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a tremila bandiere varie di forma e di grandezza, diverse di colore, lucenti per splendore di fregi o di ornamenti d'oro, stavano adunate ed immobili, e più migliaia di cittadini in abito nero vi si schieravano dattorno, mentre da un lato dell'anfiteatro sulla sua sommità si accalcava il popolo minuto, e dall'altro stava assiso un eletto stuolo di eleganti signore, e di uomini illustri e notevoli.

Il battere dei tamburi, la marcia reale, e il plauso frenetico dei circostanti annunziarono l'arrivo di Vittorio Emanuele, il quale entrato nella piazza si assise sul seggio d'onore già appresta

togli. Allora cominciò la solenne inaugurazione. Il Municipio di Firenze e quello di Ravenna, che stavano raccolti all'ombra della statua, si mossero verso S. Maestà, e il Gonfaloniere conte Cambray Digny pronunziò nobili parole, cui brevità non tolse efficacia, e che riuscirono veramente come dovevano essere analoghe alla occasione. Dopo lui prese la parola il prof. G. B. Giuliani e lesse un forbito e dotto discorso, il quale dato in luce per le stampe è stato ormai coronato della pubblica lode. Poco appresso, ad un cenno di chi dirigeva la cerimonia, caddero le teleche cuoprivano il monumento, ed un lungo e fragoroso

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esultanza pubblica; oggi essi stessi convengono che il 14 maggio 1865 supera di gran lunga l'altro giorno quantunque formi epoca nei fasti della vita municipale. E bene sta: imperocchè la gioia del 12 settembre commuoveva in Firenze le fibre della Toscana; la gioia del 14 maggio là sulla piazza S. Croce ha agitato il cuore di tutta l'Italia.

Nel pomeriggio, le vie di Firenze rimasero affollate sì, ma fu possibile circolarvi senza grande difficoltà: ciò perchè un'immensa quantità di gente si spargeva sugli spaziosi prati o negli ameni viali delle Cascine, per godervi il divertimento preparato della Compagnia Equestre dei fratelli Guillaume.

Nel mattino del lunedì, la sala della Società Filarmonica si aprì alla grande Accademia letterario-musicale già annunziata.

La brevità che ci è imposta ci toglie di far ragione speciale di tutti i lavori letterari ed esclusivamente poetici che furono prodotti. Il Maffei e il Regaldi ottennero, secondo era da aspettare, la palma sugli altri: ma la festa prese. sul fine sembianza più grave e più maestosa di quel che si addica a consesso di dotti cultori delle Muse. Imperocchè quando la signora Ristori ebbe col magistero d'arte che le è proprio letta la lettera di Vittor Hugo, gli animi degli uditori si commossero straordinariamente. E quando il sig. Foucher De Careil parlò in nome della Francia e disse che presto l'Italia deve essere davvero libera ed una dalle Alpi all'Adriatico, allora la commozione universale non ebbe più freno, nè misura, nè limite: al grido di Viva la Francia, rispose il grido di Vire l'Italie, e nel sentir ricordare le gesta di Magenta e di Solferino le due nazioni degnamente rappresentate all'Accademia si scaldarono di fuoco fraterno, e comparvero unite in una libera idea, strette ad un patto civile.

Nella sera i rappresentanti convennero al Teatro Pagliano per l'Accademia musicale, e la vasta sala riuscì angusta al bisogno, e le splendide e nuove armonie furono salutate da continui applausi. Piacquero soprammodo la sinfonia del maestro Pacini, la Cantata del maestro Mabellini ed altri lavori che per amor di brevità ci passiamo dal notare; le sorelle Marchisio furono pari al loro merito e alla loro fama.

La mattina del martedì la Crusca si riunì a solenne e straordinaria tornata, in cui fu udita la parola autorevole di quel vecchio venerando che è Gino Capponi. Lessero Centofanti e Atto Vannucci: quest' ultimo sulla Vita e sulle opere di Gio. Batt. Niccolini: ciò detto, è inutile aggiungere che i loro lavori comparvero degni dell'occasione che li aveva ispirati, dell'aula in cui venivano pronunziati, e del pubblico sceltissimo che li udiva.

