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quel novello Pindaro italiano che cavò dalle tenebre di quel secolo sfortunato la Divina Commedia; e fu allora che lo studio e la lettura di quello si riassunse, e che rinacque per cosi dire ed ingiganti la riverenza e l'entusiasmo generale per chi la scrisse.

Vedemmo perciò da quel tempo in poi farsene le più belle le più utili le più dispendiose edizioni, illustrarsi e chiosarsi da più conspicui ingegni; tradursi in diverse lingue e in diversi paesi e prendersi per maestro e modello di poesia dai più fervidi e vari ingegni della sua nazione. Il primo di tutti fu il Volpi, editore diligentissimo, e scrittore di vaglia, che ne fece un' edizione correttissima co'tipi Cominiani, e la corredó d'un commento che per la somma sua utilità è divenuto rarissimo. Il dottissimo padre d'Aquino lo tradusse in bei versi latini; lo chiosò meravigliosamente il Venturi; il Lombardi lo rivide, lo confronto co'migliori codici, e ne fece una stupenda edizione, arricchita di dottissime illustrazioni e di schiarimenti preziosi. Gasparo Gozzi, letterato famoso degli ultimi tempi, atterrò un critico atrabiliario, che andò agli Elisi per insultar l'Allighieri.

L'Alfieri lo copia di propria mano, ne fa degli estratti, lo impara a memoria, ne nota le sentenze, le maniere, le frasi, e per uno studio indefesso di tal maestro, diviene il primo modello del tragico coturno in Italia; che, maestra delle moderne nazioni (sono parole del nostro poco amico La Harpe) era rimasta sempre nella sua infanzia nella drammatica, allorchè immerge per dir cosi l'anima audace ne' fonti danteschi e ne esce quasi novello Dante del secolo fortunato in cui vive. Questo entusiasmo che di giorno in giorno vires acquirit, muove Firenze a innalzare un magnifico monumento ad un cittadino quanto in vita perseguitato tanto riverito dopo la morte. Passa dall' Italia ai paesi esteri; la Sassonia lo traduce in tedesco; la Francia ne fa anch'essa le sue traduzioni, 'Inghilterra sel vede comparire dinanzi due o tre volte in britanna veste, in Londra il benemerito Zotti accresce il numero delle belle e ben commentate edizioni; in Parigi, il dotto, l'impareggiabil Biagioli ne fa un'edizione. con chiose e dichiarazioni novelle. Buttura, un'altro colto italiano, ne fa immediatamente un'altra giudiziosa e ben illustrata; i giornalisti dell' Inghilterra gareggiano a prodigargli le lodi, e ne inculcano la lettura; e la Germania si tarda a riconoscere il merito di poeti stranieri, stabilisce nelle sue università e ne' suoi collegi delle nuove cattedre, dalle quali dottissimi letterati leggono e spiegano la Divina Commedia, non altrimenti che si fa da più secoli d'Omero, Orazio e Virgilio, e degli altri più illustri classici della scuola greca e latina.

E che fece l'America? Mi permettano gli amici miei e della verità di darmi il vanto glorioso di essere stato il primo a portarla in questa città, a leggerla a un numero ragguardevole di quegli allievi ch'ebbi la sorte di educare nella nostra lingua, e far loro gustare le bellezze meravigliose del nostro primo poeta, a far ornare le biblioteche della studiosa gioventù, de'suoi preziosi volumi, come di quelli della lor propria lingua, e destare in uno dei più svegliati coltivatori della lingua italiana l'onorato desiderio di dare anche all'America una nuova traduzione

di si grand' opra. Ma è poco, Signori, al mio vivissimo zelo per questo luminare della mia patria, è poco alla brama che nutro d'esser utile per quanto le mie poche forze e le mie cognizioni permettano agli abitanti onorevoli d'una città che m'accolse graziosamente, che secondo i desideri miei, che ricompenso e incoraggi in vari modi le fatiche e le cure mie; è poco infine alla ben giusta gratitudine del mio cuore: ed è per questo che ho proposto di rendere ancor più diffusa la fama del nostro poeta, leggendolo a'colti e svegliati ingegni di Nuova-York. È per questo che assunsi il dolce ed onorevole incarico d'insegnare la lingua creata da lui a quelli che ancor non la sanno o che non la sauno abbastanza, per intendere le varie bellezze, le profonde dottrine e gli alti misteri trattati con penna non homini data da tanto genio.

