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meno d'ambito che vi prende il concetto. Ora in quelle mostruose epopee, che parrebbero voler sopraffare colla immensità loro la timida imaginazione degli occidentali, non iscorgi alla perfine che una faccia del mondo, e questa ancora confusa, indefinita come il gran Tutto che ti vorrebbero rappresentare; ma l' uomo del tempo e dello spazio, l' uomo Schelling, che pel primo, se non erro, pronunciava quella sentenza, non ci vedo chiaro, nè saprei trovar ragione che mi appaghi. E veramente come possa prevalere quello che dicono elemento musicale di mezzo alle discussioni sulle virtù teologali, sulla formazione e natura dell' anima, sulla predestinazione, sul deicidio degli Ebrei, io non vedo, colpa forse della mia ignoranza, di quella musica dell' avvenire di cui sento cantar meraviglie di qua e di là dell' Alpi, ma che ad ogni modo dev' essere riserbata ai nostri lontani posteri, dappoichè le orecchie dei contemporanei non vi si sono per anco formate. Ma se il senso melodico che crea congiunto coll' armonia che investe il concetto costituiscono, come a me parrebbe, la buona musica, vorrei trovare l'elemento musicale piuttosto nelle altre due cantiche, di modo però che l'armonia predomini nell' Inferno, e nel Purgatorio la melodia. Con questo io non voglio negare che anche nel Paradiso non si faccia sentire qua e là non so qual aura musicale che innamora. Chi non la sente, per citarne qualche esempio, nei primi due canti in generale, quei meravigliosi versi del ventesimo,

Udir mi parve un mormorar di fiume

Che scende chiaro giù di pietra in pietra;

in

in quegli altri del canto stesso spiranti non so che arcana dolcezza, che si ben rende l'intima gioja delle anime contemplative;

Qual lodoletta che in aere si spazia
Prima cantando, e poi tace contenta
Dell' ultima dolcezza che la sazia;
Tal mi sembrò l' imago ec.

e in questi ancora si spesso citati del ventesimo terzo:
Come l'augello in tra l'amate fronde

Posato al nido de' suoi dolci nati,
La notte che le cose ci nasconde,

Che per veder gli aspetti desiati,

E per trovar lo cibo onde li pasca,
In che i gravi labor gli sono grati,
Previene il tempo in su l' aperta frasca,
E con ardente affetto il sole aspetta,
Fiso guardando pur che l'alba nasca?

Nè so chi potesse trovare al concetto suoni più appropriati di questi che leggo più innanzi nel canto medesimo dove si descrive l'arcangelo Gabriele che girandosi intorno a Maria in forma di facella ne canta le lodi:

Per entro il cielo scese una facella,

Formata in cerchio a guisa di corona,

E cinsela e girossi intorno ad ella (a Maria).
Qualunque melodia più dolce suona

Quaggiù, e più a sè l'anima tira,

Parrebbe nube che squarciata tuona
Comparata al sonar di quella lira.

Ma il carattere generale della cantica mal si potrebbe arguire da questi ed altri luoghi somiglianti, che in effetto sono ben poca cosa rispetto ai moltissimi che si potrebbero addurre in contrario; e noi qui parliamo appunto del carattere generale | che vuolsi ritrarre non dalle singole parti staccate, ma dal complesso.

