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Dante mori inonorato e non compianto in patria. Leggasi il Boccaccio sul fine della Vita, il quale scrive anche di peggio. E fuori di patria i nemici della sua schietta maniera di pensare e di dire gli diedero voce poco meno che di eretico: tanto che un suo figliuolo dovette spendere un'intera Canzone a purgarlo da questa taccia. Non è adunque verisimile che Dante ottenesse codesta specie di distinzione subito dopo morte, come è certo che la ottenne di poi. Esso giaceva exigua tumuli sorte anche ai tempi di quel Bembo che ne senti, non saprei dire se più sdegno o pietà per tutti gl' Italiani. E al gesso che ando fin qui attorno come prototipo di quel volto solennemente sdegnoso non pare che possa attribuirsi antichità maggiore di quella che abbiano gli studi di Pietro Lombardo pel monumento in Ravenna; finché, come replico, non si abbia prova indubitata che del viso di Dante appena morto fosse levata la forma: quod adhuc desideratur. Vale.

Dalla Biblioteca Medicco-Laurenziana
20 Gennaio 4865.

LUIGI CRISOSTOMO FERRUCCI.

GODI O FIRENZE

SE NEL DI MEMORABILE NON TI È DATO ACCOGLIERE LE CENERI DEL TUO GRAN CONCITTADINO VIVE LO SPIRITO DI LUI INCORONATO IN UN RE DALL'IMMORTALE VOLUME

PREDETTO

TE VIVENTE

O SOVRANO GIUDICATORE DE' TEMPI DIVISA ERA ITALIA IN DISCORDIA FIRENZE SEI SECOLI DOPO LA TUA PARTITA MIRA LA NAZIONE REDENTA CHE FESTEGGIANDO IL GLORIOSO TUO NOME PIÙ SALDA E CONGIUNTA

NELLE VICINE SPERANZE

FA CAPO NELLA FIGLIA DI ROMA

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Fratelli Nistri, Tipografi Librai in Pisa.

Commento di FRANCESCO da BUTI sopra la Divina Commedia di DANTE ALLIGHIERI (letto nella Università di Pisa dal 1365 al 1440, Testo di Lingua inedito, citato dagli Accademici della Crusca nel loro Vocabolario) pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa 1858-1862. Tre gr. Tomi in 8.o con Ritratto di Dante dip. da Giotto, e del Buli.. it. L. 45, 00 Lo stesso, Edizione da Biblioteche, in 8.o massimo di carta imperiale con margini allargati (ediz. di 75 esempl.). >> 75,00 Ediz. citata nella ristampa (che è in corso) del Vocabolario della Crusca. Si spedirà franca per posta nel Regno a chi ne rimetterà agli Editori in Pisa l'importo con Vaglia Postale.

TIP. GALILEIANA DI M. CELLINI E C.

DELLA FESTA NAZIONALE

PER

IL SESTO CENTENARIO

DELLA NASCITA

DI DANTE ALLIGHIERI

aggiuntivi

I CENNI CRONOLOGICI

DELLA VITA, DELLE OPERE E DEL SECOLO DI DANTE
PER BONAVENTURA BELLOMO.

Firenze, Tipografia Galileiana di M. Cellini e C. 1864.
Dall'Uffizio di questo Giornale si fanno le spedizioni di
detto libro per tutto il Regno, mediante vaglia postale di
Lire Una in lettera affrancata.

G. CORSINI Direttore-Gerente.

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La sotto-Commissione che venne incaricata di redigere il Programma della Festa di Dante lavorò per cinque mesi onde preparare un adeguato alla solennità del Centenario. Compiuto quel lavoro essa dovè occupare circa un altro mese per ridurlo, conforme le nuove determinazioni prese dalla Commissione generale. Ora il nuovo Programma fu presentato al Municipio e la sotto-Commissione proponendolo ebbe in vista che le cose in quello indicate potessero prepararsi nel tempo che resta. Però se il Municipio ritarda di soverchio questa approvazione vi è pericolo che in questo importante argomento, Firenze resti al di sotto della sua

Le associazioni per l'Italia si ricevono in Firenze alla Direzione del Giornale, alla Tipografia Galileiana di M. Cellini e C., e presso i principali Librai.

