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CIVIS. CAMERINENSIS. HONORABILIS. POTESTATIS.... il resto manca.

Ora sapendosi da'registri de' Potestà di Firenze che messer Fidismino di messer Rodolfo da Varano tenne quell'ufficio negli ultimi sei mesi del 4337, risultano per noi chiare queste due cose: l'una, che le pitture della cappella, alle quali si deve riferire la iscrizione citata, furono fatte sotto la potesteria del Varano, nello spazio che é dal luglio al dicembre del 1337; l'altra, che esse non si possono con ragione attribuire a Giotto, il quale fin dai primi giorni di quell'anno era morto. Vero è che noi, ingannati dall'arme che si vede dipinta a'piedi del potestà inginocchiato, la quale è certamente de' Fieschi, credemmo che quelle pitture fossero state fatte sotto la potesteria di messer Tedice de'Fieschi, che tenne quell'ufficio nel 1358-59. Ma ora rifiutiamo come erroneo il nostro asserto, fatti accorti dell' inganno dal sig. Cavalcaselle, il quale con buone ragioni ci ha mostrato che quell'arme deve essere stata dipinta dopo, vedendosi ancora dalle screpolature del colore, apparire la sottoposta pittura delle estremità inferiori del Potestà. Ma a qual fine e per quale occasione quell'arme sia stata soprapposta alle pitture noi non possiamo intendere.

Venuti a questo punto, il quale, se sia bene chiarito, può sciogliere il nodo della presente questione, e cosi darci vinta la prova, noi prevedemmo che i nostri oppositori non avrebbero mancato di combattere la interprelazione data da noi alla iscrizione, e la conseguenza tutta favorevole che ne caveremmo pel nostro assunto. In fatti il Cavalcaselle avendo avuto da noi intera la detta iscrizione, della quale a fatica egli aveva letto le prime parole, e riscontratala sul luogo, conobbe subito di quanto aiuto essa ci sarebbe stata, e quanto importasse, preoccupando il giudizio altrui, di prevenire o scemare l'effetto che avrebbe prodotto. Sfoderò perciò una sua seconda scrittura, dove ricantate in parte le cose dette nella prima, si sforza con ragioni, invero assai deboli, e con esempi che non sempre provano quel che egli vorrebbe, 0 provano il contrario, di dimostrare, che quella iscrizione si abbia a riferire alla sola figura di San Venanzio, e non mai alle altre pitture della cappella.

Molte in quella vece, e tutte di gran peso, sono le ragioni che ci fanno ritenere la citata iscrizione essere stata fatta per le pitture della cappella, e doversi riferire ad esse. Primieramente è da notare che i nostri antichi solevano porre o sopra un capitello, o in un pilastro, secondoché tornava meglio, della parete sinistra di una cappella, la memoria o iscrizione che doveva ricordare da chi essa fosse stata fondata o fatta dipingere, e spesso anche da chi dipinta, in che anno e per quale occasione; e sceglievano questo luogo, perchè d'ordinario non ci andavano pitture o altro ornamento, a cagione del poco spazio che aveva, e anche perchè da esso e in esso cominciava e finiva la cappella. Nel caso nostro fa questo effetto il pilastro che è tra le due finestre della parete sinistra, sul quale a preghiera di messer Fidesmino potestà fu dipinta la figura di San Venanzio protettore della sua città di Camerino. E per mostrare che la figura fu fatta fare da lui e per sua devozione, bastavano que' versi che vi erano scritti sotto.

In secondo luogo quando la detta iscrizione avesse dovuto riferirsi ad una sola immagine o figura fatta fare da qualche devoto, non avrebbe detto HOC OPVS, ma sibbene HEC IMAGO, o, FIGVRA FECIT FIERI, ec. E di questo ce ne sono esempi assai. In terzo luogo dicendosi in quella iscrizione, OPVS, parola di largo significato e solenne, mentre riesce proprissima e conveniente ad indicare un lavoro compiuto in ogni sua parte, come sono le pitture della cappella, e dove non una, ma più sono le figure e le storie, sarebbe invece stata impropria ad una sola figura, quasi nascosta nella parte men nobile della cappella, e che non si ricollega col soggetto delle altre.