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Temo che la venuta non sia folle....

timeo ne.... Al tempo di Dante, il verbo temore poteva ancora reggere la negativa come tuttora la regge nella lingua francese. Ma posteriormente l'ha perduta e oggi converrebbe dire « temo che la venuta sia folle ».

Vidi il maestro di color che sanno.

Qui sanno non vale essere istruito, ma essér prudente, aver giudizio. È il latino sapio, col senso in cui lo adopera Marziale nel seguente distico:

Nubere vis Prisco; non miror, Paula. Sapisti.
Ducere te non vult Priscus, et ille sapit.
(Mart. IX, 6).

Ahi genovesi, uomini diversi

D'ogni costume....

I Commentatori non son d'accordo su quel diversi, perchè non s'avvedono che è un latinismo. Diversus vale traviato. Dante ha voluto dire che i Genovesi sono traviati dal buon costume. Diversi senza complementi sarebbe assurdo.

Non donna di provincie....

Donna ha qui il significato del suo prototipo latino Domina. Oggi, è sinonimo di mulier.

Quell'anima gentil fu così presta.

Vien crudel, vieni e vedi la pressura Dei tuoi gentili....

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Per cupidigia di costà distretti.. . Alcuni Commentatori pretendono che si debba leggere dei costà distretti. Questa lezione è troppo prosaica, e di più troppo moderna per essere ammissibile. Assai miglio. re mi sembra l'altra che a taluni pare oscura, perché è un latinismo. Ma appunto perciò va preferita. Distretto è il participio del verbo distringo ed ha il valore del latino districtus che è sinonimo di detractus, ablatus.

Et quae sanguinea lunae destrinxit ab ira.
(Val. Flacc. VII, 330).
Vedova, sola e di e notte chiama

Cesare mio ... ec.

Chiamare ha qui il significato del latino clamare.

non stanno senza guerra

Li vicin tuoi....

Vicino oggi significa prossimo, e così l'uso Dante nel Canto XXXIII dell' Inferno:

Or ti dirò perchè son tal vicino ;

ma nel verso sopraccitato, vicino vale cittadino, regnicolo, come il latino vicinus che deriva da vicus, borgo.

Fere in diebus paucis Chrysis vicina haec moritur.
(Ter. Andr. I, 78.

L'anima pargolelta che sa nul'a.

Nel linguaggio attuale, nulla non s'adopera mai senza che sia preceduto dalla negativa non, sebbene già contenga una negazione. È un pleonasmo orrible, ma ormai troppo radicato perchè si possa svellere. A tempo di Dante il non si poteva omettere attesoché la lingua era più giovine e meno corrotta.

Nullum si trova spesso negli autori lətini per nulla res. Ne riferiremo due esempi:

Nullo magis studio quam spe gaudent.

(Quint. 11, 4)

Perit magnus, nullis obstantibus, ignis.

(Luc. III. 264).

Nel primo esempio si sottintende re; nel secondo rebus. Cosi in italiano si dice nulla per nulla cosa.

Con questi pochi cenni abbiamo voluto dimostrare che Dante fa spesso uso di latinismi e che avvertendo questo, cesserebbero le dubbiezze intorno ad alcuni 'passi del suo poema che divengon chiari, quando se ne cerca la spiegazione nella lingua latina. LUIGI DELATRE.

EPIGRAFI DANTESCHE

di F. G.