Incaricati generali per le Associazioni:

Per la Spagna e Portogallo, Sig. Verdaguer, libraio a Barcellona, Rambla del Centro;

Per il resto d'Europa: Sig. Ermanno Loescher, libraio a Torino, Via Carlo Alberto, N.° 5.

fama, ed oggi tanto più che non tutti parlano favorevolmente di lei. Pensi dunque il Municipio che spontaneamente deliberò il Centenario, e che dopo aver messo il campo a rumore non sarebbe punto onorevole per lui che si buttasse la cosa dietro le spalle. La festa del Centenario è cosa della massima importanza, non solo per il carattere fiorentino di riparazione che può avere, ma e molto più per il carattere nazionale che doveva prendere, e prende infatti ogni giorno più. Pensi anche che quella sarà la festa della civiltà, e che tutte le nazioni vi voglion prender parte; pensi infine che Maggio ci viene addosso; e che abbastanza fatiche avrà chi dovrà provvedere alla preparazione delle feste, perchè, indugiando ancora, gli si scemi un tempo prezioso. Ora i lavori, ritardati per cause maggiori sono compiuti, e al Municipio solo tocca il risolvere e subito. A questa condizione si potrà soltanto fare che le feste riescano almeno decorosamente.

DEL RITRATTO DI DANTE NELLA CAPPELLA DEL POTESTÀ

IN FIRENZE

ATTRIBUITO A GIOTTO *

Seconda Memoria della Commissione incaricata dal ministero della Pubblica Istruzione delle ricerche sul più autentico ritratto di Dante.

Allorché, richiesti dal passato Ministro della Pubblica Istruzione di ricercare qual fosse il più autentico ritratto dell'Alighieri, dettammo il Rapporto che si legge nel N.o 17 di questo Giornale, dove sotto brevità e per sommi capi sono raccolte le ragioni e gli argomenti che ci avevano fatto anteporre al ritratto in fresco della cappella del Potestà, celebratissimo, perché si vuole dipinto. da Giotto, l'altro in miniatura del codice Riccardiano 1040, noi credevamo di avere adempito, secondo la nostra possibilità, l'onorato incarico che ci era stato commesso.

Ma tostoché quel Rapporto fu pubblicato, vennero fuori alcune scritture, le quali ora all'una, ora all'altra delle cose dette da noi contradicevano. Tra le quali riputiamo degne di maggior considerazione le due del sig. Giovan Battista Cavalcaselle, pittor veronese, come quelle che sono principalmente rivolte a combattere la più importante questione che sia stata messa da noi in campo; cioè, che il ritratto di Dante nella cappella del Potestà di Firenze non sia della mano di Giotto, ma di altro pittore diverso. Al Cavalcaselle si è aggiunto l'illustre marchese Pietro Selvatico, il quale in una sua lettera indirizzata ad uno di noi piglia la medesima difesa.

Pratici ed intendenti com'essi sono delle cose dell'arte, e appassionati ammiratori di Giotto, del quale il Selvatico ha dottamente illustrato alcune opere; non è maraviglia che mal si acconcino a ritenere per falsa una credenza che essi insieme coll'universale avevano sempre riputata per vera; e molto meno è da meravigliare se nel Cavalcaselle noi abbiamo avuto il maggiore e più caldo oppositore, perché, avendo egli seguitato la vecchia opinione nella bella Storia della pittura italiana, che, secondo i materiali raccolti da lui con lungo studio e fatica, si va ora pubblicando in Inghilterra, col suo nome e del Crowe; conosceva quanto importasse al suo amor proprio d'autore e d'artista, ed alla riputazione meritamente acquistatasi di abile conoscitore delle maniere degli antichi maestri, di non lasciar passare, senza combattere con tutti i mezzi che l'arte e la pratica gli prestavano, la nostra opinione.

Ne si pensi che di questa loro opposizione abbiamo noi provato alcuna noia o fastidio, ma sibbene piacere grandissimo, non tanto perchè così ci abbiano dato una molta opportuna occasione di rafforzare, rispondendo,

Per debito di giustizia e perchè in questo giornale si trovi la miglior parte dalle discussioni a cui ha dato luogo la ricerca del ritratto di Dante, pubblichiamo questa replica della Commissione che ne fu incaricata del Ministro della Pubblica Istruzione, al quale, oltre il Rapporto pubblicato nel nostro N.o 47 fu rimesso anche il presente scritto. G. C.

