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negli anni della vita di questo precedenti al 45 marzo 1300 (primo giorno del 1301 secondo il computo fiorentino ab incarnatione e primo quindi del decimo quarto secolo), data della visione che Dante ci narra nel suo poema, non vi fu abdicazione d'imperatore, ma soltanto un' abdicazione di pontefice; a questa dunque accenna senza fallo il verso in questione. Questa abdicazione della dignità pontificale fu fatta nel 1294, cinque mesi dopo la sua elezione da Celestino V; dunque Celestino V è, e non altri può essere, colui

Che fece per vilfate il gran rifiuto.

Celestino, vestendo il gran manto di pontefice, spogliỏ l'abito del monaco ma non ne depose lo spirito. Inetto alla vita pubblica, non seppe avere nè la magnanimità per le grandi cose, nè la prudenza per le piccole. Egli aveva dapprima risoluto di farsi costruire in uno de'suoi appartamenti una celletta di legno per chiudervisi e darsi alla contemplazione, lasciando a tre cardinali la cura di spedire gli affari. Ma un prelato essendosi a ciò opposto, prese il partito di abdicare, e in pieno concistoro disse di renunziare liberamente e volontariamente al papato « mosso da cause legittime di umiltà, di desiderio di vita migliore, di non ferire la sua coscienza, dalla debolezza del suo corpo, dal difetto di scienza e dalla malignità del popolo, e per ritrovare il riposo e la consolazione della sua vita passata ». Questi motivi dovettero parere a Dante troppo mistici e troppo personali. E tanto meno se ne potè capacitare, in quanto e' dovea credere ch'esso pontefice fosse stato tratto inconsapevolmente a questo passo dagl' intrighi del Cardinal Gaetani, che pare abusasse della credulità di lui fino a fargli udire dal soffitto delle voci notturne che gl'ingiungevano di abdicare. Il certo è che Dante fu indotto a credere che questa abdicazione fosse opera di esso Cardinale, che ne profittỏ difatti, essendo nominato pontefice in luogo di quello,

sotto il nome di Bonifacio VIII; di che il poeta gli fa rimprovero nel 19.° dell' Inferno, dicendo ch' ei non temé di torre a inganno

La bella donna (la Chiesa) e dipoi farne strazio. Tutti sanno che ambizioso e cupido e tiranno pontefice fosse costui; e come aspirasse alla teocrazia universale, giungendo la spada col pastorale, sino al punto di dire ad Alberto d'Austria, confermando la sua elezione a imperatore, che rammentasse ch' egli teneva lo scettro dalla mano del pontefice e che questi era libero di disporre del suo trono. Le chiavi che gli fur concesse divenner segnacolo in vessillo per combattere contro i battezzati, si che accanitamente persegui i Colonna, nemici di sua famiglia, impadronendosi per forza e per inganno

de' loro castelli.

Meno che altri poi s' ebbe a lodare di questo pontefice l'Allighieri, egli che a bella posta era tenuto a bada in Roma da Bonifacio, presso cui s'era recato ambasciatore della fiorentina Repubblica, mentrechè questo inviava a manometterla, da lui stesso chiamato, quel Carlo che invece di portarvi la pace, ne emerse sangue e danaro, e fu causa dell'esilio di Dante e de' migliori cittadini con lui.

Ciò mostra quanto dovess' esser grave a Dante il ripensare il rifiuto di Celestino, che fu occasione a tanto male; tanto più grave in quanto, conoscendo egli le virtù private di quel pontefice, vedeva quanto bene sarebbe potuto venire alla Chiesa dal rimaner fermo sulla cattedra di Pietro un uomo che era disposto a cibare non terra né peltro,

Ma sapienza e amore e virtute;

e che avrebbe quindi potuto riformare essa Chiesa e ricacciar la lupa in Inferno, se avesse avuto l'animo non timido e fiacco, ma franco e ardito.

Del resto le sue virtù private gli meritarono nel 1343 l'aureola di santo. Ma ciò non poteva aver rattenuto Dante, come suppone il Barlow, dal porlo nell'Antinferno, dappoiché nel 1313 la prima cantica era già scritta e divulgata. Prof. FABIO NANNARELLI.