A DANTE ALIGHIERI

FIORENTINO

PRIMO FRA TUTTI GLI ITALIANI
PER MENTE E PER CUORE
MORTO

DOPO UN LUNGO ED INGIUSTO ESILIO 1 POSTERI RIVERENTI

INNALZARONO

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I

Fratelli Nistri, Tipografi Librai in Pisa.

Commento di FRANCESCO da BUTI sopra la Divina Commedia di DANTE ALLIGHIERI (letto nella Università di Pisa dal 1365 al 1440, Testo di Lingua inedito, citato dagli Accademici della Crusca nel loro Vocabolario) pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa 1858-1862. Tre gr. Tomi in 8.° con Ritratto di Dante dip. da Giotto, e del Buli.. it. L. 45, 00 Lo stesso, Edizione da Biblioteche, in 8.o massimo di carta imperiale con margini allargati (ediz. di 75 esempl.). » 75,00

Ediz. citata nella ristampa (che è in corso) del Vocabolario della Crusca. Si spedirà franca per posta nel Regn a chi ne rimetterà ayli Editori in Pisa l'importo con Vaglia Postale.

Quei Signori che volessero associarsi alla STRENNA DANTESCA, della quale fu pubblicato il Manifesto nel N.o 26 di questo Giornale, sono pregati di significarlo alla Direzione, sia per lettera, sia rimettendo la modula firmata, che fu loro spedita, non più tardi del 28 del corrente Febbraio.

G. CORSINI Direttore-Gerente.

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La Commissione per le feste del Centenario, divisa in quattro sezioni, come annunziammo nel numero precedente, ha stabilito definitivamente il Programma ed il reparto della somma delle lire trecentocinquantamila assegnatale dal Municipio. Compiuto questo lavoro le sezioni hanno già cominciato ad eseguire il Programma, preparando ciascuna quella parte che le è affidata. Quando saranno stati presi gli opportuni concerti colle varie autorità, crediamo che il Programma sarà reso di pubblica ragione.

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Le associazioni per l'Italia si ricevono in Firenze alla Direzione del Giornale, alla Tipografia Galileiana di M. Cellini e C., e presso i principali Librai.

Incaricati generali per le Associazioni:

Per la Spagna e Portogallo, Sig. Verdaguer, libraio a Barcellona, Rambla del Centro;

Per il resto d'Europa: Sig. Ermanno Loescher, libraio a Torino, Via Carlo Alberto, N.° 5.

PARTE NON OFFICIALE

Studi Danteschi

LA CIVILTÀ. NAZIONALE E COSMICA NELLA MENTE DI DANTE.

I.

Istituitasi per noi la comparazione tra Dante, Vico e Gioberti, e per tal modo postasi la Divina Commedia come al riverbero delle due più grandi opere di filosofia che abbia l'Italia, la Scienza nuova, e la Protologia, anco a' meno veggenti chiaro apparisce, che la sintesi, la quale domina ed informa tutta l'epopea dantesca, è l'aspirazione del finito all'infinito, ovvero dell'umano pensiero, che, spoglio del senso, poggia sublime sulle ali dell'amore e del genio, ed a mezzo del sentimento, come quello che appura gli affetti, a poco a poco si eleva alle supreme regioni della Idea pura, purissima, intuitiva, divina, fino a che, trasumanandosi in essa, vi s'india. Primo punto di partenza, in vero (giusta il senso allegorico, spiegatoci da Dante stesso nella sua Epistola dedicatoria, XI,

a Cangrande della Scala, 11) è « l'uomo, in quanto che | pernottammo gran tempo nel deserto; imperocchè si

meritando o demeritando, in forza del libero arbitrio, si rende degno di premio o di pena, al cospetto della giustizia eterna »; ed ultimo termine, nell'ordine oltramondano o sovrannaturale, fuori l'orbita immensa della creazione, è quel punto di luce, da cui dipende il cielo e tutta la natura (Parad. XXVIII, 42). La vera e perfetta beatitudine di fatto (giusta l'Apocalisse, XVII, 3, e il libro III della Consolazione di Boezio, all'uopo perciò da lui ricordati) « consiste nel conoscere il principio della verità » (ivi, 33). « E poichè (ei ne deduce) trovato il principio o primo, ch'è Dio, altro non è ulteriormente a cercarsi, essendo egli Alfa ed Omega cioè principio e fine, com'è dimostrato nella visione di S. Giovanni, termina il trattato in esso Dio »> (ivi). E ciò in quanto al concetto metafisico del Poema.

