate Giovanni Angelico, secondo il modello di Alessio Baldovinetti; sotto la qual tavola sono scritti i tre noti distici latini composti da Bartolommeo Scala, e non da Coluccio Salutati, come vorrebbe il Del Migliore nella Firenze illustrata. Fu questa tavola per lunghissimo tempo attribuita all' Orcagna, fino a che il Gaye, nella prefazione al secondo volume del suo Cartegio d'artisti, non l'ebbe coll'aiuto di autentici documenti restituita al suo vero autore. E questo senza dubbio è il più antico ed accertato tra i ritratti dell'Allighieri che rimangono ancora, potendosi conghietturare che sia stato fatto tenendo ad esempio quello da Taddeo Gaddi dipinto in S. Croce, come si è detto. Per conseguenza noi proponiamo questi due ritratti, cioè quello che è nel Duomo e l'altro del codice Riccardiano, e più questo che l'altro, come i più autentici e come quelli che meglio ci hanno tramandate le sembianze del grande Allighieri.

Non accade qui parlare di un quadretto in tavola proveniente da Ravenna, e colà ritenuto qual pittura di Giotto, posseduto al presente dallo scultore Enrico Pazzi: perchè, invece di darci la immagine di Dante, ci rappresenta quella di un qualche signorotto del secolo XV, e forse di Sigismondo Pandolfo Malatesta, come può riscontrarsi dalle medaglie del Pisanello e di Matteo Pasti.

Passando ora alle opere di scultura, nulla possiamo dire intorno al busto in bronzo del museo di Napoli, perché non lo abbiamo veduto: pure rapporto a questo faremo notare che è assai difficile di potere assegnare al secolo XIV un busto di bronzo, non avendosi alcuna altra memoria che questa usanza di rappresentare gli uomini illustri fosse nella pratica dell'arte e nei costumi di quel tempo. Vorremmo bensi trattenerci alquanto intorno ad un'opera in gesso che gelosamente e colla dovuta venerazione conservano qui in Firenze i marchesi Luigi e Carlo Torrigiani, e che dicesi essere una riproduzione, così detta a forma perduta, della maschera calcata sopra il cadavere di Dante, se non ci ritenesse che, dato che ella sia veramente cavata dalla maschera del Poeta ed

abbia pari antichità, ci parrebbe che mal convenisse alla glorificazione che si prepara al Poeta, di riprodurre la faccia sua quando la malattia e poi la morte ne avevano alterale assai le fattezze.

E qui facendo fine, col più profondo ossequio ci dichiaria mo

Di Lei onorevole sig. Ministro
Firenze, a di 9 Luglio 1864

Devolissimi

GAETANO MILANESI LUIGI PASSErini.

PARTE NON OFFICIALE

Studi Danteschi

DANTE E LE BELLE ARTI.

Io mi sedea in parte, nella quale ri-
cordandomi di lei, disegnava un
angelo sopra certe tavolette.
Vita Nuova, $ 55.

A intender Dante è bisogno saper l'ar-
te cristiana, poich'egli non è, a
così dire, che la glorificazione in
versi della scultura e della pittura
e dei monumenti religiosi dei tem-
pi di mezzo.
LAFITTE.

Storia dell'arti. · A misura che l'arti belle si avanzano al loro perfezionamento, la gloria dei passati artisti si va ecclissando, e chi vien dopo fa dimenticar chi fu avanti, se già non succedano elati grosse, tempi in che l'ingegno non vi fiorisce annebbiato dalle tristi usanze.

O vanagloria delle umane posse,

Com' poco verde in sulla cima dura,
Se non è giunta dall'etati grosse !
Purg., XI, 94.

A Cimabue la pittura debbe i principii del suo rinascimento, e la gloria di aver dato origine ad una nuova maniera di disegnare e di colorire; ma il sole della pittura sorse con Giotto; egli tant'oltre condusse l'arte da venirne a modello di grandezza e tenerne il principato.

Credelte Cimabue nella pintura

Tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido,
Si che la fama di colui oscura.
(Purg., XI, 96).

Oderisi da Gubbio, della scuola di Cimabue, miniatore a' tempi di Dante celebratissimo, o come dicono i Francesi enlumineur, riman vinto dal suo discepolo Franco, bolognese, nella varietà ed armonia dei colori, e nelle altre belle qualità della composizione e del disegno. Da questo Franco ebbero

principio le glorie della Felsina pittrice, e al dire del Malvasia il retaggio della buona pittura:

O, diss' io lui, non se' tu Oderisi,

L'onor d'Agobbio, e l'onor di quell'arte
Ch'alluminare è chiamata in Parisi?

