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Firenze. Innamorato fra le Alpi del Casentino diresti che vinto da maggior cura ei voglia prendere commiato per sempre dall' ingrata patria con que' versi si pietosi;

O montanina mia canzon, tu vai;
Forse vedrai Fiorenza la mia terra,
Che fuor di sè mi serra

Vuota d'amore e nuda di pietate.

Se dentro v'entri, va dicendo: omai
Non vi può fare il mio signor più guerra,
Là ond' io vegno una catena il serra
Tal, che se piega vostra crudeltate
Non ha di ritornar più libertate.

ma non gli credere; non vi è catena sì forte che il tenesse dal volare in patria, pur che una via s'aprisse al fuoruscito. Se illuso ei corre dietro a quel novo fantasma di amore, faccia solo un cenno la vera, l'eterna Donna del suo cuore, Firenze, e si vedrà chi la vince. Come potrebbe trovar pace altrove che sotto il materno tetto chi lasciò scritte queste parole memorabili che nessuno che abbia cuore potrà mai leggere senza intenerire. « Io ho pietà di tutti i miseri, ma più di coloro che si macerano nell'esiglio, ridotti a non vedere le patrie loro che in sogno? (1) » Invano l'amico Giovanni del Virgilio lo invita a venire a Bologna dove gli è destinata la corona di poeta; lungi dalle sponde dell'Arno nessuna corona è sì bella, sì lusinghiera che tocchi il cuore all'esule fiorentino. Ma se venga mai dì che dinanzi alla gloria che a lei ne verrà dal sacro poema al quale han posto mano e cielo e terra sia vinta al fine la crudeltà che il serra fuori dell'ovile dove si dormiva troppo sicuramente egli agnello fra i lupi, con altra voce allora, con altra veste tornerà in patria il poeta giubilando, e là sul fonte del suo battesimo, nel suo bel San Giovanni si cingerà di quel nobile alloro che la patria soltanto gli può rendere bello e prezioso. La mestissima imagine di quel dolce nido natio dove aveva lasciata ogni cosa più caramente diletta gli stava sempre dinanzi agli occhi; questo era il lento fuoco che sì gli aveva consunto le ossa che oramai non poteva sperare più pace che nel sepolcro (Dante, Canzone XIX, stanza 5). Però dovendo assegnare orribile pena a gravissima colpa non seppe per quel suo famoso falsator di monete che fu maestro Adamo da Brescia trovare strazio più atroce che imaginarlo laggiù nell' ultima

(1) Piget me cunatis, sed pietatem majorem illorum habeo, quicumque in exsilio tabescentes patriam tantum somniando recisunt. De Vulg. Eloq. Lib. II, c. 6. Non mi sono valso della traduzione del Trissino, che il Foscolo a tutta ragione chiama pessima, sì ti riesce quasi sempre infedele pur di mezzo allo sforzo di darti ogni parola del testo, onde talvolta travolge il senso.

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Li ruscelletti che dai verdi colli

Del Casentin discendon giuso in Arno,
Facendo i lor canali freddi e molli;

perchè a lui profugo innocente non si affacciava maggior tormento dell' imagine delle acque del suo Arno,

e dei colli che fanno corona alla bella città di Flora. Ma pur la speranza non l'abbandonava, e poichè gli falliva quell'aiuto qualunque che a sè, all'Italia troppo lungamente implorava dai principi di Germania, voleva egli, fattasi parte per sè stesso, coll'opera di quell' ingegno che forse gli era stato cagione non ultima dell'esilio, procacciarsi in patria il ritorno. Dovrà dunque il poema sacro sul quale già da tanti anni dimagriva farsi per lui la lancia di Peleo che feriva e sanava le piaghe fatte, e forse si apponeva quando gli fosse bastata più a lungo la vita. Perocchè s'egli è vero che l'altezza a che altri accenna di voler salire coll' ingegno lo espone ai colpi dell' invidia, che le più alte cime più per cote, vero è altresì che assai volte dove alfine tant' alto ei si levi da torre altrui la speranza di arrivarlo, vede volgersi improvviso i nemici in adoratori (1). Nè io saprei pensare più magnanima vendetta contro una patria ingrata di questa ch' ei divisava contro Firenze sua, quella poco amorevol madre che in lui respingea dal suo seno il più grande de'suoi figli, di obbligarla cioè a ricredersi dell' iniquo bando per ammirazione di un nome, e della vendetta fare stromento la gloria stessa onde quel nome unica la dovea rendere nel mondo. Prof. A. ZONCADA.

