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Tutti i secoli, tutte le scuole, tutti i partiti politici trascinarono la Divina Commedia nel proprio concetto, ne' proprii propositi; ogni studioso di qualche lena vide in quella la propria idea; solo la nazione non la studiò mai. La collezione adunque di tutto che fu scritto sopra Dante ne darà all' Italia non solo la più bella storia che mai s' avesse della sua vita civile, politica e letteraria dal decimoquarto secolo in giù; ma ancora ne darà forse un sano e forte indirizzo agli studi da farsi, onde poi ne esca alcuna volta quel commento nazionale del concetto dantesco, che tuttavia manca; e che solo dovrà raggiungere quella verità, la quale per sì lungo volger di tempo si è inutilmente da tante generazioni cercata, e che avvierà l'Italia in sul vero cammino della sua grandezza.

Quando un tale progetto non fosse trovato al tutto spregevole, ameremmo vedere incaricarsene la stessa onorevolissima Commissione all' uopo della festa instituita; o altrimenti, nominasse Ella apposito comitato, il quale aprisse la sottoscrizione, e coadiuvandosi di chi meglio ritenesse al proposito, s'occupasse di quant'altro concerne la nazionale pubblicazione. E se tutti i 7000 Municipi del Regno accettassero, siccome dovrebbero, la proposta, per poco che ognuno contribuisse, s'avrebbe già in breve tempo un bel fondo, e potrebbesi por mano al lavoro, aprendo intanto un'associazione a modicissimo prezzo; e che, fatti i debiti calcoli, stesse il più possibile al di sotto del costo vero dell' opera; onde col minimo incomodo quasi ogni famiglia italiana s'avesse la Biblioteca Dantesca: chè questa è la ragione potentissima per cui noi vorremmo che tale impresa non si lasciasse in mano del commercio.

Troverebbesigallora mezzo facile di incarnare il concetto di Monnier, e di Ranieri, se già la collezione stessa non rispondesse di per sè al bisogno troppo giustamente sentito; e la generosa Firenze, che con tanto affetto rammarica non avere ancora placato l'ombra del suo Dante, secondochè a noi pure, dovrebbe tenersi a grande conforto di vederselo ritornare incoronato dall'Italia che trionfò nel suo pensiero, ed accompagnato da ben cinque secoli che gli furono alunni.

Ma noi dicemmo a principio dovere anche il Governo prendere parte al gran Centenario; ed ora ecco quale sarebbe la nostra opinione sul proposito. Al Governo s'apparterrebbe d'instituire dodici o quindici cattedre per tutto il Regno al solo uopo di interpretare Dante, le quali s'aprirebbero il dì fissato per la festa ; ed ordinare che i primi Professori, che le ottenessero, fondassero un collegio, il quale, chiamando a sussidio le menti tutte d'Italia, si studiasse di dare due nuovi commenti della Divina Commedia, l'uno scientifico, l'altro popolare; chè il letterario s'è fatto già, ed anche troppo.

Di questa guisa si educherebbe il popolo a quella sobrietà e fermezza di che tanto abbisognamo, e si riporterebbero la filosofia e la letteratura italiana alle loro vere e pure origini; d'onde quello insieme di civiltà che è retaggio dei popoli che compirono la loro espiazione. E questo è omai troppo necessario di fare, conciossiachè ci troviamo tanto grossamente disviati dal vero nello studio di quel nostro Grande, che pare per fino ci sia difficile di leggerlo. Ed il Governo potrebbe soddisfare al bisogno con ben poco d'aumento nelle spese che sostiene per la istruzione, solo che incominciasse dal sostituire in tutte le università la cattedra di Dante, che ben degnamente terrebbe il posto, alla cattedra di letteratura italiana. La quale in alcuna città non capite bene a che vi sia stata posta; poichè mentre andate nello intendimento di udirci alcuno erudito e saggio confronto fra la vita della letteratura e quella della civiltà, della scienza e della politica, o qualche altro insegnamento che sia all'altezza che si vuole, non è raro siate costretti ad assistere a qualche lettura d'autori, che ognuno potrebbe farsi di per sè; e ad udire osservazioni grammaticali, buone appena pe' giovanetti delle scuole primarie. Ed è poi di questa guisa che non sapendosi dare alcun buono indirizzo allo insegnamento, si rendono dispetti gli ordinamenti scolastici, e non si raggiunge l'altissimo intento, e vitale per noi, dell' educare la nazione.

