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Considerando che il deposito delle sacre ossa di Dante Allighieri in Ravenna non può, pei destini felicemente mutati d'Italia, considerarsi come perpetuazione di esilio, una essendo la legge che raccoglie con duraturo. vincolo tutte le città italiane;

Considerando che la città di Ravenna, desiderosa di associarsi alla celebrazione del sesto centenario di Dante, non si appresterebbe in retta guisa ad onorare la memoria del grande Italiano, abbandonando altrui quelle sacre ceneri che furono e sono oggetto di tanto culto ed amore dei cittadini ravennati;

Il Consiglio municipale incarica la Giunta di indirizzare a nome della città di Ravenna una fraterna parola al Consiglio municipale di Firenze esprimente rammarico di non potere accogliere la sua preghiera.

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1295. Muore Forese de'Donati fratello di Corso e di Piccarda. Dante, che era amicissimo di Forese e di Piccarda (o Riccarda), li ricorda entrambi, il primo nel canto XXIII del Purgatorio, e la seconda ne' canti III, IV e V del Paradiso, ove il Poeta con singolare pietà narra il caso di lei. Arnolfo di Cambio da Colle di Valdelsa, detto Arnolfo di Lapo, riceve dal Commune Ficrentino la Commissione di fare i disegni per la nuova chiesa di Santa Reparata, denominata poi Santa Maria del Fiore.

Si delibera di fabbricare il nuovo Palazzo del
Commune.

Dopo due anni di vacazione è eletto papa Ce-
lestino V, monaco eremita; il quale non po-
tendo governare, a che si richiedeva in quei
giorni il parteggiare, rinunzia, e gli succede
Bonifazio VIII. Dante irritato per tale rinun-
zia, che pose in soglio il suo maggior nemico,
mette Celestino nell' Inferno, perchè « fece per
viltate il gran rifiuto». Bonifazio poi spesso
e variamente è ripreso da Dante pe' suoi vizj
in molti luoghi della Divina Comedia, tra'quali
nel canto XXVII del Paradiso Dante lo fa rim-
proverare da S. Pietro a questo modo:

Colui che usurpa in terra il luogo mio,
Il luogo mio, il luogo mio che vaca
Nella presenza del Figliuol di Dio,
Fatta ha del cimiterio mio cloaca

Della puzza e del sangue, onde il perverso
Che cadde di quassù laggiù si placa.

Da queste sublimi parole si scorge che Dante è il fiero ghibellino e nemico d'ogni guelfo, mostrando però di essere schiettamente cristiano e riverente verso le somme chiavi. Muore fra Guittone d'Arezzo, de' Cavalieri Gaudenti, oratore degli Aretini a Firenze. Autore di lettere e di un gran numero di rime amorose (Dante, Purg. XX).

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(19 di Maggio) Muore Celestino V.

Discordie cittadinesche gravissime a Pistoia.
Bianchi e Neri.

Muore Bono Giamboni, giudice fiorentino, vol-
garizzatore del Tesoro di Brunetto Latini, delle
Storie di P. Orosio, e autore del Giardino della
consolazione.

Papa Bonifazio VIII accresce notabilmente l'Università di Roma.

La Republica di Venezia ordina agli ambasciatori di fare le relazioni intorno al successo delle loro legazioni.

Musaici nell'abside della chiesa di S. Miniato al Monte.

Si battono i primi fiorini d'argento a Firenze. 1297. Discordie di papa Bonifazio co' Colonnesi e con Filippo il Bello, il quale è scommunicato.

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(13 di Marzo). Il Commune di Firenze paga un sussidio di lire 2400 per la chiesa di Santa Reparata; e il d) 7 di Ottobre il sussidio si aumenta a lire 8000 per due anni. Simili sussidj sono dati alle chiese di Santa Maria Novella e S. Spirito.

Vita di Dante

scritta

DA C. CARLO FAURIEL versione

DEL GIORNALE DEL CENTENARIO

(Continuazione, V. N.o 15, pag. 119).