IL GRAN RIFIUTO

E

IL DOTT. BARLOW

Virgilio dopo avere aperto a Dante chi fossero gli sciaurati che correvano senza posa nella regione antinfernale, gli dice ch'essi non meritano ch' altri parli o si arresti a contemplarli.

Non ragioniam di lor, ma guarda e passa !

E Dante passando guarda, e riconosce alcuni della gran turba; ma questi non gli offrono un tipo netto, spiccato di quella genia, finché, guardando ancora, non gli cade sott'occhio un'ombra, al veder la quale egli in

(4) A questo modo si spiega come Dante potesse senza cadere in contradizione con sè medesimo nel Convito (Trat. I, c. 3) dolersi che l'aver scritto sublimi cose gli fosse stato cagione di esiglio e di povertà, e nel Paradiso (canto xx1), lusingarsi che la gloria del poema sacro gli dovesse aprir le porte di Firenze.

contanente intese e fu certo del carattere di tal setta, meglio che non fosse per le parole che intorno ad essa gli aveva fatte Virgilio.

Ma chi era dunque quest' ombra? Dante non lo dice esplicitamente della immensa moltitudine e' non degna nominare alcuno, sendo la loro vita troppo bassa da meritare che il nome di alcuno di essi sia ripetuto ai posteri. Però egli non indica quell'ombra se non con una circonlocuzione:

L'ombra di colui

Che fece per viltate il gran rifiuto.

A chi voleva Dante accennare con queste parole? Certo a una persona reale e determinata, a una persona istorica, dappoiché la vista di lei gli fe' meglio comprendere il carattere generale di quella moltitudine. Quindi cade di per sé la supposizione del Landino che il poeta abbia lasciato al lettore la cura di determinarla, e quanto a sé non abbia inteso alcuno individuo in particolare. Se dunque si ha da intendere in essa una persona storica vediamo quale sia da scegliere tra quelle a cui Dante poteva attribuire un tale atto mosso da tale cagione, il gran rifiuto fatto per viltà.

I più tra'comentatori si antichi come moderni credono che Dante abbia voluto alludere a Celestino V che fece il gran rifiuto della dignità pontificale. Tra quelli i più autorevoli Pietro di Dante, l'Ottimo, il Boccaccio, il Buti. Nessuno però di questi lo afferma come cosa del tutto certa; forse perchè ripugnava loro di dar taccia di vile ad uomo che fu poi canonizzato. Il Boccaccio accenna anche all' opinione di altri che riconoscevano in quel l'ombra Esaù, che per un piatto di lenti rinunzia alla primogenitura. Il Buti, pure ammettendo che Dante abbia inteso in quella Celestino, protesta contro la parola viltà, dicendo che non viltà ma umiltà vera lo mosse. Questa era anche l'opinione del Petrarca, il quale nel Trattato della vita solitaria loda di quell'atto Celestino, affermando «< che per nobiltà d'animo e non per viltà avesse abbandonato il mondo, e si fosse dato alla contemplazione di Dio ». Il che mostra per anco com'egli credesse aver Dante in quel passo inteso parlare di esso pontefice. Più oltre andò Benvenuto da Imola, il quale nega ricisamente che Dante abbia voluto accennare a Celestino; perocchè questo fece si il gran rifiuto, ma non che per viltà, per magnanimità.

Questa considerazione non ritenne il più de' moderni dal seguire la interpretazione comune, non trattandosi qui di giudicare se l'opinione di Dante fosse o no giusta, ma soltanto se tale dovess' essere veramente la sua opinione.

Nondimeno forse fra'moderni un inglese, assai noto tra i cultori degli studii danteschi, il Signore Barlow, che in un opuscolo che ha per titolo Il gran Rifiuto, dato in luce nel 4862 (Londra, Trübner e C.o, 60, Paternoster Row), consentendo con Benvenuto, volle confutare la opinione comune, e riconoscere in colui che fece il gran rifiuto, non già Celestino V, ma Vieri de' Cerchi capo di parte Bianca in Firenze ai tempi dell'Allighieri.