con nuovi e sempre più validi argomenti, l'opinione nostra, quanto ancora, perchè nella presente disquisizione abbiano tenuto que'modi urbani e temperati che ben si addicono a gente civile ed educata; in ciò diversi dagli altri due nostri oppositori, G. Gargani e G. N. Monti, i quali (e sia detto con loro sopportazione) in questa controversia tutta letteraria ed erudita non si sono comportati sempre con quella tranquillità d'animo, e temperanza di parole, che avevamo ragione di riprometterci da loro. Avremmo invero desiderato che tanto gli uni quanto gli altri non avessero preso ad oppugnare chi l'una, chi l'altra, ma tutte insieme le nostre ragioni; perchè essendo tra loro strette e concatenate in modo che si danno e ricevono scambievole forza od aiuto, non possono cosi divise concorrere tanto bene, come fanno unite, alla dimostrazione del nostro assunto.

Ad ogni modo, ritenendo fermi i principali argomenti già da noi portati in appoggio della nostra opinione, e richiamando i nostri avversari a meglio considerarli, perchè crediamo che anche cosi soli come sono, basterebbero a darci vinta la prova; passeremo ad esaminare le più forti ragioni, colle quali essi s'argomentano di combatterci.

E per cominciare dal marchese Selvatico, egli crede che non sia da menarci buona la osservazione fatta da noi, che qualora le pitture della cappella del Potestà fossero state fatte da Giotto nel 1295, o come vuole il Cavalcaselle tra il 1300 e il 1304, esse avrebbero dovuto esser distrutte dall' incendio che a' 28 di febbraio del 1332 arse, come dice il Villani, il tetto del vecchio palazzo (del Potestà) e le due parti del nuovo, dalla prima volta in su; giudicando che il fuoco poteva distruggere i tetti e i palchi che erano di legname, ma non mai la muraglia tanto solida del palazzo. A ciò si risponde: che se il fuoco non ridusse in cenere le mura, come aveva fatto de' tetti, potè e dovette grandemente guastarle, cocendole e affumicaudole. E che esso avrebbe certamente cagionato questo danno alle pareti dipinte, si prova per quello che è accaduto nel moderno restauro del detto palazzo, dove fu giocoforza gettare a terra la pit tura in fresco d'una stanza terrena, perchè, per essere assai guasta dal fumo, si conobbe che non ci valeva il restauro. Ed è anche da pensare nel caso presente, che il guasto incominciato dal fuoco, sarebbe stato compito dal martello e dalla cazzuola del muratore, quando dopo l'incendio, fu ordinato (aggiunge il Villani), che il palazzo si rifacesse tutto in volta insino ai tetti; essendo incredibile che mettendosi in volta la cappella, se v'erano pitture, si fossero potute conservare. Mentre oggi chi guarda quelle pitture della cappella, le giudica d'un medesimo tempo.

Afferma il marchese Selvatico, e gli tien bordone il Cavalcaselle, che le pitture della cappella si avrebbero a ritenere di Giollo sicuramente, perchè le dissero tali il Vıllani e Giannozzo Manetti, e più lo attestano la maniera, e se così posso dire, la cifra piuttosto di Giotto, che non di Taddeo Gaddi, che specialmente nella proporzione delle figure, nella forma degli occhi, nella scarsa fronte, e nella nuca, scarsissima anch'ella, tiene modo diverso. Alle quali

ragioni, perché d'uomini molto intendenti, noi non vogliamo nė possiamo contradire: solamente ci sia permesso di osservare, che se quelle pitture non si hanno da dire del Gaddi, perché non potranno essere di qualche altro scolare di Giotto, stato cosi valente imitatore della maniera del maestro, da ingannare l'occhio anche del più pratico e franco conoscitore? Ma del probabile autore di quelle pitture tratteremo più innanzi.