L'anno 1299, la vigilia del secolo XIV, era anche per Firenze la vigilia di gravi turbolenze, e di spaventevoli calamità. Il partito ghibellino più presto annichilato che vinto, avea i suoi capi balestrati qua e là nell'esilio, ed i suoi aderenti ne aveano affatto levato le speranze e gli aiuti. I Guelfi vittoriosi signoreggiavano senza contrasto da più di 30 anni, e pareva ormai che ancor l'avvenire avesse ad esser tutto in loro balia. Ma in queste apparenze

eravi qualche cosa di specioso e di ingannevole, imperocchè, tutto quel tempo in che i Guelfi aveano avuto a lottare contro avversari temuti, la fazione loro era apparsa fuori unita, compatta; mentre più addentro era spartita in diverse frazioni, ciascuna delle quali e su certi soggetti muoveva da opinioni e da sentimenti intieramente opposti. La quale opposizione doveva poi chiarirsi, e si chiari subito che queste frazioni non più incatenate dalla paura del nemico comune poterono agire cogli intendimenti particolari e con interessi disparati fra loro.

Fra queste frazioni, che tutte si dicevano guelfe, e che volevano e credevano di esserlo, due principalmente si distinguevano; l'una era quella dei Guelfi aristocratici, i quali avrebbero voluto arrestare il progresso del potere popolare, e conservare la nobiltà a quel grado nel quale l'aveano messa; l'altra era quella dei Guelfi popolari, i quali, vuoi per convinzione, vuoi per fiacchezza dell'animo, facilmente piegavano a quelle influenze della democrazia dalla quale si lasciavano governare.

Già sta per ricominciare un'altra volta la lotta fra le caste feudali create dall'invasione e dalla conquista, e le antiche popolazioni del paese; essa durerà lungo tempo sotto altri nomi, intricata di odi nuovi e di nuove passioni. Erano a questo tempo a Firenze cotali ordinamenti di giustizia che faceano bene l'effetto di una spada sempre sospesa sulla testa dei nobili; per la qual cosa, questi nel 1295, postisi prima d'accordo fra loro, dettero di piglio alle armi, per vedere se ottenessero colla forza che quelle ordinanze democratiche fossero levate di mezzo: ma il popolo pure alla sua volta si armò per sostenerle, e si condusse così bene che i nobili, senza combattere e senza avere ottenuto nulla, si ritirarono.

Da questa sconfitta, che toccò alla parte aristocratica della fazione guelfa, questa rimase affatto esclusa dal governo della Repubblica, il quale andò così interamente nelle mani della parte popolana; per la qual cosa esse furono fra loro assolutamente divise, imperocchè quelle che fino a quel giorno non erano state che porzioni del partito guelfo, divennero da quel punto due partiti opposti, con nomi, con capitani e con insegne distinte. I Guelfi popolani presero il nome di Bianchi, gli altri si chiamarono i Neri. Alla testa di questi ultimi fu la famiglia dei Donati, la quale si reggeva per gli ordini di Messer Corso, persouaggio di gran cuore e di grande abilità e che sapea ben rappresentare nel suo carattere quello della sua fazione, ricco non molto, ma di lignaggio nobile e antico, bravo, turbolento e di spiriti cavallereschi da un lato, dall' altro superbo e sprezzatore, capace più di sdegnare che d'accattare il suffragio popolare: lo

chiamavano il barone, quasi avessero voluto dire l' esemplare del gentiluomo.

La parte dei Bianchi ebbesi per capo Vieri de' Cerchi, quel medesimo del quale abbiamo narrato un atto generoso alla battaglia di Certomondo. Se togli nella bravura e nell' ambizione, Vieri era in tutto l'opposto di Corso Donati, ma anche egli bene rappresentava il suo partito; di razza plebea, ma ricco di grandi fortune per il commercio, ei ne spendeva una buona parte per crearsi dei partigiani e degli amici oltre a quelli che l'amabilità dei suoi modi popolari gli cattivavano.