Bibliografia

Ci pervenne da più tempo, ma fummo impediti di parlarne, un libro stampato a Venezia, piccolo di mole, ma grande per l'interesse che porge ai cultori degli studi danteschi, come appunto s'intitola. Ne sono compilatori tre zelantissimi dantofili, il conte F. M. Torricelli di Torricella, il cav. dott. Filippo Scolari e il signor Francesco Scipione Fapanni, uno dei più ricchi possessori di edizioni e rarità dantesche. Fu pubblicato anzi a cura di quest'ultimo, in soli 160 esemplari, in memoria della visita che il celebre Carlo Witte faceva alla sua collezione dantesca in Venezia.

Questo libro contiene un commento del conte Torricelli, intitolato La Poesia di Dante ed il suo castello del limbo, nel quale dottamente ragiona dei vari sensi ed allegorie che sono da attribuire alla Divina Commedia; ed è con somma cura annotato dal dott. Scolari. Segue poi un Prospetto sinottico delle edizioni della Divina Commedia del Fapanni suddetto, il quale, possessore di 211 edizioni del Poema, di quasi tutte quelle delle opere minori e di circa mille volumi di traduzioni ed illustrazioni in ogni lingua dell'opere di Dante, può ben dirne qualchecosa. Infatti raccoglie in tanti quadri sinottici, chiarissimi anche per i meno esperti, il numero, la data, la qualità e tutti gli altri caratteri delle edizioni dantesche. Da uno di questi quadri, che ci piace qui riportare, resulta che, dopo Venezia, la quale per sè sola ha dato alla luce 57 edizioni della Divina Commedia, vengono queste altre città, col seguente numero di edizioni: Firenze 48, Milano 34, Parigi 28, Napoli 27, Londra 8, Roma 7, Lione 6, Padova, Berlino, Pisa, Bologna e Torino 5, Parma, Bassano e Palermo 4, Brescia, Lipsia, Livorno e Prato 3, Vicenza, Lucca, Verona e Colle 2. Dopo vari con

fronti sul merito, la rarità ec. di tutte le edizioni esistenti, sono aggiunti quattro Desiderata di edizioni della Divina Commedia, delle Opere minori, di alcune traduzioni del poema e di alcuni scritti riguardanti le opere e le persone di Dante, eruditamente compilati; non che una nota di esemplari della Divina Commedia che il sig. Fapanni possiede duplicati, e che si rendono disponibili per cambi relativi e per completare esemplari imperfetti.

È da desiderare che come ci ha raccolto in questo prezioso Prospetto tante notizie, di molte delle quali non si faceva più conto, possa il laborioso e zelante sig. Fapanni darci la completa Bibliografia Dantesca, che manca all'Italia e che egli ci promette.

EPIGRAFI DANTESCHE

Di

Melchiorre Prof. Missirini.

LA NATURA NEL LUNGO SILENZIO DELLE SUE PRODUZIONI

AFFORZO LA SUA VITALE POTENZA

PER CREARE UN DANTE.

FLLA LO CONCESSE ALLA TERRA ONDE CAMPARE L'UMANO PENSIERO
DALLA STUPIDEZZA INTELLETTUALE DELLE BELVE;
INGEGNO MASSIMO AUDACE SUPERBO,

PADRE DELLA LINGUA E DELLA LETTERATURA ITALIANA,
DI MAGNANIMA BILE PIEGHEVOLE SOLO AD AMORE:
QUESTA FIAMMA E L'ANELITO DELLA VENDETTA
GLI SPIRARONO L'ALTISSIMO CANTO

