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Fra le molte congetture, a cui tale verso ha dato origine, è da preferirne una di Benvenuto Cellini, il quale lo considera un accoppiamento di voci francesi. Per vero in alcuni manoscritti delle opere di Dante il secondo P di Pape è evidentemente un y, onde sembrerebbe che si dovesse leggere: Paye ça tant, Paye ça tant, allez, paix, appositamente però scritto con ortografia italiana e che vorrebbe dire « Paga ciò tanto, paga ciò tanto e andate in pace ». In altri termini se volete passare senza contese, pagate tanto e levatevi di mezzo. I rilievi che inducono ad opinare si fattamente, sono tratti dalle storie del Villani e dal contesto dei sensi che uniscono il 6. al 7. canto. Quivi in succinto si espongono i principali:

4.o Essere costume degli scrittori del trecento porre in bocca ai personaggi stranieri i loro modi di dire nel loro vernacolo famigliare, onde dar maggior evidenza alla narrazione. Veggasi il Villani in conto di Carlo d'Angió; veggasi Dante stesso in proposito del provenzale Armand ec.

2. L'ultimo verso del canto 6.° Quivi trovammo Pluto il gran nemico, che sembra staccato dal componimento, non è altro che la messa in iscena di lui che (verso 69) testè piaggia, e che tutti gli espositori convengono fosse Carlo di Valois, il più gran nemico di Dante, giacchè da lui ripeteva i casi del suo esilio e il confiscamento dei beni.

3.o Questo Carlo era fratello del re di Francia ed era stato inviato dal pontefice come paciere fra i parteggiatori di Toscana ed aperse uffizio da ciò in Firenze in casa Frescobaldi. Essendo costui enfiata labbia, uomo altero e di molte pretese, è facile che, quando assisteva a stipulare atti di pace, usasse abboccare e congedare i contraenti colle frasi: Pagate ciò tanto e fatevi pace.

4. Nel modo usato di leggere il verso in discorso converrebbe ammettere che il Pape fosse voce greca, il Satan caldaica e non mai usata da Dante; l'Aleppe ebraica: miscuglio strano di parole anco più storpiate nella scrittura, di quello sia il verso francese, e quasi destituite di significato, mentre Dante poco più sotto soggiunge che sta al savio gentile di comprendere e saper tutto egregiamente.

5. Che molto più spirito di sarcasmo è in questa pretensione del supposto Pluto che si paghi il passo e lo andare in pace quando sia affacciata con voci famigliari alla persona in discorso, di quello che espressa per voci accattate da lingue poco note a tutti e da Dante istesso del greco e dell'ebraico non molto conoscitore, come risulta dalle biografie di lui più accreditate e veridiche.

6. Che nella supposizione del verso francese il senso verrebbe a rannodarsi assai bene ai versi ed ai sensi posteriori. Così la voce chioccia ci verrebbe a pennelleggiare l'accentatura della pronunzia francese interrotta chiozzante, appetto a quella dolce dell'italiana favella; poi verrebbe a ritrarre il suono della voce particolare di esso d'Angiò non piacevole forse per sé medesima e certo antipatica a chi gli era nemico; infine verrebbe ad annestarsi in essa l'idea del ciottolar delle monete che esso soleva estorcere ne' suoi atti di paciere. Anche il maladelto lupo del verso ottavo entra molto bene al proposito ed è risposta che si assesta di tutto punto al carattere ed alla voracità di esso Carlo; poiché la qualifica di tupo è data dal nostro Poe

ta a tutti i parteggiatori dell'avara Roma e del guelfismo in genere, come prova evidentemente il Balbo nella vita di Dante ed a cui non è mezzo di fare eccezione.

7. In fine Dante avea ben d'uopo di guardar certi enimmi, giacchè lo esprimersi troppo aperto potea fargli costare oltre i mali dello esiglio e confische anche la vita. Molti furono, in quei giorni di eccitamento, per lievi motivi dannati a morte e bruciati vivi, fra i quali Cecco d'Ascoli suo amico. Onde non è a maravigliare se in vece di scrivere con chiara ortografia di parole francesi adoperò ortografia italiana benissimo acconcia a mantenere l'enimma e non dare troppo nell'occhio e provo→→ care direttamente le ire del suo accanito avversario. Dott. G. COLtelli.

COMMENTO BIOGRAFICO-STORICO

ALLA

DIVINA COMMEDIA

(Continuazione, V. N.o 31, pag. 251). Cleopatra.

Poi è Cleopatras lussuriosa. (Inf., c. V).