vero e reale, non vi ha nè mente, nè volontà propria, non è persona, poichè anch'esso va disperso in quell' uno senza fine, di che quante cose appariscono al senso non sono che un modo di essere, forma passeggera della eterna trasformazione della natura. Tu non hai dunque delle Indie in tanto barbaglio d'imagini, in tanto viluppo di peripezie, in tanta pompa di simboli, di miti, di fantasie strane, vaganti oltre i limiti del possibile, non hai che il suicidio perpetuo di una teologia disumana che annichila l' uomo per riversarlo in Dio. Guardiamo invece al divino poema dell' Alighieri, noi ci troveremo in un concetto vasto, completo, mirabilmente concatenato, l'uomo de' suoi e l'uomo di tutti i tempi; ci vedremo trasportati dal mondo visibile all' invisibile, dall' ordine delle cose contingenti e transitorie, al preternaturale delle eterne, per guisa che niente di ciò che sente, che pensa, che soffre, che fa uel mondo presente (1), niente di ciò che spera, desidera, ciò che spera, desidera, o paventa l' uomo guardando al di là del sepolcro è dimenticato dal poeta. Così mentre nella panteistica epopea delle Indie è continuo lo sforzo di sperdere l'uomo nella immensità del creato, qui codesta immensità stessa non fa che rilevare la grandezza del libero pensiero che la concepiva; perocchè il poeta conserva sempre non pur di fronte all' universo, ma di mezzo alla umanità che lo circonda una personalità, un valore suo proprio che gli assegna, per così dire, un posto a parte nel mondo. In questo anzi si vantaggia il poeta fiorentino non pure sui poeti dell'India, ma sui Greci e sui Latini e tutta in generale l'antichità, come colui che fa ritratto per eccellenza del mondo moderno, che è il mondo degli individui, come l'antico era dei generi, quando il cittadino si perdeva in quell' ente generico più o meno ampio che si chiamava patria. Non solo esce Dante cospicuo, singolarissimo fuori del volgo umano, ma l'importanza

(1) Quando si parla del mondo presente bisogna riportarci ai tempi del poeta per essere giusti. Perocchè se nei rapporti morali che non mutano, poteva, come realmente fece, rappresentare l'umanità di ogni tempo, rispetto alla scienza quella sola poteva egli rappresentare che gli porgevano i tempi. Certo il poema di Dante è tutto un mondo, ma, s' intende non il mondo dei tempi nostri, sì veramente quello dell' età in che visse il poeta. Se il subietto pertanto è universale, esso però dalla imperfezione e scarsità delle cognizioni del tempo viene ad essere chiuso in un circolo molto piccolo a petto all' ambito immensurabile che la scienza preso ha di poi per Bacone, per Galileo, quando gettate via le fascie in che fino allora la teneva stretta la Scuola potè correre libera e spedita per le sue vie. Ma per questo appunto che allora il mondo della scienza piccolo qual era poteva e capir tutto quanto nella mente di un uomo, e per sommi capi compendiarsi tutto in un'opera d'arte, riesci l'Allighieri a darci intera a così dire l'enciclopedia del tempo nel suo poema; della qual cosa è bene che ci ricordiamo sempre che vogliamo misurare la grandezza del concetto dantesco.

delle cose e dei fatti che rappresenta si riduce in lui tutta quauta, mentre e fatti e cose, tutto fa capo, come a suo centro, all' anima stessa del poeta che sente, che giudica, che ragiona. E di fatti sebbene nulla operi in quel senso che suolsi dare più comunemente alla parola, il vero protagonista del poema è Dante stesso, dappoichè per lui, per lui solo si rivelano al guardo mortale i misteri della morte, per lui si dischiude il triplice regno; se i due mondi, del tempo e dell' eterno si raccostano, si comprendono l'un l'altro; se apresi tra loro uno scambio di affetti e di pensieri, tutto si deve alla presenza del poeta ; la umana ragione portata in Virgilio al suo più alto grado, e la sapienza rivelata che si personifica in Beatrice si movono al soccorso del poeta come a gara, il poeta stesso dal luogo eterno per cui è tratto in si mirabil modo chiama al suo giudizio le generazioni che furono e le presenti a render conto delle azioni loro.

- Ma qui ne si affaccia un'altra meraviglia che non è certo la meno straordinaria in Dante. Questo poeta che sorge sur un'età tutta quanta per dominarla, che le presta il suo nome come il simbolo più completo dello spirito ond'era mossa, e non pertanto rimane come isolato nella sua grandezza, niente di assolutamente nuovo imaginò, niente disse che non fosse in germe in ogni dove d'intorno a lui ne' costumi, nelle idee, ne'giudizii, nelle credenze popolari, nell'aria a così dire che respirava. In quel cielo fantastico di ascensioni, viaggi, rapimenti nel mondo invisibile, che dai tenebrosi vaticinii dell'Apocalisse, per le visioni dei padri del deserto e dei confessori nelle catacombe, per mezzo ai morti che risorgono evocati a gara con apposti intenti, qui dalle maliarde e dai negromanti, là dai cenobiti, dalle sante vergini claustrali, dai taumaturghi delle due chiese rivali d' Oriente e di Occidente, continuandosi per una serie non interrotta di miracolose rivelazioni, di pie leggende, di pratiche divote, dal Pozzo di S. Patrizio al Viaggio dei sette giorni tanto raccomandato dai mistici del medio evo, di età in età si allarga smisuratamente fino all'epoca del poeta, è impossibile non ravvisare il primitivo concetto e la forma fondamentale del sacro poema. Ma quanti sono oggidì che si curino delle visioni e leggende di quei tempi di superstiziosa ignoranza? Se non fosse che in queste appunto si hanno a cercare le origini della Divina Commedia, quanti pur nel campo dell'arte se ne vorrebbero occupare ? Quella importanza qualunque che serbano tuttavia agli occhi nostri deriva non dall' intrinseco loro valore, ma dall'uso che ne fece il poeta. Di que' tempi, come già fu notato, quanti seppero cogliere il diverso atteggiarsi delle menti ne' diversi periodi della umanità, erano la vi