CHE SPARSE LA FRESCHEZZA DELLA VITA SUL PASSATO DESERTO.
ΕΙ PARI ALL'ANTICA MISTICA POESIA

CON IMMENSA CONCEZIONE

ABBRACCIO IL CULTO E LA POLITICA,
CREATORE DELLA VIRTÙ COMBATTITORE DE' VIZI
LE BOLGE DELL' ETERNO PIANTO VISITÒ,

E COL VOLO DELL'AQUILA SALÌ AL SOLE DEGLI ESSERI:
NELLA PITTURA DE' SUPPLIZI TERRIBILE,

IN QUELLA DE' PREMI INSPIRATO E DOLCISSIMO: POTENTE PER LA FORZA E L'EVIDENZA DELLA PAROLA E MIRABILE PER COSTANTE ORIGINALITÀ POSSEDETTE TUTTA L'ANTICA SAPIENZA

E GRAN PARTE DEL FUTURO SCIBILE PRECORSE.

DELLA FESTA NAZIONALE

PER

IL SESTO CENTENARIO

DELLA NASCITA

DI DANTE ALLIGHIERI

aggiuntivi

I CENNI CRONOLOGICI
DELLA VITA, DELLE OPERE E DEL SECOLO DI DANTE
PER BONAVENTURA BELLOMO.

Firenze, Tipografia Galileiana di M. Cellini e C., 1864
Dall'Uffizio di questo Giornale si fanno le spedizioni di
detto libro per tutto il Regno, mediante vaglia postale di
Lire Una in lettera affrancata.

TIP. GALILEIANA DI M. CELLINI E C.

Fratelli Nistri, Tipografi Librai in Pisa.

Commento di FRANCESCO da BUTI sopra la Divina Commedia di DANTE ALLIGHIERI (letto nella Università di Pisa dal 1365 al 1440, Testo di Lingua inedito, citato dagli Accademici della Crusca nel loro Vocabolario) pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa 1858-1862. Tre gr. Tomi in 8.o con Ritratto di Dante dip. da Giotto, e del Buti.. it. L. 45, 00 Lo stesso, Edizione da Biblioteche, in 8.° massimo di carta imperiale con margini allargati (ediz. di 75 esempl.).

>> 75, 00 Ediz. citata nella ristampa (che è in corso) del Vocabolario della Crusca. Si spedirà franca per posta nel Regno a chi ne rimetterà agli Editori in Pisa l'importo con Vaglia Postale.

IL SECOLO DI DANTE

commento storico

NECESSARIO ALL' INTELLIGENZA DELLA DIVINA COMMEDIA

SCRITTO

DA FERDINANDO ARRIVABENE

colle illustrazioni storiche di UGO FOSCOLO

sul Poema di Dante.

Elegante edizione compatta in un volume in 8vo a due colonne. Monza, Tipografia Corbetta, prezzo L. 8.

LA DIVINA COMMEDIA

con note

DI PAOLO COSTA

edizione eseguita sull'ultima fiorentina dal commentatore medesimo rivista ed emendata.

Elegante edizione compatta in un volume in 8vo a due colonne. Monza, Tipografia Corbella, prezzo L. 8. Mediante vaglia postale di sole L. 6. 50 s' invieranno i due volumi suddetti in tutto lo Stato a chi ne farà domanda con lettera affrancata all'editore Carlo Corbetta, tipografo-libraio in Monza. (6)

LA DIVINA COMMEDIA

QUADRO SINOTTICO ANALITICO
DI LUIGI MANCINI

Un Volume al prezzo di Ln. 2, 50. Vendesi a benefizio del Monumento a Dante. Deposito in Firenze alla Libreria Paggi.

LETTERE DANTESCHE

del P. BART. SORIO P. D. O. di Verona, scritte all'Amico Prof. F. LONGHENA di Milano.

Sopra i passi che restano da emendare nella lezione testuale delle più recenti edizioni.

Roma, Tip. delle Belle Arti, 1864.

Si vende in Milano presso Francesco Fusi al prezzo di L. 2.

Si pregano i signori Associati al GIORNALE DEL CENTENARIO a sodisfare il pagamento dell'Associazione.

Gli articoli letterari di questo Giornale non si potranno riprodurre senza licenza della Direzione.