Ecco i principali argomenti ond'egli adopera a mandare a fascio la opinione dei più :

4. Celestino V fu monaco prima di esser pontefice, alla qual dignità rinunziò dopo cinque mesi, non sentendosi atto a questo alto ministero, si per la sua grave età di 79 anni, si per le abitudini semplici della sua vita monacale, preferendo ad ogni mondana considerazione il bene della Chiesa e quello della sua propria anima.

2.° Quest' uomo pio, ben noto negli Abruzzi per la sua santità sotto il nome di Pietro da Morone, non solo fu avuto in riverenza per la sua virtù e i suoi miracoli mentr' era in vita, ma fu altresi nel 4343 ascritto al novero de' Santi.

3.o Egli non solo rinunzio alla sua alta dignità pel bene della Chiesa, ma fu anche martire della sua abdicazione, perocchè essendo egli da alcuni considerato come il papa vero e Bonifacio VIII che gli successe come usurpatore, questi lo fe' chiudere in prigione, dove in breve mori; e quando il suo cadavere, che per ordine di esso Bonifacio era stato sepolto molto a fondo perché altri non potesse esaminarlo, fu poi dissotterrato, si trovò confitto un chiodo nel suo cranio (Bosso, Storia d' Italia, T. xv, l. v, c. 12).

4. Egli abdicò per darsi alla contemplazione divina: or Dante stesso aspirava ad essere un teologo contemplativo, ed ei, che locó i contemplativi si alto nel suo Paradiso, non poteva gittare quel santo monaco nella setta de' cattivi e farne quasi il principale fra' essi tutti.

Questi sono gli argomenti che il Barlow reca a sostegno della parte negativa della sua opinione; or vediamo come ne sostiene la parte positiva.

Non fu, dic' egli, il rifiuto di Celestino, né la elezione che ne segui di Bonifacio VIII che cagionò l'esilio di Dante e il danno della fiorentina repubblica. Dante considerò la sua elezione a priore dal 15 giugno al 15 agosto del 1300, come l'occasione e il principio di tutti i suoi guai. La cagione più prossima poi furono

Li cittadin della città partita,

la discordia ch' ardeva tra essi, e in particolare la condotta di parte selvaggia, cioè de' Bianchi e Guelfi moderati, a cui Dante era associato, rimpetto a quella di parte Nera, dalla cui audacia e violenza i Bianchi si fecero per viltà sopraffare, di che ne venne la loro cacciata e l'esilio di Dante.

Il capo riconosciuto di parte Bianca era M. Vieri de' Cerchi, il quale per la sua ricchezza, la famiglia, i seguaci era il più potente personaggio della repubblica, aveva quasi in sua balia il reggimento della città, e avendo il popolo per sè, teneva in mano tutti i mezzi necessari per dirigere il corso degli eventi, se avesse avuto ingegno e coraggio da tanto. Ma di queste qualità appunto avea difetto si egli come la sua famiglia. Di ciò fan fede gli storici del tempo. Il Villani ne narra difatti che dopo l'ingresso in Firenze di Carlo di Valois, incorrendo nella città Corso Donati co' più tristi e violenti suoi seguaci, Vieri de' Cerchi, anziché muover loro incontro, volle che si lasciassero avanzare. Ma, come scrive Dino Compagni, « i Neri, conoscendo i nemici loro vili e che aveano perduto il vigore, s'avacciarono di prendere la terra ». Gli orrori cominciarono: sacco, incendii assassinii. I priori fecero sonar a stormo la gran campana

Firenze. Innamorato fra le Alpi del Casentino diresti che vinto da maggior cura ei voglia prendere cor miato per sempre dall' ingrata patria con que' v

si pietosi;

O montanina mia canzon, tu vai;

Forse vedrai Fiorenza la mia terra,
Che fuor di sé mi serra

Vuota d'amore e nuda di pietate.
Se dentro v'entri, va dicendo:

Non vi può fare il mio signor
Là ond' io vegno una catena

Tal, che se piega vostra cr
Nou ha di ritornar più li'

ma non gli credere; non
il tenesse dal volare in
s' aprisse al fuoruscito.
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la parte negativa, onde volle provare che colu

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il gran rifiuto, non poteva essere Celestino V.
Per giudicare di ciò, basta esaminare attentamente le
parole di Dante e comentarle con le sue idee.