Nel pomeriggio sulla Piazza S. Croce la rappresentanza comunale sparse i sussidi da largirsi

alle diverse associazioni popolari e di mutuo soccorso. Tutte le Società precedute dalle proprie bandiere e dalle bande musicali si mossero dalla Piazza di Barbano, e si diressero a quella volta, in lunga fila, compatta e ordinata perfettamente. Tutti i vari corpi, passando presso al centro della piazza ove il Gonfaloniere stava in mezzo ai priori, ebbero il mandato per la somma respettivamente fissata. Quindi le diverse associazioni mantenendosi in quella calma severa che si addiceva alla congiuntura, uscirono dall'anfiteatro facendo evviva al Re, all'Italia, a Garibaldi; e andarono a sciogliersi con la quiete stessa con cui s'erano riuniti.

Poco dopo, per iniziativa privata, in una delle sale del Palazzo Serristori, i più illustri rap presentanti stranieri venivano convitati a fraterno banchetto. Chi vi prese parte ne serberà grata memoria come di festa internazionale. Furono fatti brindisi in numero infinito: fu bevuto alla fratellanza dei popoli, e soprattutto al finale riscatto di tutta la gran patria italiana.

Ad altro banchetto si riunivano alla stessa ora gli autori drammatici, e nel nome del Divino Poeta si piacevano in espressioni di affetto fraterno, studiando il modo migliore perchè il teatro nazionale risorga davvero, e pervenga all'altezza cui la scena deve giungere in un paese libero e grande.

Al Teatro Pagliano nella sera stessa ebbe luogo una magnifica festa, perchè l'Accademia dei quadri viventi superò la pubblica aspettativa. Il Re v'intervenne, fatto segno ad entusiastici applausi. Declamarono vari squarci del Divino Poema la signora Ristori, Tommaso Salvini, Ernesto Rossi, e Gaetano Gattinelli: i loro nomi ci dispensano dall'aggiunger parole inutili di encomio o d'ammirazione. Certo che nella vasta sala si offri spettacolo nuovo, per la folla di gente che vi si accalcava, per il tuono degli applausi che spesso interrompeva gli artisti, e soprattutto per l'opportunità colta felicemente con cui il pubblico elettissimo salutò il profetato Veltro, e protestò con tutta la forza dell'animo contro la ingorda Lupa. Mosse a pietà il quadro del Conte Ugolino benis simo composto; e alla vista del quadro ove si rapiva la giovine monaca, rapiva la giovine monaca, ognuno ricordò con affetto ch'ella era Piccarda. L'apoteosi del sommo Poeta, l'Italia che corona Dante Alighieri chiuse l'Accademia, mentre gli spettatori in preda al più vivo entusiasmo battevano furiosamente le mani, e irrompevano in grida di approvazione e di plauso.

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Splendido finalmente, oltre ogni dire, riuscì nella notte il ritrovo popolare sotto gli Uffizi addobbati con sfarzo di decorazioni, con ecces siva luce di specchi e di faci. Il popolo si abbandonò alla più aperta espansione di gioia, senza mai uscire da quel limite che si conveniva a gente che celebrava la maggior sua gloria. Era alto il giorno del mercoledì, e ancora nel famoso

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porticato si protraevano animate le danze, e la musica durava con l'eccitante armonia.

Così Firenze onorò il Divino Poeta. I giornali stranieri riferiranno meglio che noi non possiamo, come la nostra città si chiarisse degna che nel suo seno si celebrassero le onoranze del primo onore del Parnaso italiano. Ma non saremo tacciati d'immodestia dicendo che non è poco vanto il poter asserire che in una città quasi ad un tratto raddoppiata di numero, nissun disordine è avvenuto; il menomo dissidio non s'è

avuto a deplorare, il più lieve inconveniente è stato ovviato, l'accordo più completo, l'armonia più perfetta è regnata nel più alto e nel più basso ordine di cittadini. Firenze ha convitate ad una festa l'Italia e l'Europa: Firenze ha la coscienza che più non poteva fare per mostrarsi degna dell' invidiabile onore; l'Italia, non dubitiamo, farà giustizia al merito; e l'Europa vedrà se un popolo che onora così il suo più grande Concittadino è degno di venir tutto raccolto sotto il sacro vessillo della libertà nazionale.