Cleopatra regina d'Egitto figlia e sorella di quel Tolomeo, per espresso ordine del quale dicesi fosse spento Pompeo; giusta le leggi del paese si unì in matrimonio al fratello, ma col disegno di regnar sola, sebbene il Senato di Roma favorisse i diritti del giovine re. Dotta in sei o sette lingue, nel fiore dell'età, vivace e tutta grazia e bellezza si presentò a Cesare per difendere con questi mezzi di seduzione le proprie pretensioni al trono de' Tolomei. Preso all'esca di tanti vezzi, di tanto sapere il vincitor delle Gallie si dichiarò suo difensore e patrono appo il senato, e depose i suoi allori a' piedi di cotesta maliarda. Nello stesso modo sedusse Antonio, e lo eccitò a rimandar la buona Ottavia, che era la pace tra il marito ęd Ottavio nipote di Cesare. Antonio ed Ottavio di triumviri e colleghi di tirannide divennero emuli nel potere assoluto, e ad Azio sparsero sangue romano, sangue fraterno. Cleopatra comandava una flotta a lato a quella del drudo. Ma datasi alla fuga mentre l'armata navale era tuttavia intatta, Antonio preferendola alla gloria, alla propria fortuna le tenne dietro, ed Ottavio ebbe piena vittoria. Cleopatra, dopo la disfatta e la morte di Antonio, per non esser dal vincitore trascinata, ornamento del trionfo, sul Cam

pidoglio, vestitasi del più splendido e ricco paludamento, col mezzo di un aspide si dette la morte.

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melli, fu moglie di Menelao re di Sparta. Appo il quale ospitato cortesemente Paride, figlio di Priamo re di Troja, s'invaghi della costei bellezza ed ella di lui, e di sua volontà, al dire di Dante, abbondonò il talamo del figlio di Atreo e seguì il giovine frigio, come altra volta aveva seguito Teseo. Agamennone fratello di Menelao fece proprio l'oltraggio ricevuto. dal tradito, ed uniti con altri molti re della Grecia cinsero d'assedio la città di Priamo e di Paride, ed espugnata dopo il corso di dieci anni, Elena dovè tornarsene a Lacedemone; veduto prima per causa sua fumar d'alto incendio Troja ed alzati per le vie monti di cadaveri e frigii e greci. È chi dice che comprasse il perdono di Menelao consegnando alla sua vendetta Deifobo sposato dopo la morte di Paride. Morto Menelao, da Sparta trasse a Rodi presso Polisso sua parente, che la fece impiccare ad un albero siccome cagione di tante stragi.

Achille.

..... e vidi il grande Achille,

Che con amore alfine combatteo. (Inf., c. V).

Achille figlio di Peleo re di Tessaglia fu ammaestrato da Chirone con rigida educazione guerriera, che dal Venosino gli meritò questo epiteto: Impiger, iracundus, inexorabilis, acer... nihil non arrogens armis. Saputo dall'oracolo ch'ei perirebbe alla guerra troiana, la madre mandollo incognito in abito femminile sotto il nome di Pirra alla corte di Licomede re di Sciro. « Si rese lussurioso e lascivo, scrive il dotto Vellutello; prima per aver conosciuto Deidamia la figliuola di Licomede, la quale di lui generò Pirro, poi condotto a Troia appo i Greci per opera di Ulisse che lo scoverse mostrandogli delle armi ed esagerando le glorie dei Greci appo Troia ». S'innamorò e possedè l'amore di Briseida, figliuola di Brisseo sacerdote; la quale essendogli tolta da Agamennone, soffri per grave sdegno star molto tempo senza volersi armare e che i Greci fossero malmenati da' Troiani. Ultimamente si innamorò di Polissena figliuola di Priamo, e trattando con Ecuba madre di lei di volerla sposare, si condusse per questo nella città, ove fu da Paris a tradimento ucciso. Sicchè il combatter con amore, può spiegarsi per capitar male. Difatti l'incauto si era dimenticato che la famiglia di Priamo aveva a vendicar su lui Ettore ucciso, e fu dal tessalo fiero trascinato lungo le mura della città nemica.

Paride.

Vidi Paris, Tristano ec. (Inf., c. V).

Forse il Paride rapitore di Elena, di che abbiamo già fatto cenno? o non piuttosto un Paris cavaliere

TIP. GALILEIANA DI M. CELLINI E C.