sione e l'allegoria la forma necessaria delle più nobili e generose aspirazioni del senso morale; ma forma gretta, inflessibile che si trascinava dietro faticosamente quasi cappa di piombo; solo in Dante si fa essa pieghevole e snella quasi veste fatta a suo dosso. Così del resto: le dottrine teologiche, nè altronde il poteva, tolse alle sacre Carte, ai Padri della Chiesa, al grande Aquinate; le filosofiche ad Aristotile, a Boezio, alla Scuola: le astronomiche a Tolomeo, e via dicendo, e non pertanto rimase il poeta più originale che mai sia nato fra gli uomini, perchè tutto tolse come niuno mai avea saputo fare innanzi, e niuno forse saprà più fare dopo di lui; assimilandosi cioè ogni cosa, in ogni cosa lasciando l'impronta della sua anima, del suo sentire, tutto irradiando, vivificando colla potenza della fantasia e dell'affetto, per guisa che la scienza stessa si venisse a trasformare in poesia; da tutto ugualmente, dai veri inconcussi, come dai sogni della cabala e dai vaneggiamenti dei mistici, facendo pur lampeggiare alcun riflesso del vero. Proprio egli è di quei sommi ne'quali Dio, Del creator suo spirito

Più vasta orma stampó; .,

proprio è, dico, dei sifatti assorbire in sè medesimi quanto è di più vitale, di più distintivo e spiccato nel mondo in che vivono, per ridonarlo trasumanato e fatto eterno nell'ideale della poesia. Solo ad essi consentono i cieli di trovare al pensiero di un'epoca la sua formola più vera e più semplice, di cogliere in quell'arruffato turbinio di voci, di suoni, di concetti sparsi e vaganti la nota fondamentale. Ecco perchè non parve che il secolo giungesse a manifestar sè medesimo in tutta la sua grandezza, se non quando si senti unificato nell'opera del suo poeta; in quell'uno finalmente acquistando quella piena conoscenza del suo essere che infino allora avea piuttosto sentita che compresa, e questo è per mio credere fra i miracoli dell'ingegno il più stupendo. Prof. A. ZONCADA.

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

La monarchia temporale del romano Pontefice, secondo Dante Allighieri, commento di GIAMBATISTA MARCUCCI. - Lucca, Giusti, 4864. Un vol. in 8.o

(Continuazione e fine, V. N.o 15, pag. 199).

Infatti Dante, quando arriva alla terza cerchia del Purgatorio, dove stanno gl' irosi, s'abbatte in Marco Lombardo, ed entrato in discorso con lui lo richiede del perchè la virtù abbia quasi del tutto lasciato la terra. Marco gli risponde che vi sono sempre nel mondo le leggi umane e divine, che potrebbero guidar gli uomini al vero, ma che nessuno le osserva, perchè la gente è presa dal mal esempio

del papa, che unita la spada al pastorale più non adempie il suo ministerio e più non addita la strada che conduce alla virtù. Egli spende molte parole nello svolgere questi pensieri, che tutti compendia nella seguente terzina:

Di'oggimai, che la chiesa di Roma,

Per confondere in sé duo reggimenti, Cade nel fango, e sè brutta e la soma. L'evidenza de' quali versi sembra bastevole a far conoscere i pensamenti dell'Allighieri. Così hanno creduto anche i suoi primi commentatori, e fra i molti che potremmo citare basti l'autorità di Francesco da Buti, che, nato tre anni dopo la morte di Dante, fece in appresso pubblica lettura della Divina Commedia nelle scuole pisane. Giunto egli a interpetrare l'unione della spada col pastorale, parla in questo modo della congiunzione de' due reggimenti: - « La spada significa lo temporale; lo pasturale lo spirituale lo temporale meschiato con lo spirituale va male, perchè l'uno guasta l'altro: le contrarie cose non si pateno insieme che l'una non corrompa l'altra; queste due cose sono contrarie, adunque l'una corrompe l'altra ». Ma secondo il signor Marcucci

Dante non ha inteso con siffatti versi che Marco parlasse contro il dominio temporale, perchè dice che avrebbe voluto l'effetto maggiore della cagione, e aggiunge che sarebbe lo stesso che se tutti gli scompigli che agitano il secolo XIX fossero cagionati solamente, perchè il pontefice siede principe a Roma. Ma egli dovrebbe conoscere la diversità grandissima che passa fra i tempi di Dante e quelli nostri, e come allora il papa a cagione della discordia fra il sacerdozio e l'impero, da lui suscitata e capitaneggiata, tenesse in lotta l'Italia e spesso la facesse rosseggiare di sangue. E parimente ci sembra falso il dire che causa di tutti i mali fossero solamente i ghibellini, perchè, sebbene i guelfi erano in apparenza più italiani di essi, li pareggiavano però in crudeltà ed in ferocia. Se il papa invece avesse fatto il sacerdote, non il monarca e il conquistatore, l'Italia avrebbe avuto certamente meno mali a piangere e meno sciagure a soffrire. Così la pensava Dante, che risponde al Lombardo :

tu bene argomenti;

Ed or discerno perchè dal retaggio
Li figli di Levi furono esenti.

Ed in questa risposta approva primieramente le parole di Marco, e secondariamente allude alla Sacra Scrittura in cui Dio fa parlare Ezechiello nel XLIV delle Profezie in questa maniera dei figli di Levì: « Ei non avranno eredità; loro eredità sono io, e non darete loro porzione alcuna d'Isdraele, perchè la loro porzione sono io ». La qual cosa, secondo i più riputati spositori della Bibbia, significa che Dio non

volle dare dominio terreno ai figli di Levì, perchè si occupassero unicamente del suo culto. E quando il sig. Marcucci viene a dirci esser falso che i leviti non possedessero, e cita cinquattotto città che dipendevano dai loro comandi, altro non prova che essi ben presto si erano allontanati dalla purità ordinatagli per bocca del Profeta, perchè non si contentavano più che solamente Dio facesse loro da eredità e da porzione. Ed appunto perchè si allontanò da questi precetti il sacerdozio ebraico cadde dalla grazia divina, e fu poi principale strumento della morte di Cristo.

Nè questo è il solo luogo della Divina Commedia in cui Dante si scaglia contro il dominio temporale; anche nel XXVII del Paradiso fa dire a San

Pietro:

Non fu nostra intenzion ch'a destra mano
De'nostri successor parte sedesse,
Parte dall'altra, del popolo cristiano;
Nè che le chiavi, che mi fûr concesse,
Divenisser segnacolo in vessillo,

Che contro i battezzati combattesse;
Ne ch'io fossi figura di sigillo

A' privilegi venduti e mendaci :

Ond' io sovente arrosso e disfavillo.

Per far conoscere maggiormente le opinioni di Dante su questo proposito ne potremmo riportare anche molti altri, ma lo crediamo inutile, perchè a stento si troverebbe chi non gli avesse a memoria. E poi se nelle opere di Dante vi fosse stato un solo appiglio per mostrarlo amico della signoria temporale, chi più ne avrebbe levato vanto della Civiltà Cattolica, che da quattordici anni combatte contro l'opinione pubblica per questo scopo? Ma essa prendendo in rivista un' opera dello Scolari che trattava lo stesso argomento del sig. Marcucci esce fuori con queste parole: «< Il nostro autore dice e mantiene, che la privazione nel pontefice del temporale dominio resiste a tutte le disposizioni del diritto di- . vino e del diritto pubblico, ugualmente che a tutte le dottrine di Dante, per poi distruggere stoltamente la massima dell' italiane grandezze ». Ottimamente; ma quanto alle dottrine di Dante, temiamo non sia per trovare molti contradittori quest' asserzione. Egli è vero che eziandio il ch. sig. Fraticelli, nel proemio dell' edizione fiorentina della Monarchia di Dante, dice che in quel libro non vi è espressione la quale dimostri che l'Allighieri negasse al sommo pontefice il potere d'essere ad un tempo sacerdote e sovrano, e che per l'opposito vi se ne rinvengono alcune, le quali alla contraria sentenza porgono tutto l'appoggio. Il cav. prof. Carmignani ha pure scritto: - Dante non lodava, ma non impugnava la sovranità del pontefice negli Stati da lui asseriti donati dalla liberalità