Ma ci si perdoni la digressione, la quale non s'ebbe altro fine, che di sempre meglio mostrare come le cattedre di Dante in Italia potrebbero venire utilissime, e come si presenti facile il mezzo di istituirle. Che se poi il Governo non credesse suo compito questa istituzione, il che noi non vorremmo credere, allora suppliscano gli stessi Municipi; e pensino alla vergogna grande che è per l'Italia, già venuta a sua vita, il non istudiare come dovrebbe il libro de' suoi dolori e delle sue speranze; mentre conosciuto appena il sommo Poema, Firenze, avvengachè vi fosse duramente sferzata e vi si mostrassero a nudo le sue piaghe, lo volle pubblicamente letto ed interpretato al popolo. L. SAVORINI.

Studi Danteschi

LEZIONI intorno alle condizioni morali e politiche d'Italia, in relazione alle Dottrine di Dante, dette al pubblico dal Prof. T. ZAULI SAJANI, nel R. Istituto tecnico di Forlì.

I.

I. Come un umile e zelante ministro di Dio per inspirarsi a discorrere dell' alta legge d'amore inse

gnata dal divino Maestro apre divoto il gran libro degli Evangeli, io, povero d'ingegno ma ardente in patria carità, per ispirarmi a ragionare delle presenti condizioni morali e politiche d' Italia, apro anch' io una bibbia, il poema sacro, che è la bibbia della nazione italiana; il gran poema che rivela all' Italia l'altissima legge onde la Provvidenza ad alti e novelli destini l'ha richiamata.

Pensate con qual sacra riverenza in questo santuario dell'arte e della scienza io apra questo libro, che mi è stato unico conforto nelle vicissitudini del lungo esilio e che ha sempre tenuta viva la mia fede politica, questo libro su cui ho veduto inchinarsi con divozione lo straniero maravigliato! Pensate con quanto amore io lo apra dinanzi a voi, egregi alunni, che con me dovete farne tesoro, dinanzi a voi amici e concittadini, che amantissimi della patria vedete giubbilanti com'essa incarni finalmente tutte le dottrine del suo poeta.

Ah sì, dopo sei lunghi secoli.... (ma che importa? i secoli nella vita delle nazioni son giorni; la nazione ha fatto un passo gigante e i secoli sono scomparsi) dopo sei secoli alfine vediamo in atto il grande concepimento del poeta, l'unità politica d'Italia sotto un solo monarca, e vediamo che sta per compiersi l'unità religiosa sotto un nuovo pontificato, che spogliandosi dell' ultimo brano del temporale ammanto, innalzi la tiara al solo e vero splendore che le prefiggono cielo e terra. Chi avesse dubbio che questo non fosse per divenire un fatto compito, sconoscerebbe questa bibbia, rinnegherebbe la storia, i secoli, i popoli, l' Italia.... e Dante.

L'Italia da lungo tempo si prostrava divota dinanzi al monumento di S. Croce onorando l'altissimo poeta. Ora quel monumento più non basta. La sua Fiorenza interprete della profonda gratitudine della nazione, uno ben più grande e colossale col concorso di tutti i Municipii italiani gliene sta inalzando, su cui può essere scritto: L'Italia di Dante a Dante. E noi vicini alla Città sorella che raccolse le ceneri di quel grande e gelosa le custodisce, tanto vicini che possiamo sentire il fremito di gioia delle venerande ossa, ponendo anche noi col patrio municipio la nostra pietra al nuovo monumento, ringraziamo il gran padre. E qual miglior mezzo di ringraziarlo che quello di aprire il suo libro?