Finalmente sostiene il Cavalcaselle che esse pitture siano state fatte tra il 1300 e il 1304, quando cioé, a detto suo, fu pace in Firenze per opera del cardinale Matteo d'Acquasparta legato del papa; stimando che la figura ritta in pié, vestita di rosso, e col cappello rosso in testa, dipinta dal lato destro, e presso la finestra della parete di fondo della cappella, rappresenti il detto cardinale. Ma a chi è mezzanamente informato della storia fiorentina parrà strano che si dica aver la nostra città goduto della pace in que'tempi. Che anzi la storia ci dice che la venuta dell'Acquasparta nel 1300 non riusci a niente, nè impedi che due anni dopo i Bianchi fossero banditi dalla città, nè che per la cacciata loro non risorgessero più fiere le discordie cittadine tra i grandi e i popolari della parte Nera. Zuffe sanguinose furono tra loro nel 1304; e nel 1308 Corso Donati capo de'grandi di quella fazione, venuto in odio ai popolari per la sua superbia, fu assalito nelle sue case, e poi fuggendo dalla città,,morto miseramente a S. Salvi. Né questo solo bastó: che alle cagioni interne, atte a turbare la quiete della città, ne vennero altre di fuori, quando per due volte gli usciti Bianchi tentarono di ritornare in Firenze. Su questa congettura adunque, alla quale cosi chiaramente contradice la storia, non può il Cavalcaselle fare fondamento nessuno per assegnare alle pitture della cappella, e per conseguente al ritratto di Dante, il tempo e l'occasione che egli dice.

Vediamo ora se la testimonianza degli antichi scrittori, della quale il marchese Selvatico e il Cavalcaselle si fanno un'arme contro di noi, giovi più alla loro che alla nostra opinione.

Filippo Villani nella sua operetta latina intitolata De origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus scrivendo di Giotto usa in un luogo queste precise parole: Pinxit insuper speculorum suffragio semetipsum, sibique contemporaneum Dantem IN TABULA ALTARIS CAPPELLE PALATII POTESTATIS. Dunque nella tavola dell'altare, e non nella parete della cappella del Potestà, Giotto aveva dipinto sé stesso e l'amico suo Dante. E che un tempo sia stata in quel luogo una tavola dipinta, è confermato ancora dall' inventario delle masserizie del palazzo del Potestà fatto nel 1382, nel quale tra l'altre cose della cappella si legge registrata la seguente: Una tavola dipinta che sta in sull'altare. Ma sul principiare del secolo XV la tavola doveite essere stata tolta da quel luogo, perché colui che volgarizzò, o meglio parafrasò l'operetta del Villani, traduce quel passo cosi: Dipinse eziandio a pubblico spettacolo nella città sua con aiuto di specchi se medesimo e il contemporaneo suo Dante Alighieri poeta nella cappella del palagio del Potestà, IN MURO.Ora se il volgarizzatore mutò le parole del testo latino in tabula altaris, in quelle che dicono in muro,

lo fece perché a'suoi giorni, levata la tavola dell'altare, non rimanevano che le pitture in muro, dove di fatto era dipinto il poeta. E che così fosse, apparisce anche meglio dal seguente passo di Giannozzo Manetti nella Vita di Dante Coeterum eius effigies et in Basilica Sanctae Crucis, et in cappella Pretoris Urbani, utrobique in parietibus extal: EA FORMA, QUA REVERA IN VITA FUIT A GIOTTO QUODAM OPTIMO EIUS TEMPORIS PICTORE EGREGIE DEPICTA. Alle quali parole non crediamo che si possa dare spiegazione diversa da questa; che, cioè, in Santa Croce e nella cappella del Potestà, erano due ritratti di Dante, ambidue in muro, cavati da quello che Giotto aveva fatto di naturale al poeta; chiaro essendo per noi che il Manetti abbia voluto intendere di quello dipinto dal Gaddi in Santa Croce e dell'altro che tuttavia-si vede sulla parete della cappella predetta. Dal che s'inferisce, che se a'tempi del Manetti fosse stata tuttavia in essere la tavola dell'altare, dove, secondo il Villani, Giotto aveva dipinto se stesso e l'amico, egli avrebbe dovuto ricordare l'origi nale piuttostochè le copie di quel ritratto. Di più, se volessimo intendere diversamente le sue parole, ne verrebbe ancora questa falsissima conseguenza, che cioè il Manetti avrebbe attribuito a Giotto non solo il ritratto in fresco della cappella, ma ancora quello che una volta si vedeva in Santa Croce, dipinto dal Gaddi, come sappiamo dal Ghiberti e dal Vasari.