G. CORSINI Direttore-Gerente.

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vinzione di prima, cioè essere quelle opera di Giotto, eccettuatone però la figura sotto la quale sono locate due iscrizioni di cui vengo a parlare. Solamente di una di queste potei, fino dal 1858, rilevare le parole « Hoc opus factum »>. In questi giorni, invitato il sig. Gaetano Milanesi a leggere quella scritta (e l'avessi fatto prima) egli perito come è nello studio delle forme dei caratteri, decifrò di più « civis camerinensis ». Andati all'Archivio di Stato si rinvennero nel libro dei Potestà due della famiglia Varano da Camerino: il primo fu Gentile D. Bernardi de Varano da Camerino, incominciando dal 1311, il 4. Settembre per mesi sei; il secondo D. Fidesmini D. Ridolfi de Varano da Camerino nel 1337 dal 4.0 Luglio per mesi sei.

Essendomi nuovamente assentato da Firenze, al mio ritorno seppi che queste due iscrizioni erano state ripulite, ed una di esse letta per intero. Portatomi sopra il luogo potei leggere: « Hoc opus factum fuit tempore potestarie magnifici et potentis militis domini Fidesmini de Varano civis camerinensis honorabilis potestatis »> (1).

Sopra tale iscrizione ve ne sta un'altra in una finta tabella, ma da quanto potei leggere non trovai allusione alcuna nè alla costruzione della Cappella, né ai soggetti

(4) Le parole tempore, polestarie, domini e onorabilis potestatis sono scrit'e colle abbreviazioni d'uso in quel tempo, e che non possiamo qui riprodurre.

del'e pitture in questa contenute (1). Sta dipinta sopra questa iscrizione la figura già menzionata, la quale per avere l'aureola e tenere la palma nella destra, e nella sinistra un libro, fa conoscere di essere un santo martire, a cui deve alludere l'iscrizione (2).

Siccome questa figura, posta fra le due finestre colle due iscrizioni sotto, è in cattivo stato di conservazione, oltre essere malamente illuminata, era difficile senza una prova di fatto di giudicare se la esecuzione era della mano di Giotto o di qualche suo aiuto nel lavoro. Ciò non osta al mio assunto riguardo al complesso dell'opera, perché tutti sanno come un pittore divenuto maestro facesse sempre uso dei mezzi della propria scuola, servendosi nei grandi lavori d'ognuno dei suoi allievi secondo la loro abilità, e come per tal modo i nostri maggiori ci abbiano lasciato un numero si grande di opere, ove non sempre tutte le parti sono dello stesso merito. Nel Martirologio si trova che Venanzio è un santo martire da Camerino; e nel Litta che un antenato della famiglia Varano pretendeva essere stato presente al martirio di S. Venanzio; quindi è da ritenersi che tale iscrizione intenda parlare di detto Santo, e la data la quale dopo gli anni 4300 manca di qualche cifra, sia quella del tempo in cui Fidesmini de Varano da Camerino fu Potestà, cioè nel 4337 dal 4.o Luglio per mesi sei. La qual cosa starebbe a provare che soltanto questo lavoro fu fatto eseguire dal ricordato Potestà, non già la Cappella nè le pitture in essa contenute. Nè credo possano altrimenti interpre- ❘ tarsi quelle iscrizioni, sia per la loro forma, come per il punto ove sono locate, perchè finalmente io ritengo le altre pitture di Giotto (3).

(1) La iscrizione, [corrosa e mancante di molte lettere e parole si compone di 44 righe. Questa potrebbe, da persona esperta essere restituita in parte od anche del tutto, alla sua forma primitiva.

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(2) Dalla parte dello scritto rimasto sotto ogni pittura di questa Cappella chiaramente riscontrasi per la lettura essere la descrizione del soggetto in ogni dipinto raffigurato.

(3) Nella Collegiata di S. Gemignano sopra un capitello alla sinistra, che sostiene l'arco della Cappella tutta dipinta leggesi: «Tadeus Bartoli de Senis pinxit hanc capellam ».

Nella Cappella del palazzo pubblico di Siena: « Tadeus Bartoli de Senis pinxit istam capellam 4407, etc. ».