Già l'ombra benedetta maestosa innalzandosi dalla sua tomba ci guarda, e ripete con un sorriso di compiacenza :

Ma l'alta Provvidenza che con Scipio

Difese a Roma la gloria del mondo
Soccorrà Italia siccome io concipio.

II. Entriamo nel gran vestibolo del poema, nella più alta delle allegorie che conosca la poesia: entria

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movi devoti perchè quest'allegoria non è solo la chiave del poema, ma è il simbolo della redenzione politica da Dante preconizzata. Se ne scrissero non SO se io mi dica volumi o biblioteche. Solo quello che fu dettato intorno al Veltro di Dante che doveva per sempre cacciare la Lupa, non capirebbe in questa Sala. Ma era naturale che il Veltro di Dante, figlio dell'Ispirazione, figlio dell' « Est Deus in nobis, agitante calescimus illo » dovesse rimanere un' incognita sino alla spiegazione che le han dato i secoli e l'evento. Il vero tempo di scoprir Dante in Dante è questo. Finora la paura dei papi da un lato, le passioni di parte dall' altro cambiarono il Commento nel sofisma e nell' enigma. Il Rosetti vide in Dante un precursore di Lutero solo perchè dalle lettere della parola Veltro può formarsi l'anagramma di Lutero.

Compiangiamo fra la moltitudine dei commentatori quelli che assalirono il poema quasi scalar volessero il cielo, mentre la figura colossale del Poeta, accennando del dito il suo libro, si rimaneva immobile nei secoli e noi, risalendo a seicento anni addietro, poniamoci al culmine del 300 nella settimana santa di quell' anno che fu del giubbileo, in cui suppone il poeta aver avuta l'eccelsa visione, e quinci guardando come da un sicuro punto di vista alla storia di quel secolo, alla biografia di Dante, vediamo come il senso dell' allegoria scaturisca per sè medesimo secondo il grande intendimento che s'ebbe il poeta di riformare il secolo vincendo l'imperversare delle parti ed unificando l'Italia.

III. Ecco da un lato l' Impero, dall'altro la Chiesa; in Germania gl' imperatori, in Roma i papi; nel mezzo i Comuni d'Italia sorti a libertà non ad indipendenza; e precipuo dei Comuni, Firenze. Tutti tre questi poteri, chiesastico, imperiale e municipale vantano antica rassodata legittimità. I due sommi si dichiarono l'un dall' altro indipendenti, anzi l'uno sull' altro riciprocamente pretendono il municipale si attiene o ai papi o agl'imperatori, e dentro il governo delle città è un'altra maniera di governo in mano di uomini di parte che con nomi presi d'oltremonte si chiamano Guelfi e Ghibellini; Guelfi o Wulf (Lupi) quelli che parteggiano pei papi, Ghibellini o Guibelling quelli che stanno per gl' imperatori.

:

Come fossero le cose a questi termini venute io non dirò. Non dirò come i Carolingi, ripristinando l'impero d'Occidente per ottenere la sanzione religiosa dei papi facessero ai papi la funesta donazione, ossia dessero loro in feudo una parte d'Italia, е come i papi che dovevan consacrare gl' imperatori pretendessero poi di far dell' impero un feudo della Chiesa; non dirò come nella gran contesa fra il trono e la tiara toccasse agli estremi il furore delle parti ; dirò bensì che questa confusione, questo disordine di

principii politici e morali son quelli appunto che fornivano materia al Poeta di richiamare all' ordine il secolo, e già l'alta mente preparavasi a redarguire insieme papi, imperatori e fazioni.

sempre che gli stranieri non potessero vincere gl'Italiani senza l'aiuto d'Italiani.