Frate, diss'egli, più ridon le carte

Che pennelleggia Franco bolognese :
L'onore è tutto or suo, e mio in parte.
(Purg., XI, 74).

Didascalica dell'arti. - Anche Iddio, colui che mai non vide cosa nuova, che disegna sempre da sè, che dipinge, ma non ha chi'l guidi (Par., XVIII, 109), ama tanto la sua arte che sempre la mira con compiacenza, e mai non leva lo sguardo da essa :

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L'arte di Dio è la Natura (De Mon., I, 4). La natura è nella mente del primo movitore ch'è Iddio, dipoi nel cielo come in instrumento, mediante il quale la similitudine dell'eterna bontà nella materia inferiore si spande.... il cielo è instrumento dell'arte divina.... dello artefice Iddio (De Mon., II, 2). Quando il supremo artefice prende a disporre la materia di sua propria mano, a sigillarvi la chiara luce e perfezione della prima ideale virtù, o vogliam dire della eterna idea da lui chiaramente vista nella sua mente, allora in questa cera Tutta la perfezion.... s'acquista. (Par., XIII, 79). L'arte si chiama anche nipote a Dio: Si che vostr'arte a Dio quasi è nepote.

(Inf., XI, 405);

però imiti essa la natura, siccome norma del bello. Ove l'arte imiti l'arte, sempre più s'allontana dalla parentela celeste. Gli artisti non deggiono imitare a modo servile, ma dai capolavori ricavar forza di sguardo a contemplar la natura.

L'ingegno non debbe andar scompagnato dall'arte; ritrova e combina l'uno, conduce l'altra ad effetto convenientemente il pensier della mente:

Natura lo suo corpo prende

Dal divino intelletto e da su' arte.
(Inf., XI, 99);

e altrove :

Tratto t'ho qui con ingegno e con arte.
(Purg., XXVII, 130; IX, 71; X, 8).

I precetti della ragione abbiano autorità d'inviolabili l'arte sia freno dell' ingegno :

Non mi lascia più ir lo fren dell'arte.
(Purg., XXXIII, 141 ).

Ogni arte ha un limite, che trascendere anco a' supremi ingegni è vietato ogni artista, come sia giunto all'estremo di suo potere, per toccare la perfezione dell'opera sua, debbe rimanersene; altrimenti,

dice il Guerrazzi, il bello precipiterebbe nelle rovine della maniera, e meglio Dante: Non sarebber arti ma ruine (Par., VIII, 108):

E qual più a gradire altri si mette,
Non vede più dall'uno all'altro stilo.
(Purg., XXIV, 61);

or convien che 'l mio seguir desista
Più dietro a sua bellezza, poetando,
Come all'ultimo suo ciascuno artista.

(all' ideale dell'arte) (Par., XXX, 31). Difficoltà dell'artista, tenuto a valersi di mezzi al tutto materiali, nell'esprimere adeguatamente la poesia dal concetto che quasi nella mente gli raggia (Conv., III, 4): spesso la materia arrendevole gli fallisce, e mal risponde al disegno ed al fine imaginato :

Vero è che, come forma non s' accorda Molte fiate alla 'ntenzion dell'arte, Perch'a risponder la materia è sorda. (Par., I, 127); (non è disposta od apparecchiata a ricevervi quelle forme. Conv. II).

L'arte in tre gradi si trova, nella mente dell'artefice, nello strumento e nella materia formata dall'arte.... Come quando è perfetto l'artefice e lo strumento è bene disposto, se errore avviene nella forma dell'arte, solo si debba riputarlo dalla materia (De Mon., II, 2). Così mancherebbe della perfezione dell'arte, chi attendesse solo alla forma finale, e non si curasse della materia, per la quale ad essa finale forma si perviene. (De Mon., II, 7).

Spesso, anche la scienza e l'abito dell'arte è impotente a ritrarre la forma che ci sta nell'intelletto, a rilevare le figure come le abbiam concette (Par., XVIII, 85):

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tista, ch'egli non ha da mirare solo al diletto sì ancora valersi del diletto per cattivare la miglior parte di noi; lo che val quanto ad innamorarla del ben richiesto al vero ed al trastullo (Par., XIV, 93), còmmuoverla di grandi e gentili affetti: arte fe' pasture

Da pigliar occhi per aver la mente.

(Par., XXVII, 95). ́

Come nelle lettere, anche nell'arti belle, chiamate mirabilmente dal poeta visibile parlare (Purg., X, 95), è necessaria l'inspirazione; senza questo segno ideale (Par., XIII, 68), senza questa celeste favilla l'arte non si alzerà mai a vera grandezza : i'mi son un .che, quando Amore spira, noto, ed a quel modo Che detta dentro, vo significando. (Purg., XXIV, 52).