Scomposta così la fazione Guelfa tutta la popolazione di Firenze si spartiva in due: nè v' ebbe capo di famiglia che non entrasse o nell'uno o nell'altro dei due partiti nuovi, indizio manifesto che in essi si racchiudevano gli interessi di tutti ei più vivamente sentiti.

Dell'epoca poi nella quale le due fazioni cominciarono a distinguersi del nome di Bianchi e Neri difficile sarebbe dire qualche cosa di preciso; ma nulla vale l'assegnare la data dei nomi, quando si può stabilire quella dei fatti che più rileva. Questa grande scissione del partito Guelfo accadde nel 1294 a Firenze e in qualche altra città della Toscana.

Dal 1294 al 1300 il governo dei Bianchi a Firenze si distinse per diverse ordinanze, per ciascuna delle quali di molto avanzò la democrazia, e la nobiltà fu vegliata più d'appresso e gravemente minacciata. Contro avversari così temuti, i Neri, che sosteneano gli interessi e gli intendimenti degli ottimati, poteano opporre molto miglior resistenza che a primo. aspetto non si potrebbe mai immaginare, imperocchè, senza contare le forze loro proprie, essi facessero grande assegnamento sulla protezione del Papa.

Sedeva in Roma pontefice a quel tempo Bonifazio VIII. Egli è ormai noto qual condotta tenessero i pontefici delle due fazioni guelfa e ghibellina nel secolo XIII: i più fra loro, in cambio di darsi all' una o all'altra di esse, vollero pacificarle o almeno tenerle in freno l'una per l'altra per vedere se loro fosse venuto mai fatto di dominarle ambedue, e mettere in Italia l'autorità loro nel luogo di quella imperiale. A. B.

Memorie di Dante in Firenze

SUL PIÙ AUTENTICO RITRATTO DI DANTE

IN CONFUTAZIONE DELLA RELAZIONE

DEI SIGNORI G. MILANESI E L. PASSERINI.
Lettera al Cav. Avv. Emilio Frullani,
Egregio Amico.

Dal riferire un fatto in un modo e darlo a vedere in un altro, corre per certo un gran divario; ma che cosa

non può mai la preoccupazione di un pensiero e la fiducia troppo cieca di sè stessi a far velo alla mente? Condotti da questi effetti alcuna volta si sono visti da loro medesimi precipitati a basso anche dei grandi genii, non mancando tuttavia la natura di rendersi cadevole o fragile. Questo argomento, mio buon Frullani, ci è fatto veder qui, offertoci per causale sventura, dai sigg. G. Milanesi e L. Passerini, i quali nella Relazione sul più autentico ritratto di Dante, si son lasciati scappare di mano tal lavoro che non possiam dire troppo felice. Se non altro, parrebbe che fosse anzi in contrario degli appoggi addotti da loro stessi ed in pregiudizio della fama ed estimazione che hanno sempre fino a qui goduto.

Un certo impegno contratto in pubblico quasi sullo stesso argomento, ed il dovere di essere premuroso dell'istoria, mi mette su a non guardare con essi questa volta il silenzio ed anche a rompere ogni riserva, tanto più che vi ha fondata ragione per credere che uno di loro non ci usi davvero poi tanti riguardi ad osteggiare di già una cosa per ancora non interamente maturata e solamente in sostanza annunziata e promessa. Ma siccome dove parla l'interesse della patria si deve essere lungi dai rancori privati, ripudiato quello che dir si voglia inurbano ufficio, non ci sarà imputato a mal talento se in cosa che poi riguarda il pubblico, ci prendiamo cosi in comune la premura di ripudiare quelle cose che non paiono buone in detta Relazione. Quindi una protesta fatta a tempo, come assicurerà vantaggiosamente la verità, aiuterà quel poco di diritto che m'è debito per conto mio di sostenere, e sbarazzerà insieme ogni impaccio che dal silenzio sarebbe per venirne immensamente a te, se una volta conforme te ne sei impegnato, vorrai trattare quel ragguardevole tema delle Memorie di Dante in Firenze.