Cacciati i Ghibellini, i Guelfi rimasti padroni del campo, ecco succedere un fatto che vi prego di av

E contro il governo temporale dei papi dispone- vertire, perchè domina la storia del mondo, contro

vasi a tuonare :

Soleva Roma che il buon mondo feo

Due soli aver che l'una e l'altra strada Facean vedere e del mondo e di Deo: L'un l'altro ha spento ed è giunta la spada Col pastorale, e l' uno e l'altro insieme Per viva forza mal convien che vada, Perocché, giunti, l'un l'altro non teme.

Di' oggimai che la Chiesa di Roma,

Per confondere in sè due reggimenti,
Cada nel fango e sè brutta e la soma.

Contro gl'imperatori che voleva residenti in Roma vero e solo seggio dell' impero, fulminerà:

Giusto giudicio dalle stelle caggia

Sovra il suo sangue, e sia nuovo ed aperto Tal che il tuo successor temenza n' aggia; Che avete tu e il tuo padre sofferto

Per cupidigia di costà distretti

Che il giardin dello imperio sia diserto.

Infine contro la furia delle parti, fosser di Guelfi o Ghibellini, con isdegno di padre sclama:

Abi serva Italia di dolor ostello,

Nave senza nocchiero in gran tempesta, Non donna di provincia ma bordello !.... Ahi che ora in te non stanno senza guerra Li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode

renze.

Di quei che un muro ed una fossa serra!

IV. Ma la più afflitta del furore delle parti era Fi- | Firenze, nata del gentil seme latino, aveva accolto ordini tutto democratici, salendo in fama di aurei costumi sinchè si rimase dentro della cerchia antica al tempo di Bellincion Berti e del nobile antenato di Dante, Cacciaguida. Vi si udì la prima volta coi soliti nomi stranieri di Guelfi e di Ghibellini il grido di guerra civile, colpa di quel Mosca che per persuadere ai congiurati compagni la morte di Buondelmonte, disse il celebre motto: Cosa fatta capo ha. In queste fazioni durò col sopravvento Guelfo sinchè Farinata degli Uberti fece correr l' Arbia colorata in rosso di guelfo sangue, e poi nuovo Camillo impedì la distruzione della patria, dando tanta materia alla sublime poesia di Dante. Ma ripresero lena i Guelfi per non più cessare i trionfi, collegandosi ai papi e agli Angioini capi della esagerata guelfa parte, e così infranciosandosi all'ombra dei papi', e dando principio a quel male augurato destino per cui si parve

segna sventure delle nazioni e quelle principalmente d'Italia. I Guelfi dopo la vittoria si dividono in due fazioni, all' una delle quali fan capo i Cerchi, all'altra i Donati. Dalle fazioni dei Cancellieri di Pistoia, che tratti per pace a Firenze vi comunicano invece il loro fuoco, prendono nome (nome almeno italiano) di Bianchi e di Neri; i Bianchi di moderate opinioni, i Neri di esagerate e violenti; ed ecco parere (strano giuoco delle parti) che i Bianchi si accostassero ai Ghibellini, dacchè i Neri s' accostarono agli esagerati Guelfi francesi. Ad ogni modo avendo la peggio che cosa fecero costoro che allora si chiamavano Neri? Quello che fanno in somiglianti casi gli uomini di streme parti per ottenere ad ogni costo il trionfo invocano l'aiuto straniero e rovesciano sulla infelice patria....

E qui se non avessimo veduto fino a ieri e troppo duramente sperimentato l' imperversare delle parti, se io non credessi che avessimo già imparato abbastanza, che guai alle nazioni le quali dopo la vittoria si dividono, io userei una dolorosa parola per ritrarre in qualche modo il viluppo delle ire crudeli, del matto orgoglio e delle pervicacie cittadine che tanto danno portarono alla patria; ma mi contento dire che quella congerie di passioni in acerba lotta fra loro, quel disordine morale e politico, quei tempi sciagurati, erano la selva oscura, tanto selvaggia ed aspra e forte in cui potè smarrirsi il sovrumano ingegno dell'esule Poeta, la selva degna di essere dominata da fiere (Pantera, Lione e Lupa), simboleggianti i capi di quell' estremo disordine.