Fermiamoci a quelle parole il gran rifiuto. Questa idea espressa cosi genericamente non può accennare se non a un fatto storico riguardante persona alto locata e nota ai più. Il rifiuto fu grande; il che vuol dire che colui che lo fece dovette aver rifiutato qualche grande missione, abdicato a qualche grande dignità od ufficio. Or quali erano secondo Dante le dignità più grandi del mondo?

e egli ci dice aver avuto la visione, pure la sua Quella di pontefice, o quella d'imperatore. Dunque il

one pare sia che fra l'ombre de' cattivi, Dante abbia

personaggio che cerchiamo non può essere se non un

voluto cacciare anche dei vivi; ně senza ragione perocchè imperatore o un pontefice.
questi che hanno apparenza di vivi, non sono vivi vera-
mente, non fur mai vivi, e quindi il poeta ha tutto il
diritto di confinarli ancor vivi nel regno dei morti.

Questa ragione sarebbe certo ingegnosa; ma è dessa

abbastanza solida ?

Dante descrivendo la tratta della gente che correvano dietro all' insegna, dice ch' essa era si lunga ch' ei non avrebbe creduto

Che morte tanta n'avesse disfatta. Dunque e' parlava di gente non solo moralmente morta, ma da morte disfatta, realmente morta. E se fra essi avesse voluto porre dei vivi, come non farne un cenno, benché menomo, al lettore? Noi sappiamo che Dante nella penultima partizione dell' ultimo cerchio, nella Tolommea, ha posto anime di persone ancora viventi nel principio del 4300, quali sono Frate Alberigo e Branca d'Oria; anzi fa dare di ciò la spiegazione da uno di essi :

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Poteva egli essere un imperatore? Alcuni comentatori l'ebbero già pensato. Nella Nidobeatina, per esempio, al verso in quistione si trova questa nota: « Non è da credere che Dante intendesse di questo fra Piero, lo quale è canonizzato per santo. Ma intese di Diocleziano imperatore che rifiutò l'imperio, secondo Eutropio ». Ultimamente poi l'editore del comento del Buti ha proposto di riconoscervi Augustolo « colla deposizione del quale mori fra noi la maestà del romano imperio ». Ma questi due comentatori, come gli altri ch'ebbero proposto Esau, non si sono accorti d' una cosa, cioè che Dante qui non parla di un personaggio antico, ma di un contemporaneo morto a' suoi tempi. Ciò si deduce da que' versi:

Poscia che v' ebbi alcun riconosciuto,
Guardai e vidi l'ombra di colui..

Dopo ch'egli ebbe nella turba magna riconosciuto alcuni,
guardo ancora e vide e riconobbe quest' altra ombra. Se
questa non fosse stata di contemporaneo e di persona
ch'egli avesse potuto vedere già viva, non sarebbe venuto
fatto di discernerlo fra le altre, senza che come in tanti
altri casi del poema o Virgilio glie ne rivelasse il nome
o l'ombra di per sé se gli manifestasse.

Concludiamo che quell'ombra doveva essere o di un rati dell'antinferno abbia messo anche de' vivi; chi po-imperatore o di un papa contemporaneo del poeta. Ma

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.e gli affari. Ma un prelato essend prese il partito di abdicare, e in pieno co

di renunziare liberamente e volontariamente

d.

« mosso da cause legittime di umiltà, di desideri
vita migliore, di non ferire la sua coscienza, dalla de-
bolezza del suo corpo, dal difetto di scienza e dalla ma-
lignità del popolo, e per ritrovare il riposo e la conso-
lazione della sua vita passata ». Questi motivi dovettero
parere a Dante troppo mistici e troppo personali. E tanto
meno se ne poté capacitare, in quanto e' dovea credere
ch'esso pontefice fosse stato tratto inconsapevolmente a
questo passo dagl' intrighi del Cardinal Gaetani, che pare
abusasse della credulità di lui fino a fargli udire dal sof-
fitto delle voci notturne che gl' ingiungevano di abdicare.
Il certo è che Dante fu indotto a credere che questa
abdicazione fosse opera di esso Cardinale, che ne profitto

sotto il nome di Bonifacio VIII; di che il poeta gli fa rimprovero nel 19.° dell' Inferno, dicendo ch' ei non temé di torre a inganno