Ma i nostri avversari, non volendosi ancora dare per vinti, opporranno, che anche ammettendo, come vogliamo noi, che la iscrizione si riferisca alle pitture della cappella, non è dall'altro lato improbabile il credere, che esse siano state incominciate da Giotto, e poi, sopraggiunto lui dalla morte, condotte a fine da altro pittore sotto la potesteria del Da Varano. Neppur questa loro supposizione regge, perché dicendo la iscrizione HOC OPVS FACTVM FVIT TEMPORE, ec., essa vuol significare, che la pitture ebbero il principio e compimento loro nel tempo di quel potestà. Che se fosse stato come essi si vanno pensando, è certo che allora l'iscrizione non avrebbe mancato di notar questo, col dire a un bel circa: HOC OPVS INCEPTVM TEMPORE POTESTARIE ec. COMPLETVM (0) ABSOLVTVM FVIT TEMPORE POTESTA RIE ec.

Né si dica che sei mesi sono spazio di tempo troppo breve per dipingere tutta quella cappella, perché è noto a tutti, che gli antichi conducevano a fine con grande celerità le maggiori pitture in fresco, essendoché in quei tempi erano più semplici, e perciò più spediti, i modi del dipingere, e gli artisti più curanti della invenzione e della espressione che della finita esecuzione delle loro opere. Questa medesima speditezza si trova anche ne'pittori del secolo XVI. Michelangiolo, per cagione d'esempio, scopri finita la maravigliosa volta della cappella Sistina dopo diciotto mesi d'assiduo e mortale lavoro: eppure egli era senza aiuti! Quanti anni vi impiegherebbe oggi un pittore? Di più è da credere, e chi bene esamini le pitture delle pareti laterali se ne capaciterà, che in questo lavoro il pittore abbia avuto degli aiuti. Certo è che gl'intendenti vi riconoscono più mani, sebbene contempo

ranee.

Queste sono le ragioni desunte dalla storia, dalla critica, e dalle prove di fatto, che ci hanno servito di guida nella dimostrazione del nostro assunto, il quale è stato di provare sfornita di buon fondamento la volgare credenza che attribuisce a Giotto le pitture della cappella del Palazzo del Potestà, e per conseguente anche il ritratto dell'Alighieri.

Devotissimi

GAETANO MILANESI LUIGI PASSERINI.

PARTE NON OFFICIALE

Studi Danteschi

DANTE ANTIPAPISTA

(V. Num. 32, pag. 259).

Questi cenni erano scritti prima che fosse nata, o per dir meglio, fosse nota, l'idea di solennizzare il natale del redentore della letteratura italiana. Nou appena il Municipio fiorentino decretò di celebrare una festa nazionale ad onore di quel grande Italiano che cinque secoli fa insegnava alla sua patria il modo di pensare, di credere e di governarsi umanamente e civilmente, io osai di indirizzare una mia proposta ai signori della Giunta di Firenze, affinchè la solennità del Centenario Dantesco tornasse agl' Italiani un po' più profittevole dei centenari che si celebravano ad onore di santi ignoti o di madonne notissime, e Italia più che a pompe, a fragori di campane e tamburi, ed a volgari cuccagne assistesse ad un pubblico e maestoso insegnamento, di cui fosse scopo il trionfo della verità insieme alla sconfitta della menzogna. Si scopra, io diceva log, anima di Dante, che artifizio prima, paura dipoi ed ignoranza avvilupparono, finchè libertà non ebbe concesso di rivelarla apertamente Avevo accompagnato la mia proposta col voto unanime della stampa berlinese da me provocata colla lettura de'miei studi a quelle società scientifiche, ma di questa proposta dirò più sotto. Gli eredi del fanatico professore Ozanam, che volle a tutto costo vestire l'Alighieri da paolotto, presentandolo pur sempre santamente invaghito della figlia di Folco Portinari, come il loro San Vincenzo di Paoli si ispirava alla sua sibilla Luisa di Marillac, continuano la ridicola commedia e tentano oggi di usufruttare la Festa nazionale pel falso compito di loro setta. Non avessero scoperto qualche papa fra i dannati delle bolge dantesche, che si sarebbero ingegnati di proporre almeno la beatificazione del fiero ghibellino poeta, quando fecero la furiosa infornata de'martiri Giapponesi. Sventuratamente per l'Italia la libertà non ha potuto ancora partorire tutti i frutti suoi, specialmente nell'ordine scientifico.