Dante medesimo fu però sollecito di avvertirci (e ben per tempo, affinchè la interpetrazione altrui tralignata non fosse), ch' ei scriveva non per speculare ne'campi dell'astrazione non ad speculandum, Epistola XI (al che pochissimi han posto mente), sibbene ad attuare una grande idea, ad incarnare un vasto disegno, che tutte gli teneva assorte le potenze dell'anima (sed ad opus incoeptum est totum, ivi, 16); onde il genere di filosofia da lui adottato est morale negotium, sive ethica (ivi). - « Perocchè (prosiegue), sebbene in alcun luogo o passo si tratti a mo' di speculazione, ciò non avviene per vezzo di speculare, ma in grazia dell'opera che l'esige; dappoichè (come nel II della metafisica dice il filosofo) gli uomini di stato che versano sempre in cose pratiche, a quando a quando pur si dilettano di speculare, dissertando intorno ad alcun che di massima importanza» (ivi). E questo principio è in armonia perfetta con la teorica de Monarchia di Dante stesso, ov'egli apertamente dichiara esser proprio dell'uman genere, collettivamente preso, tradurre in atto e sempre, in tutta la sua potenzialità, una idea possibile, per prius ad speculandum, et secundario propter hoc ad operandum per suam exclenclionem (1, 5). Or qual' era questa idea sovrana, che di sè tutta riempiva l'anima di Dante, e che egli avrebbe ardentemente amato di vedere attuata sulla terra? Qual'era quest'opera, alla quale egli evidentemente accenna, e che era di già incoata al medio evo?

Apprendiamola da lui medesimo nella Epistola V a' popoli e principi d' Italia, 1. « Ecco ora il tempo accettevole, nel quale sorgono i segni di consolazione e di pace. Perocchè novello giorno risplende, mostrando l'alba che già dirada le tenebre della lunga calamità; e già i venticelli orientali riprendon vigore; rosseggia il cielo su l'estremità dell'orizzonte, e con serenità dilettuosa conforta gli auguri delle genti. Ben tosto vedremo l'aspettata gioia anche noi, che