La bella donna (la Chiesa) e dipoi farne strazio. Tutti sanno che ambizioso e cupido e tiranno pontefice fosse costui; e come aspirasse alla teocrazia universale, giungendo la spada col pastorale, sino al punto di dire ad Alberto d'Austria, confermando la sua elezione a imperatore, che rammentasse ch' egli teneva lo scettro dalla mano del pontefice e che questi era libero di di sporre del suo trono. Le chiavi che gli fur concesse divenner segnacolo in vessillo per combattere contro i batnemici tezzati, si che accanitamente persegui i Colonna, di sua famiglia, impadronendosi per forza e per inganno

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Onorate l'altissimo Poeta.

"ENARIO

се

Firenze alla Direzione di M. Cellini e C., e

raio a Barcellona, Tibraio a Torino,

mole
degli stua.
compilatori tre
ricelli di Torricella,
gnor Francesco Scipion
possessori di edizioni e rarit
anzi a cura di quest'ultimo, i
in memoria della visita che il cele.
faceva alla sua collezione dantesca in

Questo libro contiene un commento del co

Giotto, locate

una

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difatti, essendo nominato pontefice in luogo di quello, ricelli, intitolato La Poesia di Dante ed il stello del limbo, nel quale dottamente ragiona Ivari sensi ed allegorie che sono da attribuire Divina Commedia ; ed è con somma cura annotat dal dott. Scolari. Segue poi un Prospetto sinottic delle edizioni della Divina Commedia del Fapanni suddetto, il quale, possessore di 211 edizioni del Poema, di quasi tutte quelle delle opere minori e di circa mille volumi di traduzioni ed illustrazioni in ogni lingua dell'opere di Dante, può ben dirne qualchecosa. Infatti raccoglie in tanti quadri sinottici, chiarissimi anche per i meno esperti, il numero, la data, la qualità e tutti gli altri caratteri delle edizioni dantesche. Da uno di questi quadri, che ci piace qui riportare, resulta che, dopo Venezia, la quale per sè sola ha dato alla luce 57 edizioni della Divina Commedia, vengono queste altre città, col seguente numero di edizioni: Firenze 48, Milano 31, Parigi 28, Napoli 27, Londra 8, Roma 7, Lione 6, Padova, Berlino, Pisa, Bologna e Torino 5, Parma, Bassano e Palermo 4, Brescia, Lipsia, Livorno e Prato 3, Vicenza. Lucca, Verona Colle 2. Dopo vari con

de' loro castelli.

Meno che altri poi s' ebbe a lodare di questo pontefice l'Allighieri, egli che a bella posta era tenuto a bada in Roma da Bonifacio, presso cui s'era recato ambasciatore della fiorentina Repubblica, mentrechè questo inviava a manometterla, da lui stesso chiamato, quel Carlo che invece di portarvi la pace, ne emerse sangue e danaro, e fu causa dell' esilio di Dante e de' migliori cittadini con lui.

sul loro palazzo, ma fu indarno, « perché la gente sbigottita non trasse di casa i Cerchi. Non usci uomo a cavallo né armato ». « I Cerchi si rifuggirono nelle loro case, stando con porte chiuse ». « Tra per la paura l'avarizia, i Cerchi di niente si providono.... E per non dar mangiare a' fanti e per loro viltà, niuna difesa né riparo feciono nella loro cacciata »>.

I Cerchi adunque furono vili e per egoismo e per pusillanimità, e più di tutti vile il loro capo, Vieri, il quale rifiutava di fare agire la sua parte in un momento supremo per la patria, abbandonandola di tal guisa nelle mani di Corso Donati e de' più tristi e arrabbiati Neri, e alla mercede di quel Carlo che altr'arme non adopera che la lancia

Con la qual giostrò Giuda, e quella ponta

Sì ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia.

Quindi la uccisione e la cacciata de' Bianchi, e l'esilio di Dante, e la confisca de' beni di essi, e mille altri danni che afflissero Firenze, conseguenze tutte della viltà di un solo che rifiutò di fare il suo dovere.