É impossibile far parola di Dante e non parlare di nuovi tormenti e nuovi tormentati, il che fatto, come preambolo, scendo all'argomento, ed ecco quanto ne ragiono.

Il punto che nella Relazione dei signori Milanesi e Passerini, si ravvisa non dirò più vulnerabile ma più degno d'attenzione, e che probabilmente per mancanza di premurosi a rispondere rimarrebbe non ribattuto, è a ben rifletterlo, quello che parla del codice Riccardiano segnato a catalogo di numero 4040, in cui trovandosi il ritratto di Dante, nel rassegnar questo per elevarlo maggiormente sugli altri, s'impiegano da detti signori, forse raziocini nou buoni nè troppo veri. Dapparte che la riverenza che dobbiamo sempre grandissima ai detti Signori non consenta che troppo liberamente scendiamo a contraddirgli; dapparte che questo loro operato non tocchi nulla che attenga ad offendere la reputazione non che il merito del Poeta; dapparte che il diritto di esprimere un proprio giudizio, e particolarmente richiesto, sia sacrosanto e liberissimo a tutti; io non entrerò a scrivere questa rassegna se non che per legge della verità dei fatti che si voglion narrati nella storia, rispetto alla quale fa ognora mestiero che non ci allontaniamo da quei principj che appunto si vogliono sempre osservati per mantenere e talvolta rivendicare intatto il patrimonio delle patrie tradizioni. Nutro perciò sin d'ora il pen

siero che me ne avranno per escusato quegli stessi signori, se iu qualche punto della loro Relazione non mi terrò con essi perfettamente d'accordo, non che tu nel ricevere la presente lettera.

Si fa da quei signori nella sostanza della Relazione, ora presa a rassegnare, contro due ritratti di Dante ambedue in pittura a guazzo, in due diversi codici, per prenderne uno pure ad acquerello, più grande, più colorito, più intatto, forse meno antico, meno anco perfetto. Ciò per certo non è giudizio ben sostenuto dall'arte, quando l'abilità del modellatore per dar rilievo su quella coloritura alla maschera che dovrà farne, sembra posta, per quel difetto del lavoro antico, nel bisogno di aggiungerle molto nel disegno e soprattutto nella espressione per renderla sveglia e caratteristica, come la trattò Raffaello. Ti ricorderai sempre come la tratto colà in Roma il Sanzio nel celebre Parnaso, dove comecché Dante sia messo con tanti valentuomini dell'antichità greca e latina, vi comparisce con tipo o carattere cosi ardito, che alla presenza di quella immagine ci porta piuttosto a dire che non l'arte ma la sua poesia l'abbia rappresentato! E Raffaello la levó per certo dai monumenti fiorentini tenuti con grande cura, conosciuti ed affermati dal Vasari sotto la data del 4544 nella sua vita, mentre pur egli dalla testa antica del Poeta all'amico Luca Martini levò un suo ritratto.

Lamentano poi, ed è una maraviglia udire questi signori, come gli antichi in quell'effigie che ci tramandarono del Poeta, procurarono rappresentarlo piuttosto sotto le forme di una brutta vecchia, mentre non si sa neppure in qual'età lo desiderino: nel codice Laurenziano dispiace loro vederlo gravato dagli anni in quell'aspetto : nell'affresco del Bargello non va loro punto a genio vederlo cosi giovane, dandone, con assoluta ed arrisicata espressione, brutta colpa persino a'ritocchi del restauratore già professore Marini, il quale come si comportasse nei lavori è a tutti ben noto! Anche questo giudizio è fratello di quello che fa emettergli piacere ad essi l'effigie nel quadro in S. Maria del Fiore, e proporre anzi l'altra alfatto diversa che vien data dal codice Riccardiano! Ed il ritratto Laurenziano non va per nulla a loro genio; neppure gli è raccomandazione a spender più considerata parola su di esso, il titolo sotto il quale gli si offre, come somministrato da un Ardinghelli, che probabilmente lo avrà levato dalla cappella di famiglia in S. Trinita di Firenze! Il Vasari nella vita di Lorenzo Monaco, dice chiaro e tondo, che in questa chiesa e nella cappella Ardinghelli questo pittore - fece di naturale il ritratto di Dante e del Petrarca. Ed il ritratto Laurenziano appunto ha tutta la verisimiglianza d'esser levato da un originale di qualche grandezza ed approssimativamente al vero, ritraendolo in tutta la figura e nel suo completo costume, osservazione che sola basterebbe a dargli per ora una grande importanza. Un ritratto di Dante in piedi ed in costume, non è cosa che si veda tutti i giorni; quindi par certo da non disprezzarsi quando l'antichità ce ne dà qualcuno.