Nel Duomo di Orvieto nella Cappella del SS. Corporale: Hanc Capellam depinxit Ugolinus pictor de Urbeveteri anno domini 1364 die Jovis 8 mensis Junii ».

A Montefalco nella chiesa di S. Francesco nei pilastri che mettono al coro in uno: « In nomine Sanctissime Trinitatis hanc Capellam pinxit Benotius Florentinus sub annis domini millesimo quadrigentesimo quinquagesimo secundo. Qualis sit pictor prefactus inspice lector »; nell'altro: « Hoc opus fecit fieri frater Iacobus de Montefalcone ord. Minorum ».

Nella stessa chiesa la Cappella di S. Girolamo ove nella cornice del quadro dipinto sulla parete di detta Cappella,

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Circa al tempo in cui furono eseguite le pitture di questa Cappella, potrei essere per avventura caduto in errore, ma le ragioni che m'indussero a credere essere quelle dal 1300 fino all'esilio di Dante, furono l'età di

periormente: « Opus Benotii de Florentia »; sotto da un lato: « Constructa et depicta est haec capella honorem gloriosi Hieronimi 4452 a 1.o Nov. ».

ma

A S. Geminiano di nuovo nella chiesa di Sant'Agostino abbiamo nel coro, dipinto da Benozzo, in uno dei freschi, nel battesimo di Sant'Ambrogio, un'iscrizione « a dì primo d'Aprile 1464 », e così in un altro le iniziali F. D. M. P. che sono state interpretate: « Frater Dominicus Magister Parisiensis » poi si trova là dove è rappresentato la partenza di Sant'Ambrogio per Roma in un finto cartello portato da Angeli: « Eloqui sacri doctor Parisinus, et ingens Gemignaniaci famae deusque soli, hoc proprio sumptu Dominicus ille sacellum insignem jussit pingere Benotium 1465 ». Qui è da notare la parola sacellum⚫ ed il luogo ove è locata la iscrizione.

Nella Cappella contigua la sagrestia di S. Francesco a Pisa, in un capitello del pilastro che sostiene l'arco il quale mette alla Cappella suddetta dipinta : « Tadeus Bartoli de Senis pinxit hoc

opus anno d.ni 1397 », e nel capitello di contro « Ven. D.na Datuccia de Sardis fecit istam capellam p. anima viri sui et suarum ». Qui è da notare il luogo ove sono locate le scritte.

Nel Capitolo di S. Boraventura nello stesso Convento di S. Francesco di Pisa il nome del pittore leggesi sopra una mensola la quale sostiene una travé del soffitto, e benchè in parte mancante, rilevasi però essere quale la dà Lasinio: « Nicolaus Pétri pictoris de Florentia depinxit. a. d. 1392 »; è da notarsi il luogo.

Un solo esempio trovo nei freschi al Camposanto Pisano, eseguiti da Benozzo Gozzoli, ove una figura nel fresco rappres sentante l'ubriachezza di Noè, porta attorno al collare scritto: « ......us Benotii de Florentia 145...; ma abbiamo poi alla metà del lavoro di tutta l'opera, nel fresco che rappresenta Giuseppe riconosciuto dai fratelli, un'iscrizione in un finto cartello, quale trovasi riportata nel Vasari, Vol. IV, pag. 187.

A Castiglione d'Olona, in Lombardia, nel coro della chiesa in un finto cartello leggesi: « Masolínus de Florentia pinxit », posto in un angolo sotto uno degli affreschi nella volta ma senza « hoc opus ».

In Firenze a Sant'Ambrogio nelle pitture della Cappella del Sacramento leggesi : « Cosimo Roselli f. l'an....», cioè Cosimo Roselli fece.

Nella Cattedrale di Prato, frate Filippo mise in un lato d'uno degli affreschi: « Frater Filippus Op. ». O si deve supporre sottinteso fecit oppure si deve leggere « operavit » ma anche nel primo caso indicherebbe l'insieme dell'opera appunto perché non vi è l'articolo determinativo.