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V. Ma a temperare l'orrore di queste immagini, riviva ora nella nostra mente il Poeta, non terribile, arcigno, come quasi sempre il veggiamo ritratto, dacchè i nostri padri non si curarono che di presentarcelo aggravato dai dolori dell' esilio, o quasi tinto del calore d'inferno, come dicevano averlo veduto le donne di Verona, ma riviva giovane e bello, qual ricomparve non ha molto nella Cappella del Potestà in Firenze dipinto per mano di Giotto, quando l'arte tolse dalla parete il fratesco intonaco che per tanti secoli l'aveva ricoperto. Guardate i tratti dell' angelico volto, da cui spira quasi un aere di paradiso; guardate quella fronte irradiata di lume che già sembra veder Dio nella sua Donna, e in Dio:

Legato con amore in un volume
Ciò che per l'universo si squaderna.

ser

Già per lei è salutato Poeta, per lei è uscito dalla schiera del volgo, ha insegnato agl' Italiani come amar si debba la Donna per trarne le più sante ispirazioni che dettano la grazia, l'onestà e la bellezza; già fatte ha in campo prove di onorato cavaliere, nè colla spada gli basta aver vito la Patria se non la serve colla parola. Nato nobile si fa di popolo; tanto ardeva di lanciarsi in mezzo alle pubbliche cose! Ed eccolo muovere ambasciadore a tutte le Corti, sostenere in meno di 7 anni 14 Legazioni, fra cui le più splendide quelle alla Repubblica di Venezia, al re di Napoli, al re di Francia, ed a quel papa Bonifacio VIII presso cui doveva la quarta volta con infausti auspici ritornare. Ed acquistatasi fama del miglior diplomatico del suo tempo, e studiati gli uomini ed il secolo, i popoli ed i governi, eccolo pervenire ai sommi onori della Repubblica e fra i Priori delle arti quegli che solo governa; nè finito il suo tempo, coll' ufficio gli cessa l'autorità moderatrice, perocchè, come scrive il Boccaccio: « in lui tutta la fede pubblica, in lui tutte le speranze, in lui sommariamente le cose divine e le umane parevano esser fermate ».

VI. Mutarono rapidamente le sue sorti, ma l' infortunio dei grandi uomini anzi che romper la loro missione o l'agevola o la crea! I Neri imperversano : si raccolgono in chiesa, deliberarono trattare con Bonifacio VIII acciò mandi a Firenze per sedare i tumulti e riformare lo stato, in qualità di pacificatore, Carlo di Valese fratello al re di Francia, Filippo il Bello. Dante, che io non chiamerò Bianco, e molto meno Ghibellino, perchè fin d'allora era quel che era pei suoi grandi fini, ma che contro la fazione nera aveva mostrato la più gran virtù dell' uomo di stato, la moderazione; Dante nell'anima altamente italiana freme all' idea d'intervenzione straniera e francese: è inviato a Bonifacio per distornarla, e parte per la funesta legazione che doveva chiudergli per sempre il ritorno in Patria.

Se

Oh, condonate, condonate a quella mente che troppo si sentiva superare agli uomini del suo tempo, l'alterezza che proferir gli fece: vo' chi rimane, e se rimango, chi va? perchè se veramente avesse potuto ad un tempo andare e rimanere, Carlo di Valese, che ruppe ogni data fede, che (come fanno sempre gli stranieri invocati) sotto colore di pace portò la guerra, la guerra più detestabile perchè fraterna, e che favoreggiò i Neri per disfare all' intutto la parte bianca, Carlo di Valese non sarebbe entrato in Firenze e quivi non avrebbe avuto luogo una di quelle scene di devastazione di violenza di strage e d' incendio che per sei secoli furono la parte precipua della Storia d'Italia.