Fattasi adunque dai signori Milanesi e Passerini elezione con quel voto del ritratto che nomineremo Riccardiano, non è loro da menar buona, almen pare, la data che gli affermano; perciò laddove ripudiano quella del codice Laurenziano, non il 1327 ma il tempo che viene

dall'esarazione del codice, collo stesso mezzo e collo stesso raziocinio si ripudia la data di questo Riccardiano da loro messa in campo. Il codice Laurenziano lo trovano essi scritto da Bese Ardinghelli vissuto fin oltre al 1470; al contrario il codice Riccardiano assicurano appartenuto a quanto appare dallo stemma e dalle iniziali a Paclo di Jacopo Giannotti nato nel 1430, però gratuitamente per quest'ultimo, e dicendolo con franchezza, lo asseriscono anche con una certa contradizione. Ora l'affare non va se non si capovolta come un oriolo a polvere, cessata la vagliatura. Bisogna, caro Frullani, per uscire dalla contradizione di questa data, anteporre piuttosto il Laurenziano al Riccardiano, soggiungendo che nel codice segna. to 1261 Strozziano presentemente codice 139 (Palchetto III) Magliabechiano, ci è una data molto anteriore, cioè il 4455 per segnar l'epoca di quando Bese Ardinghelli s'esercitava a trascrivere. Ivi: Scripto per me Bese Ardinghegli addi VIII di Maggio et ad hore quattro di nocie anno D. MCCCCLV. Questo codice porta innanzi l'arme dei Guasconi. Ha pagine 192 numerate da una sola parte e contiene la Fiorità di M. Armanno Giudice già da Bologna indi da Fabriano. Ricordato ciò, l'esame del codice Laurenziano dovuto allo stesso Bese, comecchè mancante della data per segnatura, deve appunto credersi delle prime copie da lui condotte innanzi a quel di sopra. Ma il codice Riccardiano voluto invece più autentico, comecchè più antico, che cosa ha mai che ne giustifichi la data? Non altro, risponderemo, che un attestato cosi a secco gittato in tavola da quei signori con dirci : Paolo di Jacopo Giannotti nato nel 1430. L'albero dei Giannotti compilato dallo stesso signor Passerini ed impresso a p. xxxix del tomo I delle Opere di Donato Giannotti pubblicate dal Vannucci e Polidori, Firenze Le Monnier, 1850, in 16mo, piuttosto che dare Paolo di Jacopo nato nel 1430 mette Paolo di Jacopo SQUITTINATO 1433. Quindi come si agevolano a costatare il fatto della conformità dell'arme dipinta nel codice, deducendola di quel Giannotti, cadono a nostro parere in più grave errore, per. chè in fine degli esami l'arme non è de' Giannotti che per la figura, non corrispondendo punto nei colori che nell'araldica sono propriamente il tutto. Almen quattro son le famiglie fiorentine che approssimativamente a memoria potrebbero arguirsi come dei Giannotti per l'arme: Rustici, Ricciardi, Panichi e Buonaccorsi, ma in tutte v'è la sua disparità dei colori che in arte hanno pure un significato. Ora richiamando l'attenzione a quell'albero Giannotti fatto dal signor Passerini e vedendosene ivi l'arme co'respettivi colori, alla prova si dice: Giannotti con arme rappresentante un grifone alato rampante d'argento in campo rosso con banda azzurra (Priořista Ridolfi nell' Archivio delle Riformazioni di Firenze): codice Riccardiano 1040 con arme rappresentante un grifone alato ram. pante d'oro in campo azzurro e banda rossa più verisimigliante ai Buonaccorsi. Ma stringendo l'argomentazione più forte avviene che assicuratamente svanisca il cognome dei Giannotti e l'arme della famiglia per conseguenza, perché quella nota di Paolo Jacopo non è che una svista. Nella pressa della loro occupazione perché non accudirono ed avvertirono quindi che il codice in quel luogo della segnatura aveva una malefatta? Qualcuno