MONUMENTO DI DANTE IN FIRENZE.

Ardentissimo fu sempre in Dante l'amore di vivere in un tempo che la sua età chiamerebbe lontano: perocchè nelle amare angoscie del cuore travagliato da memorie di patria nemica, è vero, ma però sempre diletta, qual'altra più dolce speranza avrebbe potuto al profugo raddolcire i dolori della misera vita? Errante di terra in terra, ospite riverito sì, ma all' altrui pane umiliato, iniquamente sbandito, povero per confisca crudele, bramoso sempre di tornare ove nacque, non avrà egli forse domandato a sè stesso quando sarebbe felice? E uno spirito presago di futura grandezza avrà talvolta salutato quell'anima con solenne promessa. All'alta fantasia (perocchè spesso fu vaticinio il suo verso) una potenza segreta rivelava pur troppo ch' egli sarebbe in Firenze con altra voce ritornato poeta. Nè già con forza di preci avrebbe in quella riportato per dargli pace il suo corpo; Ï' avrebbe invano ella stessa reclamato più volte, e tornerebbe il suo spirito generoso e placato a riempir solo di gloria omai contesa a poeta, un troppo tardo sepolcro. E fu il presagio consolatore adempiuto. Perocchè deposte non appena in Ravenna le ormai venerate spoglie dell'esaltato Alighieri nel seno di un'urna, che prolungando allora pietosa fe' poi l'esiglio interminato a quell'ossa, ecco levarsi punta da onore Firen

ze, e domandarne il possesso. Ma l'ospite terra, che lo raccolse sbandito, volle serbarlo al suo lustro, e lo negò per tre volte. E fino a un Medici inalzato alla tiara, amatore d'ingegni da dare il nome al suo secolo, fu rivolto il reclamo, nè i sacri avanzi tornarono.

Michelangiolo stesso, eccellentissimo ingegno nelle arti e nominato come Dante divino, offerse il suo genio ad inalzare al Poeta un mausoleo, che degno fosse di vantare il grand' Uomo, e ricordarne un secondo. Ma l'espiazione si lungamente nel desiderio e nelle aspirazioni durata, si mostrò alfine più fervorosa nel secolo nostro.

Un numero di eletti cittadini vergognando che Firenze dovesse pur tuttavia sembrare ingrata non alzando al Divino nemmeno un sasso ad onore, volsero l'animo determinato al generoso proposito. E furono tali le oblazioni della pubblica liberalità cittadina e sì spontaneo il concorso, che l'opera fu allogata nel 1848 allo statuario Stefano Ricci. Undici anni dopo, nel 1829, era il nobile monumento collocato nel tempio degl' ingegni immortali in S. Croce, e 544 anni dopo la morte del Divino Poeta si scioglieva il gran voto. Surge il cenotafio di fronte al secondo pilastro entrando in chiesa a man destra, e siede in mezzo ai sepolcri poco spazio distanti del Buonarroti sommo pittore, scultore, architetto e poeta, e dell' Alfieri inimitabile padre dell' italiana tragedia. Sovra un basamento semplicissimo, sul quale riposa l'urna, un altro se ne inalza più elevato, che supera di qualche tratto la medesima, е sostiene il simulacro del glorioso Poeta, che sta in atto di profonda meditazione appoggiato col destro braccio sull' immortale Volume. Gli posan daccanto la cetra e l'epica tromba congiunte insieme e appoggiate al suo seggio. Sulla principal base sta alla destra l'Italia maestosamente superba e pare in

segni alle genti che un tanto Vate è suo figlio, perocchè accenna col braccio all' iscrizione, che è nell' alto del cippo: Onorate l'Altissimo Poeta. Dall'altro lato è la musa, e s' abbandona desolata e piangente su quelle splendide pagine, che ha dinanzi sull' urna, e che niun altro consimile ingegno potrà più offrire al suo nume.