Raffaello chiamava inspirazione certa idea, che in mancanza di belle donne da copiare, nascevagli nell'animo (Lett. pittor., I, 84); e il Buonarroti, (Madr. VII): Dal mortale al divin non vanno gli occhi Che sono infermi, e non ascendon dove Ascender senza grazia è pensier vano. Onde non a caso dicesi inspirazione.

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L'artista non può infondere nell'opera dell' ingee dalle opere riflettere sulla moltitudine la virtù

che non ha:

Chi pinge figura

Se non può esser lei, non la può porre. (Canz. XIII, 3).

e all'austero verso faceva commento: «Che nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale, quale la figura esser dee (Conv., Tr. IV, c. 10). Il vizio dell'artefice si apprende di leggieri all'opera, e perchè, come canta il Buonarroti (Madr., XXIII »):.... è natura altrui pinger sè stesso - Ed in ogni opra palesar l'affetto; e perchè il vizio trovò sempre grandi fomenti nell'arte, ogni qual volta ebbono dimenticato la divina origine ed il nobile officio.

Il divino e lo spirito, di lor ragione, non sono capaci di bellezza artistica, e non possono diventar belli, se non in qualche modo umanandosi e svelandosi sensatamente, nel modo stesso che le qualità spirituali dell'animo ci si fanno manifeste per l'espressione e l'arieggiare dei volti

Trasumanar significar.... Non si poria.
(Par., I, 70).

(Spiritali bellezze, Canz. VII). Volendo pertanto sotto forma sensibile ritrarre esseri puramente spirituali è mestieri accordare l'elemento artistico con la dottrina cattolica della condizione dei corpi glorificati (Par., IV, 43); è mestieri che ne' mirabili aspetti rappresentati risplenda non so che

divino che li trasmuti da'primi concetti (Par., III, 58), se vogliamo che abbiano spirto sol di pensier santi (Par., XX, 15). Allora i lor lieli sembianti, amore e | meraviglia e dolce sguardo ci faranno esser cagion de' pensier santi ( Par., XI, 76). In questo tutta la teoria dell'arte cristiana. (continua) Prof. FERRAZZI.

LEZIONI intorno alle condizioni morali e politiche d'Italia, in relazione alle dottrine di Dante, dette al pubblico dal Prof. T. ZAULI SAJANI, nel R. Istituto tecnico di Fort.

III.

(Ved. N. 7, pag. 53).

I. Se mi godeva l'animo, d' incominciare queste lezioni come tributo di venerazione alla memoria del Poeta sommo educatore della patria comune, con vera festa di esultanza le seguito oggi che nel programma del giornale il Centenario di Dante Allighieri, (istituito in Firenze per render più solenne la celebrazione nel Maggio 1865 di quella gran festa nazionale) sta scritto con alte parole che la povertà delle mie grandemente avvalorano: « L'Italia celebrerà in quel giorno non che la nascita del poeta massimo, ma l'idea fecondatrice dell'italiano risorgimento da lui presentita, proclamata, sostenuta, difesa ».

Continuiamo adunque di gran cuore; e dal Canto XIX de' simoniaci risalendo al XIII de' suicidi, veduto come egli con la più morale e nazional poesia abbia fulminato ne' simoniaci il temporale governo dei papi, vediamo ora come cerchi rialzare per l'unità nazionale il principio monarchico, ragionando ai cuori colle più toccanti parole di colui che tenne ambo le chiavi del cuor di Federigo, e che per le male arti della corte di Roma caduto in disgrazia dell' amatissimo suo signore, per disperato si diede la morte.

Non vi dirò come il Canto che ci sta dinanzi sia sovra ogni altro abbondevolissimo di quelle peregrine ricchezze di poesia onde il sommo vate sa rivestire gl'insegnamenti della più sana morale, e come tanto vi sia onde ammirarsi e profondamente commoversi che nulla più: vi dirò bene che nella lagrimevole istoria di Pietro delle Vigne vi è tutta quella non meno dolorosa del suo signore Federico II che fu d'onor sì degno, e che nella lunga lotta da lui contro tre papi sostenuta, l'un più dell' altro verso lui inveleniti, ben da ultimo sui crudeli si fe' crudele, ma non dimenticò mai di esser nato in Italia, e in Italia volle morire e morirvi imperatore. Laonde in onta degli addebiti (più dei Papi che suoi che vogliano pur farsi all' ultima parte di sua

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