avendone avuta comodità vi ha grattato un non so che nome innanzi, e grossolanamente con audacia imperita, ve n'ha lasciata la traccia così leggendosi sulla cartapecora della guardia in alto del foglio, in carattere stampatello cubitale.

......

DI IACOPO DI PAGHOLO

- QUESTO LIBRO È DI e non Paolo di Jacopo. Che si stia almeno in chiave !! Questa testimonianza, o signori, non salvò la vostra avvedutezza, nè il sostenimento del vostro assunto. Avanti di Jacopo di Pagholo ci fu per certo un nome, e senza forse, il rasamento del medesimo sulla cartapecora è ancor recente. Poi chi ammetterebbe che il possessore del codice nell'atto di contrassegnarlo per propria assicurazione lasciasse collo spazio in bianco il suo nome per dire di chi era figliuolo e nominarci altresi l'avo? ciò avrebbe equiparato allo stesso che a non averne un proprio; ed allora la volontà sarebbe stata distrutta dall'impotenza, che avrebbe finito col nol cimentarlo a prender quella nota. Finalmente il codice è uno di quei della famiglia Venturi, a catalogo di questa casa n.o 26. Quando più occorra, non sarà nemmeno perduta tutta la speranza d'interamente saperlo ne'suoi particolari, e forse anche nella integrità della nota ora ignorantemente guasta, o non a sufficienza o non in tempo supplita.

Né qui, carissimo Frullani, si compendia tutta quanta la storia che volessi potessi narrarti intorno a gillar giù e dissipare quella data ed asserita autenticità del codice Riccardiano in discorso, poichè v'è ben altra argomentazione da prendersi sul serio, nè so come sfuggita a que' benemeriti. V'è (comporta ch' io protragga ancora la lettera) v'è, riferisco come l'ho potuto leggere, un epigramma latino sotto a quel ritratto, allusivo a chi rappresenta, ed esprimente come e chi quello facesse fare.

Qui cecinil coelum et qui stygiamque paludem
Umbrarum poenas, limina coeca docens,
Ecce vides vatem; levis membrana superbum

Continet: hunc tantum parca morere velat. Nella relazione Milanesi e Passerini non v'è accennato come se non fosse vero e questo è il loro gran male; perchè quando l'avessero avvertito, si crederebbe che fosse loro sfuggito anche il restante sotto all'epigramma in una segnatura che ricorda uno scrittore più del 1500 che del 1400, un certo Abruzzese filosofo, che scrisse un trattato della natura d'Amore, ed in cui distingue un bel capitolo dal nome di Dante, rammentato ed acclamato dimolto in Mantova ? Sapendo quanta predilezione bai posta per gli scrittori di tali materie piuttosto antichi, m'immagino a questi connotati dove va a cadere la tua induzione; e parmi che mi suggerisca un Mario Equicola. Si, io replico, pare questi Mario Equicola che prese cura del codice, che dacchè contiene le rime d'Amore del Poeta lo decorò di quella immagine del Divino per gratitudine de' suoi studii; e cosi appunto è che sotto all'epigramma si distingue la sua segnatura MARIUS BRUCIENS anche quando, senza poi tanta fatica per vedervi addentro, non si presuma fare

Come vecchio sartor fa nella cruna.

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