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leverà il pacifico sole; e la giustizia, quasi fior di elitropio privo de' raggi solari, languente, come prima egli saetti il giorno, rinverdirà. Nel lume dei raggi suoi diverranno satolli tutti coloro che vivono in fame e in sete; e nell'aspetto di lui folgoreggiante resteranno confusi quelli che amano l' iniquità. Di fatto il forte Leone della tribù di Giuda porse le sue misericordiose orecchie, e sentendo pietà de' lamenti dell'universale schiavitù, suscitò un altro Moisè, che libererà il suo popolo dall'oppressione degli Egizi, menandolo a terra, il cui frutto è latte e miele ». Raffrontate la introduzione di questa lettera al proemio del Poema (Canto I), e vedrete ricorrere le identiche immagini, per modo che, poste a riscontro le une delle altre, si ricambiano luce ed evidenza reciproca. Ivi, di fatto, il deserto tenebroso; e qui il gran deserto (v. 64), la selva oscura (v. 2), la selva selvaggia ed aspra e forte, che, solo in rimembrarla, nel pensier gli rinnovava la paura! (v. 5-6). Ivi il pernottare gran tempo nel deserto; e qui il quietarsi un po' della paura, che entro il lago del cuore gli era durata la notte ch'ei passò con tanta pieta! (v. 19-21). Ivi il rosseggiar de' mattutini albori, lo spirar de'venticelli orientali, il rinverdire e il rifiorir della terra; e qui i raggi del pianeta che già di luce vestivano le spalle e la cima del colle appiè di cui era giunto, l'ora del tempo, chè temp'era dal principio del mat tino, e la dolce stagione, cioè la primavera! (v. 16-17, 13, 43 e 37). Ivi il sorgere del pacifico sole co'se gni di consolazione e di pace; e qui il medesimo sole, che già montava in su con quelle stelle Ch'eran con lui, quando l'amor divino Mosse da prima quelle cose belle (v. 38-40). Ivi la serenità dilettosa, e l'aspet tata gioia; e qui il dilettoso monte, Ch'è principio e cagion di tutta gioia! (v. 77-78). Ivi la nera dipintura di uomini che amano le iniquità; e qui l'altra, non meno triste, di belve dalla gaietta pelle (v. 42), con la test'alla e con rabbiosa fame (v. 47), e carche di tutte brame! (v. 49). Ivi da ultimo la solenne promessa di un altro Moisè, che suscitato da Cristo, il forte Leone della tribù di Giuda, sarebbe venuto a franger le catene della universale schiavitù, a redimere il suo popolo dalla oppressione degli Egizi, menandolo a terra che scaturisce latte e miele; e qui del pari il vaticinio solenne d'un Vellro, cui nè terra nè peltro avrebbe citato, ma sapienza ed amore e virtute (v. 103-104); il quale, col ricacciare la verace e pur sempre famelica lupa nell' Inferno, Là onde invidia prima dipartilla (v. 110–111), avrebbe ricondotto la giustizia, questo fior di elitropio che si volge sempre innamorato del sole, e per l'ampia curva de'cieli assiduamente lo accompagna in trionfo su questa piaggia deserta (v. 29) ch'è la vita!

Ci crediamo quindi da Dante pienamente autorizzati a poterne dedurre, che l'Opus incoeptum, cui visibilmente egli accenna, è l'Opera grande della civiltà, è la civile redenzione de' popoli, è l'affrancamento della società moderna, opera storicamente incoata fin da quell'epoca col libero reggimento a Comuni sorto dalle rovine del feudalismo, più fiera divampante col rogo di Arnaldo, fatta omai sacra dal giuramento di San Giacomo a Pontida, resa splendida dalla riedificazione di Milano e dalla fondazione di Alessandria al confluente della Bormida in onore di Alessandro III capo della Lega, e coronata di gloria su' campi di Legnano. Una lotta da giganti si era combattuta per ben 22 anni, in cui sette poderosi eserciti alemanni erano stati tagliati a pezzi; talchè la Germania, dopo di aver dato due milioni di combattenti, omai vedevasi esausta di forze; e Federico, il superbo Federico Barbarossa, umiliato nella polvere, profugo pe' boschi, ed omai pianto a Pavia come estinto, sicchè la moglie avea già vestito le gramaglie e già si approntavano i funerali, videsi astretto ad implorare pace, che gli fu generosamente accordata, sebbene con improvvido consiglio, dappoichè co' vinti non si viene a patti, specialmente se pregiudizievoli alla libertà ed indipendenza nazionale. La pace di fatto, segnata a Venezia, e ratificata a Costanza, fu come lo strozzo della civiltà rinascente, che perciò restò come sgozzata in cuna. Era dunque del massimo interesse, che, a compier l'opera già sì bene inaugurata, si fosse di nuovo squassato la fiaccola che avrebbe poi dovuto divampare l'Europa tutta; che si fosse di nuovo inalberata la bandiera, all'ombra di cui giovani eserciti avrebbero atterrate le barriere alzate da secoli di barbarie; che di nuovo si fosse tratto fuori dalla guaina il brando, per assalire e disperdere ogni autocrazia (sotto qualunque ammanto si cuoprisse) e quindi ogni assolutismo, ogui dispotismo (comunque si chiamasse). Ed ecco Dante farsene maestro, vessillifero e strenuo propugnatore: egli, che in sè compendiava le aspirazioni di tutta l'epoca sua, riassunse il passato, idealizzò il presente, schiuse l'avvenire; ond'è che oggi tutti gli sguardi sono intenti a lui, che, primo e sommo tra tutti, ci additò qual'esser debba la meta, ultima meta e suprema di questo sublime pellegrinaggio, in cui tutti, come appoggiati al bordone del pellegrino, siamo viatori.