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Fratelli Nistri, Tipografi Librai in Pisa. Commento di FRANCESCO da BUTI sopra la Divina Commedia di Dante ALLIGHIERI (letto nella Univer sità di Pisa dal 1365 al 1440, Testo di Lingua inedito, citato dagli Accademici della Crusca nel loro Vocabolario) pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa 1858-1862. Tre gr. Tomi in 8.o con Ritratto di Dante dip. da Giotto, e del Buti.. it. L. 45, 00 - Lo stesso, Edizione da Biblioteche, in 8. massimo di carta imperiale con margini allargati (edis. di 75 esempl.).

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» 75,00

Ediz. citata nella ristampa (che è in corso) del VocaboSi spedirà franca per posta nel Regno a chi ne rimetterà agli Editori in Pisa l'importo Postale.

con Vaglia

G. CORSINI Direttore-Gerente.

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Diario delle cose fiorentine dal 1340 al 4381 di Guido di Francesco Monaldi.

1341. Pace de' Visconti colla Chiesa.

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I Fiorentini comprano Lucca da Mastino della Scala per 250,000 fiorini; ne prendono possesso, ma sono disfatti da'Pisani a' 2 di Ottobre. Francesco Petrarca nel giorno 8 di Aprile è coronato in Campidoglio da Orso conte dell'Anguillara, senatore di Roma.

D Niccolò Acciajuoli dà principio alla fabbrica nella Certosa a Montaguto di Firenze. 1342. Morte di Don Pietro d'Aragona, re di Sicilia, a cui succede Ludovico suo figliuolo sotto la tutela di Giovanni duca di Rondazzo. Gualtieri di Brienne, duca d'Atene finge modestia per salire al potere, ottenuto il quale comincia ad angariare i cittadini, e togliere

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Il giorno di Sant'Anna il popolo fiorentino non potendo più sopportare la tirannia del duca d'Atene, al grido « Viva il popolo e 'l Commune e libertà! » muove contro al tiranno che è assalito in casa. Gualtieri non potendo far resistenza, nè ottenere accordi dal popolo consegna il palazzo nelle mani del vescovo Agnolo degli Acciajuoli uno de' capi della congiura, e, si ritorna a Poppi nel Casentino. Molti storici raccontarono minutamente la cacciata del duca d'Atene, fra' quali Villani (Giov.), Marchionne di Coppo Stefani, e in bellissima prosa Machiavelli.

1314. I Fiorentini fanno nuove leggi contro i grandi, che l'anno innanzi erano stati costretti a rinunziare gli uffizj. '

Giottino dipinge nel Palazzo del Podestà il duca d'Atene co' suoi ministri.

1345. Taddeo Gaddi rifà il Ponte Vecchio in Firenze terminato il dì 18 di Luglio.

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Senso e idea, dubbio e fede, vizio e virtù, verità ed errore, egoismo e carità!... ecco l'assidua lotta tremenda, che richiede bene spesso la costanza d'un martire e la fortezza d'un eroe. È la vera lotta di Ercole e di Anteo, la pugna de' Titani che amano sottrarsi all'impero di Giove, il martirio di Prometeo che patisce perchè grande, reo solo di aver beneficato l'umanità; e ciò ne' tempi mitologici, nei tempi del ricco politeismo ellenico, ne' tempi della brillante fantasia omerica, ovvero della teogoni a di Esiodo. Ne' tempi rinnovati dell' Evangelio, o come dir si vogliano palingenesiaci, è la battaglia dell'angiolo della luce contro lo spirito delle tenebre, che pronunzia la terribile parola: Non serviam, cade, e nel cadere, dietro di sè trascinasi le stelle. Variamente rappresentato dal genio delle religioni, è sempre lo stesso mito, il vero istesso, che, nel suo proteiforme aspetto idoleggiato, ci si presenta, e che, tradotto dalla immaginazione esteriore negli ordini sociali, alla moderna letteratura ha dato i Masnadieri di Schiller, l'Amleto di Shakspeare, el Fausto di Goethe, drammi che in sè chiudono il problema de lla umanità futura. Insomma è la civiltà progredente