VII. E di qui comincia l'esilio del Poeta e coll'esilio il poema sacro a cui pongon mano e cielo e terra. Impresso la mente delle più alte idee d'ordine e di unità, onde si genera la forza morale e materiale delle nazioni; colpito dai mali con che in fazioni perenni si agitavano le repubbliche, alle quali mancava la più essenzial condizione di vita, l'indipendenza; altra salute non vedendo per gl'Italiani che richiamarli all' unità politica sotto due grandi potestà l'una ben dall' altra distinta, la civile e la religiosa; altra gloria per l'Italia che ricostituirla sotto l'autorità d'un imperatore all'ombra del gran nome di Roma in Roma residente, e mercè il quale avessero libertà i Comuni, indipendenza la patria; si fa nel duro esilio cantore della rettitudine, rivelatore del giudizio di Dio, perchè tremino i cattivi, esultino i buoni, e perchè Pietro, il cui regno non è di questo mondo, non usurpi a Cesare ciò che è di Cesare. Però scende per un' immensa spirale fino al centro degli abissi, sale al monte dove lo spirito si purifica dalla colpa, indi fissando l'occhio in Beatrice, mentre Beatrice l'affigge nel sole, per virtù di quello sguardo si sente rapito alla gloria del Paradiso. E prima di consumare nella tricolorata Iri divina la vista del Dio trino ed uno, manifesta la speranza di essere, la mercè del sacro poema, richiamato in Patria per meglio bandire alle genti da quell' altezza le verità che in Dio ha veduto. Registrate nella mente questi versi divini che sono nell' ultimo del Paradiso:

Se mai continga che il Poema sacro,

Al quale ha posto mano e cielo e terra, E che m'ha fatto per più anni macro, Vinca la crudeltà che fuor mi serra

Dal patrio ovile, ov' io dormii agnello Nemico ai lupi che mi fanno guerra; Con altra voce allor, con altro vello

Ritornerò poeta, e sulla fonte

Del mio battesmo prenderò il cappello !

VIII. Aprite adesso il 1.o Canto della 1. Cantica. Poichè nel mezzo dell' umano cammino egli si è smarrito nell' oscura selva delle parti, che gli hanno procacciato il dolore dell'esilio, e tenta pure di uscirne con onore, il che non può fare che salendo all' altezza della Patria, di cui aspira al ritorno con tutta la potenza del cuore e vuole il disinganno con tutta la forza dell' intelletto; ecco appunto apparirgli il colle che la rappresenta, irradiato dall' eterno sole della speranza. E soffermatosi alquanto per riprender lena si ripone a salire. Se non che al cominciar dell'erta anzitutto la stessa sua terra natale, Firenze, divisa in Bianchi e Neri, e perciò figurata da una Pantera o Lonza di pelo maculato, s' intromette fra

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lui e quell' altezza. E tenta, e ritenta commosso.... chè la Patria mai non si diparte da' suoi occhi, ma alfine è per ritornar più volte volto. Oh amici, in questa espressione da alcuni creduta un gioco di parole, è tutto il cuore, tutta la storia dell' infelicità del poeta, è la più alta poesia imitativa dell' infortunio che lo travolve! Ma è l'ora del mattino, la stagione di Primavera in cui pare che il mondo si rinnovelli, e il cuore dell' uomo si riapra alla speranza, perciò il Poeta in faccia alla pur divisa sua terra natale che tanto ama, prende cagione a bene sperare.

Quand' ecco in aiuto della Pantera, ecco la guelfa esagerata, la sempre superba Corte di Francia, con quel suo Carlo di Valese, simboleggiata dall'affamato orgoglioso Lione che il passo gli contende. Ed ecco presso il Lione, con lui strettamente collegata, anzi ammogliata, un' altra peggior bestia, un mostro che rappresenta la potestà temporale dei papi, la corte simoniaca non mai satolla d'oro e di potere, una Lupa che nella sua magrezza sembra carica di ogni desiderio, e che Dopo il pasto ha più fame che pria. Questa, questa più dell' altre fiere lo molesta, questa gli fa perdere la speranza di uguagliarsi all' altezza della Patria.