Quest'opera, per quanto nelle proporzioni grandiosa, surgendo il monumento quattordici e avendo le figure sei braccia almeno di altezza, non sodisfece gran fatto alla pubblica aspettativa, mentre parve l' artista aver negletto in quei marmi la intelligente interpretazione, che richiedeva il sublime informativo concetto. Pure il gran voto era sciolto; ma non per questo Firenze si chiamò paga dell' espiata sua colpa; fu un continuo cospirare di affetti, un accennare al precursore di migliori destini, un nominarlo ispiratore continuo di fratellanza e d'amore. E sino a che il pubblico reggimento rendeasi ostile a ogni maniera di libero vivere, i soli comenti al poema davano sensi liberali e magnanimi al Ghibellino fuggiasco. Ma venne poi giorno che il profeta dell' italiana unità fu liberamente salutato, e un' intera nazione da lui per sei secoli alla concordia ammonita potè venire in fratellanza raccolta a celebrarlo nel luogo stesso dell' antica sua cuna.

aveva

Avea nel 1856 il comune di Ravenna commesso al giovine artista Enrico Pazzi, egli pur ravennate, il modello di una statua da erigersi a Dante con proporzioni colossali in quella città, che ne raccolte e venerava le ceneri. Effigiò dunque l'artista atteggiato a sdegno il Poeta, allorchè per biasimo dei cittadini partiti egli esclama:

<< Ahi serva Italia di dolore ostello,

Nave senza nocchiero in gran tempesta,
Non donna di provincie ma bordello ! »

La virile rampogna, che giovò tanto all' Italia, fu male accolta dai troppo servi pensieri di quei tempi infelici, nè fu altrimenti quel modello approvato. Ma un dotto giudicio venuto da più nobili animi confortò allora l'artista a proseguire l'incominciato lavoro, e una società formatasi per aiutarlo nei mezzi, destinò appresso quell' opera come dono fraterno della asservita Toscana alla magnanima e sempre invitta propugnatrice dei diritti d'Italia Torino. Divenuta poi libera finalmente l'Italia, e decretatesi le feste natalizie del divino Cantore, il Municipio di Firenze ebbe in dono la statua, e volle pel memorabile giorno fosse inalzata nella Piazza di S. Croce innanzi a quel Tempio, che tante glorie nostre racchiude.

La statua ha cinque metri e ottantacinque centimetri di altezza; la testa del poeta coronata di alloro e piena di quella virile severità, che ne distinse il carattere, è piegata a sinistra verso l'aquila, emblema dell'antica Roma, che gli sta a' piedi, e quasi accenna volare. Raccoglie sul petto con la sinistra mano il mantello, mentre ha nella destra il gran libro, che gli diè fama immortale.

La base quadrilatera con risalti sugli angoli è alta sei metri, ed è di bigio di pietra forte con ornamenti vari intramezzati dalle armi delle città principali di Italia.

Il monumento è poi circondato da una ringhiera di ferro, e porta in fronte questa laconica ma eloquente iscrizione :

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RITRATTO DI DANTE.

A

DANTE ALIGHIERI

L'ITALIA

MDCCCLX V.

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sto pare avventurosa non ha perduto, benchè a gravi casi esposta, la memorabile effigie. E poichè della casa e dei monumenti onorari qualche cenno abbiam dato, ci riserviamo adesso con brevità sempre eguale, dar sommarie notizie dei principali ritratti.