Ma in processo di tempo anche il ritratto in fresco della cappella fu dimenticato: ne tacciono Lionardo Aretino e Gio. Mario Filelfo nella loro vita dell'Alighieri, mentre ricordano e celebrano l'altro di Santa Croce. Dice infatti l'Aretino : L'effigie sua propria si vede nella chiesa di Santa Croce, quasi nel mezzo della chiesa dalla mano sinistra, andando verso l'altar maggiore. È ritratto al naturale ottimamente per dipintore perfetto di quel tempo. Più chiaro e più pieno è a questo proposito il Filelfo, scrivendo cosi: Huius simulacrum (quandoquidem esse arbitror numen) Florentiae apud Sacrum est Sanctae Crucis, ad eorum sinistram qui eclesiam ingressi, ad maius proficiscuntur altare. Estque communis cunctorum opinio veram effigiem esse ac faciem poene propriam atque naturalem, ut eorum parentes nepotibus retulerunt, qui vivum

videre Dantem.

Quanto poi al Ghiberti, ecco le sue parole: Dipinse (Giotto) nel palagio del Podestà di Firenze: dentro fece il Comune com'era rubato, e la cappella di Santa Maria Maddalena. Il Ghiberti dunque assegna a Giotto la pittura del Comune rubato, la quale con più ragione il Vasari attribuisce a Giottino, dicendola fatta nel 1344 in vituperio del duca d'Atene e de'suoi malvagi ministri, non dentro il Palazzo, ma fuori sulla facciata della torre. Del ritratto di Dante non parla: ma i nostri oppositori potrebbero credere che dicendosi dal Ghiberti aver Giotto dipinto la cappella di S. Maria Maddalena, abbia implicitamente inteso ancora del ritratto del poeta che è in fresco in una di quelle pitture. Ma noi invece non interpetriamo quelle sue parole e la cappella di S. Maria Maddalena per le pitture delle pareti di essa, ma sibbene per la tavola dell'altare, dove è ragionevole che la figura della Santa avesse il luogo principale, se al suo nome

era intitolata la cappella. Forse parrà nuova ed anche strana questa nostra interpretazione: ma a'molti esempi che si potrebbero addurre in prova di quel che affermiamo, che cioè ai tempi del Ghiberti, ed anche innanzi la tavola del principale altare d'una chiesa, o d'un oratorio, con tutti i suoi fornimenti di civori, compassi, tabernacoletti ed altro, era chiamata cappella, bastino questi tre che noi caviamo dalla Galleria dell'Accademia delle Belle Arti in Firenze.

Nella sala detta della Esposizione sotto il N.° 24 è una tavola d'ignoto pittore del secolo XIV nella quale si legge in basso:

ISTAM CAPELLAM FECIT FIERI IOHANNES GHIBERTI PRO ANIMA SVA A. D. MCCCLXV.

quando agli odi crudeli che lo avevano condannato a menare per venti anni, tra i dolori dell'esilio e le angustie della povertà, vita raminga e disagiata, e in ultimo a morire lontano dalla ingrata patria, era succeduta altissima ammirazione pel grande cittadino e poeta, la cui Commedia fu solo allora divulgata, letta e studiata da tutti. Ne faccia difficoltà l'aver detto che l'incendio del 1332 arse il palazzo, e ne distrusse i tetti e le masserizie, perché ben potè essere, che la tavola di Giotto fosse sottratta al furore del fuoco, e salvata. Certo se cosi non fosse stato, noi non la troveremmo ancora ricordata nė dal Villani, nė dall' inventario del 1382.

Ma è tempo ormai che noi veniamo a descrivere le pitture in fresco della cappella, ed a notare tuttociò che Altra sotto il numero 49, parimente d'ignoto pittore meglio può conferire alla prova e dimostrazione del nostro del secolo XIV, ha questa iscrizione:

MONNA MARGHERITA. FIGLIVOLA. CHE. FU. DI NERI. DETTO..... (HA. FATTA. FARE. QVESTA. TAV) OLA. E CHAPPELLA. PERIMEDIO. DELLANIMA. SVA. E. DE SVOI.

La terza tavola segnata col numero 57, anch'essa d'ignoto pittore del secolo XIV, porta questa leggenda : A. MCCCLXIIII. BINDVS. CONDAM LAPI BENINI FECIT. FIERI. HANC. CAPPELLAM PRO REMEDIO. ANIME SVE.