I più arditi articoli comparsi in questo giornale svestono il papa del manto regale, che altri affibbiano all'imperatore tedesco (V. Centenario, pag. 254) per ricostruire l'impero romano, senza osare di portare la zappa scopritrice nel campo religioso, ove il

partito Ghibellino ed il suo Capitano tenevano il lor quartiere generale.

Potrà il grosso volume che ci è promesso pei dì solenni del Centenario soddisfare al bisogno ed al desiderio della verità?

È Dante Ghibellino o Guelfo ?

È egli cattolico, oppure semplicemente cristiano? Del neoguelfismo inventato dal prof. Ferrari a dar nuovo carattere allo spirito settario del Poeta Ghibel lino, crediamo non poterne discorrere con serietà, ove egli non intenda dinotare i Bianchi del partito Guello.

Le fosforescenze meteorologiche letterarie, parti postumi del seicentismo in che Vittor Ugo e Petruccelli chiusero la immensa architettura del volume Dantesco, presentandolo ora come un cratere ardente, ora come una cattedrale gotica, ci invitano al riso. e passiam oltre.

Il libro dunque annunziato dai signori Cellini e Ghivizzani ove debbono figurare un Cantù accanto ad un Guerrazzi, ci pare non poter ben raggiungere lo scopo di una festa nazionale, che deve intendere al pubblico morale e civile indirizzo, nè giovar punto allo scioglimento della questione, che è di rivendicar Dante alla verità del suo principio che è l'antitesi cristiana, opposta alla tesi cattolica di Roma papale. Dimostrare Dante religiosamente, Templario, politicamente Ghibellino, come la tradizione secolare ce lo ha segnalato, that is the question. Tutti quei nomi, d'altronde venerabili, mal si trovano raccolti a costruire un'unità di concetto, a modellare un Dante storico e cosmopolita.

Una pubblicazione italiana dello Spirito antipapale del Rossetti avrebbe meglio giovato allo schiarimento della questione, e illuminata più splendidamente la misteriosa figura dell' altissimo Poeta. Noi raccomandiamo vivamente a qualche editore di Firenze o d'altra città la ristampa di quel libro poco noto in Italia, colla traduzione insieme del Dante Heretique, Révolutionnaire, ec. di M. R. Aroux, affinche la gioventù incominci a vedere entro la Divina Commedia quella luce che i commentatori devoti a Roma, o corti d'intendimento o schiavi della tradizione monastica, ottenebrarono sotto una nube foltissima di controversie teologiche e filosofiche. E tempo ormai che la filosofia e tutta la scienza nuova usi della libertà di esame e di studio, e gesuiti e paolotti ed ogni altra razza di negazioni antisociali cadano sotto il peso del disprezzo e della derisione quante volte si attentino di disputare sulle conquiste della ragione e della scienza. Dante appartiene a questi regni, e non ai conventi ed alle sagrestie dei cocollati.

Una eletta colonia d' Italiani che viveva in Parigi 30 anni fa, e il giovane Mamiani n'era uno dei membri, intendeva il Dante ben diversamente che non

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lo spiegasse il P. Ozanam dalla cattedra. Riferirò le parole del Maroncelli che registrava i progressi della letteratura italiana in Francia.