degl' imperatori. Nulladimeno noi confessiamo che ci piacerebbe aderire a questa sentenza, ma che non vediamo come potere ad essa sottoscrivere, in vista delle proposizioni della Monarchia e della Commedia | che appaiono assai chiare per l'opposta dottrina. I disordini di quei tempi, le sciagure d'Italia, di Firenze e le sue proprie, e la esagerata, ma sincera venerazione verso il romano imperio, la cui ombra a lui appariva come salda e perpetua, trassero il gran poeta in questa sentenza (1) ».

Finalmente il signor Marcucci parlando nel suo commento anche di Francesco Burlamacchi, dice che questi non ebbe pensiero di tirar dalla sua alcune città della Chiesa, ma che fu una ingiuria invereconda, che gli attribuì chi ne scrisse l'istoria, e chi nell' inaugurazione della statua ne fece le lodi. Ed il nostro autore avvalora la sua sentenza dicendo che ha letto tutti i documenti stati pubblicati, che ha interrogate persone che hanno rovistato gl' inediti dell' Archivio, e che tanto da quelle quanto da questi risulta chiaramente che il Burlamacchi non ebbe questo disegno. Abbia invece la gentilezza di guardare le pagine 56 e 57 di quell' istoria che asserisce aver letta, si rechi nell' Archivio di Stato, chieda l' Examina Francisci Burlamacchi (2), e legga a pagina 20 il suo interrogatorio originale, a pagina 28 il costituito del bolognese Pier Maria da San Giorgio, e poi vedrà che non solamente voleva tornare in libertà Bologna e altre città della Chiesa, ma che aveva ancora concetti più grandi e più generosi. Nè queste cose sono state poste in volgo adesso come egli dice; erano note a Giambatista Adriani che nell' istorie dei suoi tempi scrisse di lui tenendo per fermo che riuscendoli la cosa in Firenze seguiterebbe Siena mal disposta e Perugia e Bologna (che insino colà si di(4) Civ. Catt. An. III, Vol. VIII, pag. 532. (2) Cause delegate, num. XI.

Fratelli Nistri, Tipografi Librai in Pisa.

Commento di FRANCESCO da BUTI sopra la Divina Commedia di DANTE ALLIGHIERI (letto nella Università di Pisa dal 1365 al 1440, Testo di Lingua inedito, citato dagli Accademici della Crusca nel loro Vocabolario) pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa 1858-1862. Tre gr. Tomi in 8.° con Ritratto di Dante dip. da Giotto, e del Buti.. it. L. 45, 00 - Lo stesso, Edizione da Biblioteche, in 8.° massimo di carta imperiale con margini allargati (ediz. di 75 esempl.). >> 75, 00 Ediz. citata nella ristampa (che è in corso) del Vocabolario della Crusca. Si spedirà franca per posta nel Regno a chi ne rimetterà agli Editori in Pisa l'importo con Vaglia Postale.

TIP. GALILEIANA DI M. CELLINI E C.

vulgava col pensiero, avendo in animo di abbassare la Chiesa e torli lo Stato temporale) » (1). E il nostro autore dice che il moderno storico del Burlamacchi ha offeso la umanità cui è sacra la memoria de' morti, e che la sua ingiuria di tanto è più invereconda di quanto lo studio è oggi maggiore che si fa ne' documenti dell' istoria ! »

È invero a dolersi che il signor Marcucci, mentre raccomanda così altamente il rispetto ai trapassati, si diporti in tal guisa con i viventi. Desideriamo che per isfoggiare la sua erudizione, e la sua non comune conoscenza di lingua cerchi argomenti più facili a sostenersi, non essendo bastevole a dar ragione, quando si contende di storia il rivestire di classiche forme fallaci concetti. Queste parole attesa la nostra giovanissima età parranno troppo dure ad alcuni ; ma abbiamo presa la penna, non per vana pompa di farci conoscere, ma perchè ci doleva altamente fosse profanato il nome e travolti i pensieri del poeta più grande degl' Italiani. GIOVANNI SFORZA.