Nè qui ci si vengano a ripetere le nozioni, omai viete, d'un misticismo religioso, ovvero d'un ascetismo fralesco, quasi la Divina Commedia fosse una preparazione a ben morire, oppure una leggenda della settimana santa (come pur l'ha meschinamente ridotta il conte Torricelli); dappoichè Dante, con senno immortale, scriveva quella lettera alla novella che

Arrigo VII di Lussemburgo, già eletto in re de' Romani, stava in sulle mosse di calare in Italia, onde aggiunge: « Rallegrati omai, o Italia, già degna di essere commiserata pur da' Saraceni, chè tosto parrai da essere invidiata, perocchè il tuo sposo, ch'è letizia del secolo e gloria della tua plebe, il clementissimo Arrigo, divo ed augusto e cesare, alle tue nozze di venire si affretta. Rasciuga, o bellissima, le lacrime e cancella le vestigia del dolore, poichè egli è presso colui che ti libererà dalla carcere dei malvagi; il quale, percuotendo i felloni, li distruggerà nel taglio della spada, e la vigna sua allogherà ad altri agricoltori, che al tempo della mèsse rendano il frutto di giustizia ». Il che interveniva circa il 1310 al 1311, quando la prima cantica, pubblicata tra il 1308 e il 1309, era già divulgata in Italia; di qui il ricorrere e quasi il commentar delle immagini del canto primo del poema.

Ma (obiettar ci si potrebbe), e se dunque il primo canto fu scritto tanti anni prima della venuta di Arrigo, come mai a lui vi si farebbe allusione, come par che si debba intendere dalla esposizione già fatta? Cui di rimando: E chi mai vi ha detto che il Veltro allegorico sia propriamente Arrigo? Moisè non è Cesare, nè Cesare è Moisè. Cesare veniva a disposare l'Italia; Moisè invece avrebbe dovuto venire a ridonare la pace al mondo. Sono dunque due concetti distinti, due caratteri essenzialmente diversi, due autorità, nell'assoluta divisione del potere de' quali, oppure nella loro indissolubilità morale, Dante facea consistere l'ideale della civiltà nuova. La difficoltà perciò si dilegua; e ciò qui sia detto come di volo, di rapido passaggio, riserbandoci a miglior tempo di svolgerne l'alto concetto.

E Dante, conseguente sempre a sè stesso, non tralasciava di dire all'uopo, che il fine cui mirava era multiplex, scilicet propinquus et remotus (Ep. xi, 15). Quale questo fine che più da vicino interessava il poeta ? e quale l'altro di non minore interesse, ma lontano, remoto, venturo? Concediamo pur volentieri a' moralisti che il fine prossimo sia la terrena felicità, raffigurata perciò nel terrestre paradiso, cui si perviene per mezzo della ragione (Virgilio) coadiuvata ed assistita dalla grazia ch'è luce divina (Lucia preveniente); e che il fine remoto sia la celeste felicità, che consiste nel fruir della beatifica visione di Dio, simboleggiata perciò nel celeste paradiso o nell' empireo, ultima meta che non si tocca se non dopo la morte, ed a mezzo della rivelazione e della fede soltanto (Beatrice sul mistico carro di Ezechiello ascendente alla gloria eternale). Volentieri noi dicevamo, perchè Dante apertamente lo dichiara in più luoghi delle opere sue (V. De monarchia, III, 15; Convito, IV, 12). Ma, se questo è vero, non è men vero

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