<< Ciascuno aveva il suo Dante per le dita e come non ne comprenderebbe i più celati misteri? Queste nuove intenzioni che si pretendevano scoprire in lui, avrebbero avuto faccia di sogni ; e l' amor proprio sarebbe stato duro ostacolo alle convinzioni anche meno restie; pari a ciò che è avvenuto all' egregio mio Gabriele Rossetti, malgrado l' evidenza maravigliosa di prove senza replica, che confortano l'asserto di lui. E si sono veduti ieri celebri professori riparlare di Dante a nazioni straniere, tutte attonite alla sola profferta di tanto nome, ed essi comminare allegramente la trita e miserrima via che sconosce l'opera di quel massimo riordinatore di popoli liberi. Ben traluce anch'agli altri che Dante è grandissima cosa; ma duolmi che cotesta grandissima cosa non si sveli in che consista. Era più nobile la condotta del dottissimo Gravina, il quale diceva: Veggo in Dante un immenso mistero; io non ne ho la chiave, ma presento da lungi il dì che si avrà, e che l' opera sua sarà guardata da più sublime orizzonte. E nonostante questa confessata ignoranza, Gravina chiamava Dante co' magnifici titoli di poeta legislatore ed altri; giacchè anche nella sua ignoranza, ciò non mancava pur d'apparirgli. Ora invece, i critici, che da un lato non h∙nno fatto un solo passo di più del Gravina, da un altro. sono retrogradi (ciò ch' ei non dissimulava) che altro vi sia a scoprire. Pazienza se paura di compromettersi non li fa pronunziare aderentemente al Rossetti; ma non abbiam vergogna di dire francamente esservi chi tentò rivelare l'immenso mistero, senza che assumano responsabilità dell' ingente tentativo.

<< Se il cenno incidente e fuggevole che io ne fo in questa carta potesse ristorare in qualche minima parte il silenzio pusillanime (non dirò mai invido) che si è serbato finora dai professori danteschi, citerei bellissimi nomi tra gli annuenti al Rossetti: Cammillo Ugoni, quell'autore elegante d'un periodo della nostra storia letteraria; quel penetrantissimo Francesco Orioli, a petto del quale ogni lode è minore del vero; ed avrei potuto aggiungere Saffi; ma egli dopo avere assentito si ritrattò, per reverenza a sapienti che gli dicevano : Dunque voi e noi avremo studiato il nostro Dante venti anni, senza capirlo? Così Berchet, che avea bisogno di semplificare la quistione, non di complicarla, lasciò da parte le cose note, e si presentò con le ignote. Nessuno, tra noi, avea pronunziato sovr'esse; nessuno trovò quindi difficoltà a collocarle nella nuova scuola che ei faceva presentire ».

Queste parole del Maroncelli (Ved. Addizioni, pag. 22. Le Monnier) noi le riproducemmo per tutta risposta alle ridicole insinuazioni ed ignoranti criti

che della Civiltà Cattolica e di tutto il Sinedrio Paolottiano e Loiolano, per le quali credono persuadere i gonzi che lo spirito antipapale del poeta Ghibellino sia parto e manovra dei rivoluzionari di oggi. Se così è perchè non chiamare rivoluzionari ancora i frati domenicani che perseguitarono Dante da vivo e da morto, il cardinale Del Poggetto legato pontificio a Ravenna, e Arcibaldo arcivescovo di Milano; i quali trattarono l' Alighieri come facevano dei più formidabili nemici della Chiesa Romana. Ma anzichè perdere il nostro tempo a confutare gente senza coscienza, e privi di scienza razionale, noi ci occuperemmo volentieri degl' onesti interpreti che, trascinati dalle abitudini di loro educazione e dagli errori nutriti nel loro spirito come alimento di un' anima giusta creata a popolare i misteriosi campi della incognita immortalità, videro a traverso del senso letterale della Divina Commedia un Dante sagrificato alla corrotta Babilonia, mentre Gerusalemme soltanto stava in cima del suo sublime pensiero e delle fatidiche aspirazioni del suo cuore. Noi vorremmo propor loro di lasciare da banda per un istante la Somma di S. Tommaso, il Bellarmino e tutti i codici teologici sotto ai quali tennero per tant' anni piegata la paziente cervice, e prendere in mano le storie delle sètte religiose, i loro rituali e statuti onde combatterono per secoli gli anatemi dei papi romani. Se non che per gli interpreti ostinatamente ostili all' antipapismo del poeta, i riti, i simboli e le lingue convenzionali onde il culto della Eterodossia ebbe osservanza, incremento e vittoria, divengono per coloro che la osteggiano, siccome tante inezie, fattucchierie e ridicolaggini; non avvertendo essi che le fondamenta della grande architettura dantesca poggiano sui cardini della scienza filosofica professata in opposizione alla scienza teologica dei frati romani, e tutte le forme settarie onde si abbella la creazione di Dante simmetricamente ordinate a risultarne un assieme euritmico, logicamente ed esteticamente corrispondono all' altissimo concetto da cui erano maternate ed incarnate nella costruzione universale del poema.