(1) Lib. V, c. 195, ediz. in fol.

ANNUNZIO BIBLIOGRAFICO.

Il solerte editore di Milano, Gaetano Schiepatti ha intrapreso la ristampa della Divina Commedia di Dante, esposta in prosa a comune intelligenza dal conte Francesco Trissino. È un' opportuna e lodevole pubblicazione, ora che è intento dei buoni il portare il sacro poema a conoscimento di tutti. L'edizione è divisa in 18 fascicoli, ciascuno con una vignetta al prezzo di it. L. 4, 50; esce un fascicolo ogni 15 giorni e si riceve dagli associati di tutta Italia franco di spese; l'importo si paga ogni volta che si riceve il fascicolo. I primi due sono già pubblicati e gli abbiamo sott' occhio. E nitida ed elegante edizione, ritoccata in più luoghi dall'Autore ed accresciuta di un opportuno corredo di note. I disegni rappresenteranno alcune fra le più importanti scene del Poema.

ISI

APOLOGETICO DI FRATE GIROLAMO SAVONAROLA, OSsia, dell'ordine delle scienze e della ragione dell'arte alunno di poetica, volgarizzato da VINCENZIO MATTII, secondo anno del R. Liceo di Siena, con documenti inediti relativi alla vita del Savonarola. Siena, Tipografia Bargellini, 1864.

Vendesi in Siena, a benefizio del monumento a Dante, al prezzo di Ln. 1. 20, e di Ln. 4. 50 legato alla bodoniana.

Si pregano i signori Associati al GIORNALE DEL CENTENARIO a sodisfare il pagamento dell'Associazione..

Gli articoli letterari di questo Giornale non si potranno riprodurre senza licenza della Direzione.

G. CORSINI Direttore-Gerente.

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Parte officiale. Atti del governo italiano. Medaglia commemorativa del Centenario. C. MILANESI e L. PASSERINI. - Parte non officiale. - Studi danteschi. - Dante e le belle arti. Prof. FERRAZZI. Lezioni sulle condizioni morali e politiche d' Italia, ec. T. Z. SAIANI. - Commento mitologico. L. N. - Notizie. - Avvisi.

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Per il resto d'Europa: Sig. Ermanno Loescher, libraio a Torino, Via Carlo Alberto, N.° 5.

LETTERA AL MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE SUL PIÙ AUTENTICO RITRATTO DI DANTE.

Onorevole signor Ministro.

Non si potrà giammai lodare abbastanza la bella deliberazione presa da cotesto ministero di volere, mediante una medaglia, perpetuare la memoria del giorno nel quale tutta Italia celebrerà il natalizio del suo maggior Poeta e noi mentre, al pari d'ogni buon italiano, ne siamo lietissimi, ci riputiamo a grande onore d'essere stati richiesti di dire il nostro parere intorno al più autentico ritratto che oggi si abbia o si conosca dell' Allighieri. Ma per corrispondere più convenientemente, e nel miglior modo che per noi si possa, al commessoci incarico, che ben volentieri e di tutto cuore accettiamo, bisogna che ci addentriamo colla maggior considerazione e colla più scrupolosa critica in somigliante argomento.

Scrissero Filippo Villani, Giannozzo Manetti, ed in ultimo luogo il Vasari, che Giotto ritrasse Dante nella cappella del Palagio del Potestà di Firenze, insieme con Corso Donati e ser Brunetto Latini: e questi ritratti, stati per lunghissimi anni nascosti insieme colle altre pitture, furono nel 1844 scoperti, e restaurati, come ora si vede, dal professore Antonio Marini. Noi non porremo in dubbio che veramente in quel luogo sia tra gli altri il ritratto del Poeta, ma neghiamo ricisamente che esso sia stato dipinto dalla mano di Giotto: ed a questo ci conducono

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