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L'anima, da Dio creata a sua immagine e somigli anza, e quindi fatta a deliziarsi di tutto ciò ch'è ve ro, buono, bello, amerebbe vedere la giustizia in trionfo su la terra, tributati omaggi alla virtù e il merito solo di lauri eterni incoronato. Invece osserva l'empietà esaltata sino a' cedri del Libano, l'ignoranza seder regina in aurea scranna, la sapienza gemer mestamente al basso. Trova e tuttodì verifica ciò che nell'Ecclesiaste è registrato, nè la corsa cioè essere serbata a' veloci, nè la guerra a'valorosi, nè l'onore a' savi, nè la ricchezza a' dotti, nè il favore agli artefici; ma sovrana ed arbitra degli eventi signor eggiar la sorte, e questa (come sagacemente ne av verte il Macchiavelli) esser sovente di chi, scaltro ed astuto, primo l'acciuffa pe' capelli. Infatti dove il premio delle magnanime azioni, delle grandi imprese, delle fatiche negli studi durate, de' pericoli affrontali e vinti; per lo contrario ove la pena de'tristi? Di qui quel fremito generoso che l'animo rigonfia de' grandi artisti, i quali, non partecipando alle orgie sfrenate del senso, nauseati da bassezze e da turpitudini che loro inspirano invincibile ribrezzo, e però veggendosi in manifesta contradizione con tutto il mondo esterno, disingannati si ritirano come in loro stessi, si concentrano come nella propria esistenza, mentalmente si creano un nuovo ordine di cose immensamente più vago, e, rifugiandosi in Dio, in lui vivono di estasi beata in un altro mondo, quello delle scienze, delle lettere, delle arti belle, ch'eglino poscia propongono ad archetipo nella umanità, ed in cui specchiandosi le sorvegnenti generazioni, corrono anele ad ispirarvisi. Esso di fatto altro non è che il mondo dello spirito, il mondo delle idee; e il cosmo ideale, è la più viva ed energica espressione della vita del pensiero, ove nulla può l'alternarsi delle umane vicende, ed ove perciò tutto è serenità, bellezza ed armonia, quasi preludio d'un mondo novello, di gran lunga migliore, e di cui questo non è che l'ombra e la figura. E per tal modo rivelasi la virtù della mente, la quale appunto ha la potenza di trasferire nella incertezza de' fatti le alte leggi della ragione, e mostrare di sotto al mondo fuggevole e menzognero de' fenomeni e delle apparenze, il mondo stabile ed eterno della verità; il che esser non può che l'opera del Genio soltanto.

II.

E Dante, affacciatosi appena alla vita pubblica, v ede, e con occhi impietriti dallo spavento, il mondo allagato di vizi, il cuore rotto ad ogni sorta di libertinaggio, e la mente, che avrebbe dovuto esserne fida scorta e sicura, intenebrata e sovvertita da principj, che, invece di menare l'umanità per le vie della rettitudine e del miglioramento sociale, la risospingevano entro la cupa notte della barbarie, nelle tenebre dell'evo-medio. Occorreva a tanto male opporre un convenevole rimedio; ed ei seppe bellamente incarnare questa triforme idea nel piano più che ammirabile dell'opera sua, col simboleggiare (come il Gravina ci fa saggiamente avvertire), nell'Inferno il mondo de' vizi, nel Purgatorio il cuore che si purifica tra le fomme del divino amore, e nel Paradiso il rapimento e la beatitudine di un'anima, che, fatta astrazione da'sensi, elevasi alla contemplazione delle verità pure ed eterne. E in ciò fare, fu Dante Allighieri il precursore di Giambattista Vico. L'umanità di fatto (a proposito dice Quinet), nella sua marcia trionfale al conseguimento dell' ultimo suo fine, è preceduta, come da colonna di fuoco, dalla poesia: è seguita, come da notte calma e serena, dalla filosofia. La prima è epoca di creazione, e quindi di sintesi; la seconda è epoca di riflessione, e quindi di analisi; le quali, armonizzandosi insieme, ne danno la civiltà. E tra la Divina Commedia del primo e la Scienza Nuova del secondo ricorre tale una identità di natura e di concepimento, che, se la teorica di Pitagora fosse tuttora consentita dalle scuole, strano forse non parrebbe il credere che l'anima dell' illustre poeta fiorentino siasi ripetuta in quella del non meno illustre filosofo partenopeo. Ed invero, chi non resta profondamente ammirato alla comparazione di questi due geni che tanto onorai.o l'umanità ?

Dante si finge smarrito in una selva selvaggia ed aspra e forte, che nel pensier gli rinnova la paura, tanto era il notturno orrore ond' era oscura; e se (moralmente inteso il Poema) Dante è figura dell'uomo genere, non per anco illuminato dal sole della grazia divina, o dal celeste lume della scienza, profane o sacre che siano, quella selva, presa in senso più lato, è (come Dante stesso dichiara nel Convito) la selva erronea di questa vita, la selva degli umani errori e de' vizi umani, la folta ed intralciatissima selva, che una volta copriva tutta la terra, e in cui, dopo le acque del diluvio (giusta il Vico), andò girovagando l' uman genere, in cerca di cibo, di sorgenti e di donne, onde, sparso e disperso, a poco a poco tralignando, imbarbari. La selva dantesca e la vichiana, sono perciò identiche tra loro.

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