Del resto non è qui intendimento nostro di fare un commento della Divina Commedia, ma di esporre unicamente la ragione e lo scopo di una proposta, la quale tenda a rendere il Centenario di Dante principio di nuovi studi e di nuovi commenti di quel gran libro, che può dirsi essere la Bibbia del risorgimento nazionale di nostra letteratura e dell'italica filosofia.

Proponiamo dunque che per invito sia della Commissione delle feste dantesche, sia per ordine del Ministero della pubblica istruzione, abbia a radunarsi quanto prima un Congresso di letterati e scienziati scelti fra i più noti cultori del sommo Poeta, senza

distinzione di nazionalità, poichè Dante è il poeta dell'umanità intera, tendente a civiltà, e loro sia dato a risolvere il quesito: « Se Dante sia Guelfo o Ghibellino, ovvero sia Cattolico o semplicemente Cristiano, professante e propugnante la legislazione e le dottrine dei Templari, conforme l'indirizzo politico e religioso a cui tendevano i Ghibellini e tutte le sette osteggianti il potere spirituale e temporale dei Papi.

Ad evitare maligni sospetti l'autore di questa proposta crede suo debito di avvertire che una cronica oftalmia e lo stato cagionevole di salute da cui è afflitto da due anni, gli vietano di applicare a nuovi studi e di intraprendere qualsiasi viaggio anche il più breve. Oltracciò egli a sviluppo della questione proposta non saprebbe offrire temi ed argomenti migliori di quelli che trovansi nelle opere del Rossetti e del francese Aroux, che ha compendiato ed ordinato in un magnifico libro tutta la interpretazione e la erudizione che quel dotto napolitano avea profusamente ed esteticamente accumulata ad evincere la Eterodossia della Divina Commedia.

Prof. E. TEODORANI.

EPIGRAFI DANTESCHE

Di Callisto Dal Pino, maestro Comunale a Pontedera.

IL NAZIONALE INTENDIMENTO CON OMERO EBBE COMUNE PIÙ PROFONDO

NELLA POTENZA DEL CONCEPIRE

DANTE

RANNODÒ ETERNAMENTE GLI ITALIANI COLL'ARMONIOSO IDIOMA

MEGLIO CHE ALLA CETRA D'ANFIONE ALLA DIVINA DOLCEZZA DEL DANTESCO CANTO GLI ANIMI GENTILI

SI COMMOSSERO A INEFFABILI NOBILISSIMI AFFETTI

E DOTTI INGEGNI

MEDITANDO TANTI PROFONDI VERI

LOR POCHEZZA SENTITA
MISURARONO L'IMMENSITÀ
DI QUEL GENIO CREATORE

ALLE DANTESCHE CREAZIONI
ISPIRARONSI

GIOTTO MICHELANGIOLO RAFFAELLO

PER ESSE

IN MELODICA RIMA CANTARONO PETRARCA TASSO ARIOSTO

E DISCHIUDENDO

LA MACHIAVELLIANA MENTE

A PROFONDO SAPERE

DI TANTA SUBLIMITA
AVRAN COMPIACIUTO

LA STESSA SAPIENZA INFINITA

TIP. GALILEIANA DI M. CELLINI E C.