Si disse il più somigliante quello che fu nel 1844 scoperto dal prof. Antonio Marini nella Cappella del Palazzo Pretorio, allora carcere, e voluto di Giotto, appoggiando il giudizio artistico a un'antica tradizione e alle scritture del Villani, del Manetti, del Vasari, nonchè del Ghiberti. Sta quivi il Poeta con altri due uomini del suo tempo, Corso Donati il potente barone capo della fazione dei Neri, e Brunetto Latini, che fu maestro dell'Alighieri, e gli insegnò bene come l'uomo s'eterna. È Dante nel verde della giovinezza, e se non è lusinga, che gli ha fatto il restauro, dimostra età media tra i venti e trent'anni. Ha nella destra il frutto del melagrano, che tutta in bell'ordine accoglie in seno la sua dolce e numerosa famiglia, e, come simbolo di sue dottrine politiche, sembra egli mostrarlo ai cittadini discordi, perchè sia pace tra loro? La venerazione fin ad ora avuta al descritto dipinto, malgrado contrarie opinioni recenti, dà al medesimo il dritto di esser citato, se altro non fosse, pel primo. Il Gaddi, allievo preferito di Giotto, dipinse anch'egli a fresco l'Alighieri in Santa Croce, ma quel ritratto più non esiste, essendo stata distrutta quella parete quando fu dal Vasari riordinata la chiesa. E dicono si servisse il pittore, che non poteva aver conosciuto il poeta, dei ricordi lasciatigli dal suo grande maestro, che fu amicissimo e contemporaneo di Dante. Esiste però tuttavia altro ritratto in Duomo, che fu gran tempo attribuito all' Orcagna; e studi ultimamente fatti su antichi documenti han rivendicato alla fine al suo legittimo autore. Questo quadro in tela, che fu sostituito ad un altro fatto dipingere nel 1430 da Anto. nio frate dell' Ordine di San Francesco ed in quell'epoca espositore in Duomo della Divina Commedia, è opera di Domenico di Francesco detto di Michelino scolare di Frate Angelico. Ritengono ora questo come il più antico e più sicuro ritratto, che esista, avendo per congettura che sia stato fatto col modello del Gaddi sventuratamente perduto.

Non manca poi finalmente un certo numero di piccoli ritratti sparsi nei diversi manoscritti dalle opere di Dante, che qua e là si conservano nelle pubbliche e private biblioteche. E merita fra questi speciale menzione quello, che si vede nel Codice Riccardiano 1040, che appartenne a Jacopo Giannotti, e dove sono le poesie minori di Dante unite a quelle di messer Bindo Bonichi.

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Celebrare il poema del divino Alighieri, cercare le vestigia della sua vita, richiamarne la memoria superstite dall'esilio ingiustamente patito sono questi i segni del culto civile, che il presente secolo ba tributati al più illustre Italiano. Non il più lieve indizio di lui fu lasciato; spigolarono i dotti con desiderio crescente cel vasto campo delle antiche memorie, e dove parola fu trovata scritta o sasso lasciato in piedi dal tempo, una mano riparatrice gelosa registrò quella su pagine ricche di studi, difese l'altro dalle improvide rapine del lucro, e lo serbò illeso ai venturi. Vivono i presenti dimentichi; ma le ispira zioni non mancano; nascoste o sotto il velo di rinnovati cementi o tuttavia nude e con l'austera e virile severità di coloro, che vi abitarono, si mostrano a ogni passo le modeste case o le alte, ma semplici torri dei nostri grandi maggiori. La storia sepolta nei libri, vive ora nei focolari suoi propri, e insegna quelle memorie onorevoli ai discendenti di una gente operosa, perchè non manchi a sè stessa. Nè di meno potea farsi per risvegliare l'entusiasmo della grandezza dimenticata, nè di più ottenere se dai morti costumi si fan rivivere i nuovi. L'esempio è prima o dopo efficace, e magnanima idea fu certamente quella di farlo continuo; perocchè bisogna senza dubbio un grande eccitamento a tener viva nei cuori la nobile fiamma del sapere e della virtù soffocata pur troppo dal freddo cenere dell' interesse conquistatore brutale. La città nostra frattanto curatrice di molte memorie non potea sì di leggeri aver dimenticato e lasciate perire le mura di quella casa, ove il più grande suo cittadino avea sortito i natali, e data a lei tanta gloria. Che se per malnato odio di parti seppe ella farsi ingrata a colui, che poi la fece invidiata dal mondo, e dovè presto pentita riprovare sè stessa, e inalzare così al misero e ineguagliabil poeta un'urna vuota per sempre, ebbe ella almeno nel suo tardo pentimento costante memoria di lui. Nè avendo modo ad ottenerne le spoglie mortali, ereditandone non senza rimorso gli onori, additar volle almeno il luogo de' principii di esso, la casa, ove nacque, che un grande amore ed una secolare reverenza han sino a noi conservato.

Di questa casa appunto ci proponiamo parlare per rendere annotiziati più che i nostri Fiorentini, ai quali queste cose son note, gl' Italiani di altre città e i forestieri, che nella circostanza presente delle feste in onore del sommo Poeta affluirono in gran numero alla nostra Firenze. Ne vogliamo solo

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