E fugge, e fugge e ruina in basso loco, giù pel gran deserto a cui fan selva i disordini morali e politici, quando di contro a quelle belve gli appare una figura umana, una sembianza venerabile che pel lungo disuso della parola pareva fioca, come sempre avviene anche ai migliori che lor facoltà non eserciE questa umana figura è un riverbero di sè stesso, de' suoi studii, del suo concetto, infine è la sua propria inspirazione, che solo Dante poteva personificare; ma è l' inspirazione che gli vien dalla terra coll' aurea veste del miglior secolo delle latine

tano.

lettere; con quella veste che dopo la notte dell' ignoranza ei voleva dare alle italiane; infine è l' inspirazione sotto le forme di Virgilio che adombrano quelle di Dante. E il dialogo che ha luogo fra loro è quello della fantasia che ragiona col cuore, che sollevandosi senza tempo sui secoli profetizza un Veltro, una potenza nazionale che di età in età deve conquidere la lupa ingorda, la lupa invidiosa della potestà di Cesare; un Veltro che di età in età deve cacciarla per ogni terra, finchè l' avrà rimessa nello inferno, dal quale l'invidia (il distintivo delle fazioni) l'invidia dapprima l'aveva fatta uscir fuori. Ora se questa sia veramente l'ultima età della lupa io lascio a voi considerare. Contro un nuovo Carlo di Valese, che troppo voglia prolungare gli ultimi aneliti della lupa, c'è un Veltro che rappresenta la forza dei secoli, la potenza della Nazione!

E già l'inspirazione, seguimi, grida a Dante. Non è per la via ingombra dalla lupa poligama, dalla lupa che mangia sempre e sempre uccide, che tu potrai uguagliarti all' altezza della patria, ma per la strada della gloria. Seguimi, e ad ammaestramento dei vivi ti aprirò il regno dei morti prima dei morti che mandano in perpetuo disperate strida, e poi di quelli che sono contenti fra le purificanti fiamme della speranza. Nè altro potrai attendere dall' inspirazione della terra. Per salire al riso dei celesti ti bisogna l' inspirazione raccolta dagli occhi della tua Donna in Dio. Così, solo così vincerai la pervicacia delle parti, e richiamato in Patria ti assiderai trionfante nel maggior tempio di quella terra che ingiustamente ti ha sbandito.

Ma meglio che dalle mie povere parole sentitelo dalla prima cantica dell' immortale Poema. TOMM. ZAULI SAIANI.

AVVERTENZA. LA DIVINA COMMEDIA, quadro sinottico analitico del sig. Luigi Mancini, che, fra le Notizie del N.o 2, fu annunziata come pubblicata in Forlì, è invece pubblicata in Fano.

Fratelli Nistri, Tipografi Librai in Pisa.

Commento di FRANCESCO da BUTI sopra la Divina Commedia di DANTE ALLIGHIERI (letto nella Università di Pisa dal 1365 al 1440, Testo di Lingua inedito, citato dagli Accademici della Crusca el loro Vocabolario) pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa 1858-1862. Tre gr. Tomi in 8.° con Ritratto di Dante dip. da Giotto, e del Buti.. it. L. 45, 00 Lo stesso, Edizione da Biblioteche, in 8.° massimo di carta imperiale con margini allargati (ediz. di 75 esempl.). » 75, 00 Ediz. citata nella ristampa (che è in corso) del Vocabolario della Crusca. Si spedirà franca per posta nel Regno a chi ne rimetterà agli Editori in Pisa l'importo con Vaglia Postale.

TIP. GALILEIANA DI M. Cellini e C.

SI

Gli articoli letterari compresi nella parte non officiale di questo Giornale non si potranno riprodurre senza licenza della Direzione.

Saranno tenuti per associati coloro che non respingeranno i primi tre numeri del Giornale.

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G. CORSINI Direttore-Gerente.

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