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Fratelli Nistri, Tipografi Librai in Pisa.

Commento di FRANCESCO da BUTI sopra la Divina Commedia di DANTE ALLIGHIERI (letto nella Università di Pisa dal 1365 al 1440, Testo di Lingua inedito, citato dagli Accademici della Crusca nel loro Vocabolario) pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa 1858-1862. Tre gr. Tomi in 8.° con Ritratto di Dante dip. da Giotto, e del Buti.. it. L. 45, 00 Lo stesso, Edizione da Biblioteche, in 8.o massimo di carta imperiale con margini allargati (edis. di 75 esempl.). » 75, 00

Ediz. citata nella ristampa (che è in corso) del Vocabolario della Crusca. Si spedirà franca per posta nel Regno a chi ne rimetterà agli Editori in Pisa l'importo con Vaglia Postale.

www

DELLA FESTA NAZIONALE

PER

IL SESTO CENTENARIO

DELLA NASCITA

DI DANTE ALLIGHIERI

aggiuntivi

I CENNI CRONOLOGICI

DELLA VITA, DELLE OPERE E DEL SECOLO DI DANTE
PER BONAVENTURA BELLOMO.

Firenze, Tipografia Galileiana di M. Cellini e C. 1864.
Dall'Uffizio di questo Giornale si fanno le spedizioni di
detto libro per tutto il Regno, mediante vaglia postale di
Lire Una in lettera affrancata.

G. CORSINI Direttore-Gerente.

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ria sul più autentico ritratto di Dante. - Parte non officiale. Proposte per la celebrazione del centenario, I. BERNARDI.- Vita di Dante. A. B. Studi danteschi. Lorenzo da Ponte. I. BERNARDI. Dei latinismi di Dante. L. DELATRE. Avvisi. Epigrafi dantesche.

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PARTE OFFICIALE

Il Municipio Fiorentino nella sua adunanza del 48 corrente deliberò sul Programma per le feste centenarie di Dante presentato dalla Commissione, mettendo a disposizione della medesima la somma di lire trecentocinquantamila. Approvò poi, sulla proposta del marchese C. Torrigiani, che la Commissione generale sia divisa in quattro sezioni esecutrici, ciascuna con incarichi speciali. Queste sezioni fisseranno definitivamente il Programma, in relazione della spesa già iudicata dalla Commissione ed ora approvata dal Municipio. Inoltre aggregò alla Commissione istessa i signori marchese Carlo Torrigiani, marchese Ferdinando Panciatichi ed avvocato Niccolò Nobili, membri del Consiglio comunale.

DEL RITRATTO DI DANTE NELLA CAPPELLA DEL POTESTA

IN FIRENZE

ATTRIBUITO A GIOTTO

Seconda Memoria della Commissione incaricata dal ministero della Pubblica Istruzione delle ricerche sul più autentico ritratto di Dante.

(Continuaz. e fine; V. N.° 37, pag. 294).

Vedemmo come il marchese Selvatico e il Cavalcaselle sieno concordi nel negare che esse pitture si possano ascrivere al Gaddi. Ma noi domandiamo: Credete voi che fuori del Gaddi, non sia stato a que' tempi altro scolare di Giotto che ne abbia preso tanto bene la maniera, da fare scambiare le sue opere con quelle del maestro? E chi sa dire quanti pittori valenti furono a quell' età, che oggi ci sono ignoti, perchè tace di loro la storia? E qualora ne facesse memoria, ce ne ha forse il tempo sempre conservate le opere per poterci fondare sul giudizio del merito loro?

Messo cosi da parte il Gaddi, noi ricercando quali altri discepoli di Giotto siano stati di tanto valore e riputazione da poter esser commesse a loro quelle pitture, ci siamo imbattuti in due, de' quali l'uno è Tommaso, o Maso di maestro Stefano, meglio conosciuto sotto il nome di Giottino; l'altro Bernardo Daddi, pittore quasi ignoto alla storia. Il Villani e il Ghiberti lodano a cielo e meri

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