Se nella Cappella del palazzo del Potestà le parole della iscrizione a hoc opus factum fuit tempore ec. », fossero state divise e collocate all' intorno della Cappella (per esempio come nel quadro di Giotto che vedesi a S. Croce formato di cinque tavole) si sarebbe potuto intendere che questa scritta alludesse a tutte le pitture e non a quella soltanto sotto la quale si trova. Sembra che allorquando si voleva indicare l'edificazione d'una Cappella o tutte le opere in quella contenute si facesse uso della parola « Capella» oppure « Sacellum ». Perchè le parole & hoc opus ec. » avessero da indicare l'edificazione d'una Cappella o le pitture tutte in quella contenute, converrebbe non fosse locata l'iscrizione sotto un dato oggetto ed a quel modo come è nella Cappella del palazzo del Potestà, ma sibbene posta in luogo distinto, sopra un capitello di pilastro o colonna, o sopra architrave o mensolà, o sopra la porta all'esterno od all'interno della Cappella stessa.

mostrata dal ritratto di Dante stesso, e il riscontrare nelle pitture del palazzo del Potestà a Firenze gli stessi caratteri che distinguono il dipinto eseguito da Giotto in Roma per Bonifazio VIII nel 1300 (1). E tal lavoro poteva benissimo essere eseguito dal 1300, dopo il ritorno di Giotto da Roma, fino al giorno dell'esilio del gran Poeta, specialmente se il Paradiso fu dipinto per primo.

Le due epoche della storia da studiarsi bene sono: la prima dal 1300 fino all'esilio di Dante, quando il cardinale d'Acquasparta e Carlo di Valois furono a Firenze; la seconda quando il duca di Calabria figlio di Roberto re di Napoli venuto nel 1326 a Firenze, fu festeggiato ed alloggio nel Pretorio, tempo in cui Dante era morto.

Fu osservato da alcuno che Giotto non avrebbe potuto in quel tempo, cioè dal 1300 al 1302, rappresentare l'Inferno, come apparirebbe da quanto rimane di tal dipinto, secondo l'idea dantesca, ma chi dice a noi che Dante non avesse di già il suo concetto nella mente ed anche abbozzato, e comunicato al suo amico Giotto? (2).

Si potrebbe anche dire che Dante non abbia conosciuto Giotto a Firenze, ma nell'esilio; ciò può essere; ma fino ad ora mancano le prove del fatto. E se lo conobbe soltanto in quell'epoca come mai poteva rappresentarlo nel palazzo del Potestà in età anteriore a quella dell'esilio?

Il libro che il divino Poeta tiene sotto il braccio, chi dice a noi che stia a significare il suo poema bello e compiuto, anziché il libro del suo maestro Virgilio od altro qualunque ?

Cosi riguardo al creduto fiore (che quale vedesi ora, è il bozzo fatto sull'intonaco del muro per cui non può distinguersi bene la vera forma) non sappiamo se abbia il pittore voluto fare tre rose, oppure melogranate od altro, onde é difficile dire se intendesse alludere al concetto della Divina Commedia o ad altra cosa.

Relativamente ai diversi ritratti di Dante dirò come io ritenga essere di mano di Giotto quello del palazzo del Podestà in Firenze.

Quello della Palatina nel « ms. Dante, Divina Commedia, cod. membr. sec. XIV » credo essere eseguito sulla fine del 1300, poiché vi si riscontrano quelle caratteristiche, e quel modo che veggonsi nelle figure dipinte da Agnolo Gaddi.

L'altro alla Riccardiana è un ritratto le cui fattezze si allontanano più di questo della Palatina da quello del palazzo del Potestà, e mostra per l'esecuzione tecnica essere fatto dal 4400 al 1450. Cosi pure nella foggia del vestire riscontrasi una modificazione ancora più sensibile.

(1) Nè se si citasse esempio di dipinto eseguito da Giotto, d'un'epoca posteriore al 1300-1302, il quale mostrasse un fare meno grandioso di quello che vedesi nelle pitture del palazzo del Potestà in Firenze, varrebbe a provarmi che non poteva Giotto a quel tempo dipingere in questo modo, quando a Roma precedentemente abbiamo un lavoro che presenta le stesse caratteristiche.