Vieri de' Cerchi adunque piuttosto che altro doveva essere inteso da Dante per colui

Che fece per viltate il gran rifiuto.

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Ma qui occorre una obiezione alquanto grave da fare all' inglese scrittore. Come poteva Dante mettere l'anima di Messer Vieri in inferno, nel Marzo del 4300, se questi nel 1302 e chi sa quanti altri anni dipoi era ancor vivo? Lo scrittore pare abbia previsto questa obiezione, sebbene non si esprima molto chiaramente, e confonda il tempo in cui Dante poté scrivere l'inferno col tempo in che egli ci dice aver avuto la visione, pure la sua opinione pare sia che fra l'ombre de' cattivi, Dante abbia voluto cacciare anche dei vivi; nè senza ragione perocchè questi che hanno apparenza di vivi, non sono vivi veramente, non fur mai vivi, e quindi il poeta ha tutto il diritto di confinarli ancor vivi nel regno dei morti.

Questa ragione sarebbe certo ingegnosa; ma è dessa abbastanza solida ?

Dante descrivendo la tratta della gente che correvano dietro all' insegna, dice ch' essa era si lunga ch'ei non avrebbe creduto

Che morte tanta n'avesse disfatta. Dunque e' parlava di gente non solo moralmente morta, ma da morte disfatta, realmente morta. E se fra essi avesse voluto porre dei vivi, come non farne un cenno, benché menomo, al lettore? Noi sappiamo che Dante nella penultima partizione dell' ultimo cerchio, nella Tolommea, ha posto anime di persone ancora viventi nel principio del 4300, quali sono Frate Alberigo e Branca. d'Oria; anzi fa dare di ciò la spiegazione da uno di essi :

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tanto più che Vieri in sua vita non si mostrò sempre cosi pusillanime come nella occasione suddetta; e molto bella prova del suo valore avea dato nella battaglia di Campaldino, essendo a capo de' cavalieri fiorentini, tra i quali era anche Dante, sostenendo con grande animo l'assalto de' cavalieri aretini, ch' erano in numero doppio del loro.

Or che abbiamo confutato la parte positiva della opinione del signor Barlow, vediamo se sia da menargli buona la parte negativa, onde volle provare che colui che fece il gran rifiuto, non poteva essere Celestino V.

Per giudicare di ciò, basta esaminare attentamente le parole di Dante e comentarle con le sue idee.

Fermiamoci a quelle parole il gran rifiuto. Questa idea espressa cosi genericamente non può accennare se non a un fatto storico riguardante persona alto locata e nola ai più. Il rifiuto fu grande; il che vuol dire che colui che lo fece dovette aver rifiutato qualche grande missione, abdicato a qualche grande dignità od ufficio. Or quali erano secondo Dante le dignità più grandi del mondo? Quella di pontefice, o quella d'imperatore. Dunque il personaggio che cerchiamo non può essere se non un imperatore o un pontefice.

Poteva egli essere un imperatore? Alcuni comentatori l'ebbero già pensato. Nella Nidobeatina, per esempio, al verso in quistione si trova questa nota: « Non é da credere che Dante intendesse di questo fra Piero, lo quale è canonizzato per santo. Ma intese di Diocleziano imperatore che rifiutò l'imperio, secondo Eutropio ». Ultimamente poi l'editore del comento del Buti ha proposto di riconoscervi Augustolo « colla deposizione del quale mori fra noi la maestà del romano imperio ». Ma questi due comentatori, come gli altri ch'ebbero proposto Esaù, non si sono accorti d' una cosa, cioè che Dante qui non parla di un personaggio antico, ma di un contemporaneo morto a' suoi tempi. Ciò si deduce da que' versi:

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Dopo ch'egli ebbe nella turba magna riconosciuto alcuni, guardo ancora e vide e riconobbe quest' altra ombra. Se questa non fosse stata di contemporaneo e di persona ch'egli avesse potuto vedere già viva, non sarebbe venuto fatto di discernerlo fra le altre, senza che come in tanti altri casi del poema o Virgilio glie ne rivelasse il nome o l'ombra di per sè se gli manifestasse.

Concludiamo che quell'ombra doveva essere o di un' imperatore o di un papa contemporaneo del poeta. Ma

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