Ora se il Ghiberti con quella espressione e la cappella di S. Maria Maddalena intese propriamente della tavola dell' altare dipinta senza dubbio da Giotto, e non delle pitture in muro della cappella del Potestà, non resta ai nostri oppositori neppur quest'una delle testimonianze antiche che avvalori la loro opinione; mentre tutte o nel l'un modo o nell' altro concorrono a rafforzare la nostra. Oltracció vogliamo notare che mentre nella tavola dell'altare della cappella era secondo il Villani, il ritratto di Giotto; questo stesso ritratto non si vede nella pittura in fresco. E quello che è nell'opera del Vasari si può credere che sia stato cavato dalla pittura del Gaddi in Santa Croce.

Noi abbiamo mostrato che Giotto dipinse sè stesso e l'amico suo Dante nella tavola della cappella del Potestà. Se noi avessimo, come pur troppo non abbiamo, il modo di formare una esatta, sicura e continuata cronologia delle opere di Giotto, ci sarebbe molto più agevole di assegnare il tempo di quella tavola. Ma questa cronologia, nella scarsità grande di scritture e di memorie riuscirà sempre difficilis sima, per non dire impossibile. La tentò il Rosini, ma al nostro parere, infelicemente, perchè invece di mettervi ordine e luce, si affaticò ad accrescerle confusione ed oscurità. Nondimeno rispetto alla detta tavola ci pare di poter congetturare che essa sia stata fatta nel 1325, nel qual anno la Repubblica spese grosse somme di danaro per assettare ed ornare il Palazzo del Potestà destinato ad abitazione di Carlo Duca di Calabria nuovo signore della città. E questa nostra congettura trova appoggio nella ragione, la quale, sebbene non sia avvertita o curata dai nostri oppositori, è nondimeno, vogliano essi o no, di gran valore nella presente questione; che cioè Giotto solamente dopo la morte dell' Alighieri avrebbe potuto dipingere in quel luogo pubblico le sembianze di Dante

assunto.

Nella parete principale divisa in mezzo da una grande finestra è rappresentato il Paradiso con tre ordini di figure, l'uno sopra l'altro: nel più alto sono i Cherubini, nel mezzano i Santi e le Sante, in quel da basso molti personaggi, varj d'età, di foggie e d'espressione. Presso alla finestra dal lato destro di chi guarda, è in maestà una figura incoronata, e dal sinistro altra figura, parimente in maestà, vestita di rosso, e col cappello rosso in testa. Nella figura reale tutto fa credere che sia effigiato Roberto d'Anjou re di Napoli, e in quella di cardinale messer Bertrando del Poggetto, fin dal 1332 legato in Italia di . papa Giovanni XXII, e poi di Benedetto XII. Poco distante dal re Roberto è l'Alighieri, il quale dalla tinta della incarnazione più calda ed unita che non sia quella delle altre figure, si conosce subito essere stato restaurato. Sotto il cardinale è la figura del Potestà inginocchiato; e sotto il re, un' altra figura del pari inginocchiata, che non si vede bene di chi sia, per esser caduta la testa insieme coll' intonaco, ma dalla foggia, e più dal colore violetto della veste si può riconoscere d' uomo di chiesa, e forse del Vescovo di Firenze.

Nella parete laterale a destra di chi guarda, sono dipinte su due ordini alcune storie della vita di S. Maria Maddalena, le quali dopo esser rimaste interrotte dalla rappresentazione dell' Inferno, che è a capo alla porta che mette nella cappella, ripigliano poi e si compiscono nell'altra parete a sinistra. Nella quale sono due finestre grandi divise l'una dall'altra da un pilastro di non molta larghezza, su cui è dipinta la figura di un Santo martire, che la sottoposta iscrizione latina, messa in una cartella di finta pietra, scopre essere San Venanzio. Questa iscrizione, che è assai guasta, si conosce da alcune poche parole che si sono potute intendere, essere una invocazione o preghiera rivolta al Santo. Nell'ultimo verso a fatica si legge DNI. M. CCC. XXX.... che doveva dire M. CCC. XXX. VII.

Alquanto più sotto alla detta iscrizione, e precisamente dentro la fascia che ricinge lo zoccolo, è un'altra iscri zione, che si stende per quanto è largo il pilastro, scrit ta in lettere più grandi ed eleganti, la quale, sciolta dalle sue abbreviature, dice così: HOC. OPVS. FACTVM FVIT. TEMPORE, POTESTARIE. MAGNIFICI. ET. POTENTIS. MILITIS DOMINI. FIDESMINI. DE VARANO.

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