(2) Ed in caso contrario dovrebbe ritenersi tal parte della Cappella dipinta da Giotto posteriormente, nè questo sarebbe certo il solo esempio di opere incominciate, lasciate sospese, e continuate più tardi od anche rifatte dallo stesso maestro.

Quello di Michelino, del 4465, a S. Maria del Fiore può benissimo essere stato copiato da uno più antico, ed anche se si vuole, da quello che Taddeo Gaddi aveva dipinto in S. Croce (e ciò proverebbe che le fattezze di Dante in età matura erano conosciute); ma questo ritratto fu da Michelino reso a quel modo fiacco quale era il sentire del pittore e la scuola alla quale fu educato.

L'altro, piccola figura intera, di profilo, col libro in mano, nel Codice Laurenziano N.o 174, di provenienza Strozzi, insieme ai Trionfi del Petrarca, oltre essere molto scorretto nel disegno, è una caricatura del tipo dantesco in età avanzata. La tecnica esecuzione lo addimostra lavoro eseguito nella seconda metà del secolo decimoquinto.

Trovasi il divino Poeta dipinto da Benozzo Gozzoli nel 4452 nel coro della chiesa di S. Francesco a Montefalco, ove sono rappresentate storie della vita di quel Santo, assieme a Giotto e Petrarca. Sono busti in tre tondi. Sotto Dante è scritto: «Teologus Dantes nullius dogmatis expers »; sotto Giotto: « Pictorum eximius Jottus fundamentum et lux »; sotto Petrarca: « Laureatus Petrarca omnium virtutum monarca ». Sciaguratamente i danni del tempo ed i successivi restauri, e l'ultimo nel 1858, gli hanno talmente deturpati da non lasciar loro niente del carattere originale.

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Un altro ritratto è in Orvieto, dipinto a chiaroscuro da Luca Signorelli nella Cappella del Santissimo, in un tondo (con attorno alcune scene del divino poema), disegnato con quella forza ed energia di cui era capace quel maestro.

Andrea del Castagno nelle pitture, staccate dalla villa Pandolfini, ed ora nella galleria degli Uffizi a Firenze, lo ritrasse dandogli un carattere volgare.

Finalmente Raffaello lo fece due volte a Roma, nella disputa del Sacramento e nel Parnaso, alterandone però il tipo e le fattezze, quantunque nelle forme si manifesti la maestria che era propria di questo grande artista.

Tutti questi ritratti presentano qualche varietà, poiché sono resi secondo l'indole e carattere del pittore, l'arte ed il sentire dei tempi in cui il loro autore è vissuto ; ma con tutto ciò essi con queste modificazioni ci danno però nel complesso un tipo che noi riconosciamo esser quello del grande Poeta, e ci mettono sulla via di ritrovarlo, salendo come di scalino in scalino, di ritratto in ritratto, fino alla loro origine, cioè dire, da quelli di Raffaello fino a quello di Giotto nel palazzo del Potestà (1).

Quanto alla maschera cavata da Dante dopo morte, una ne aveva Stefano Ricci, che doveva servire per il suo monumento in Santa Croce, ma pare non ne facesse uso se bene si guardi l'opera sua. Un'altra ne aveva lo scultore Bartolini, proveniente da Ravenna, la quale passò nelle mani del sig. Seymour Kirkup (2).

(1) È inutile ricordare, come dice il Rosini nella sua Storia della pittura italiana, Vol. III, pag. 55, il ritratto che viene volgarmente, ma con errore manifesto, additato come quello di Dante, il qual ritratto ancor oggi si vede, nella ex-chiesa di S. Michele in Padova dipinta da Iacopo da Verona nel 4397; come pure altri ricordati da vari storici, e che più non si vedono. (2) Vedi inoltre GUALANDI, Memorie originali di Belle Arti; Serie III, pag. 447, anno 4842.

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