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sottentrare gli idoli. Costantino le restitui nome e culto; ma, conquistata da' Persi, riavuta da' Greci, era finalmente soggiogata da' Musulmani, dalla cui lama ricurva, non ostante il fervor delle Crociate, quando (secondo la bella espressione di Anna Comneno) l'Europa parea divellersi dalle radici e precipitarsi rabbiosamente su la Palestina contro la tracia luna, non aveva a risorgere mai più. Sicché Gerusalemme, sotto il fondo delle sue nequizie, curvata la superba cervice innanzi alla gigante virtù del Campidoglio, collo scettro del pensiero e della fede avea ceduto il primato morale nel mondo dello spirito a Roma, cui Dante perciò saluta col nome di nuova Sion, di preeletta città di David (Ep. IX, 1). E con pieno convincimento ei lo dice, dappoiché Roma è per lui città imperadrice, che da Dio sorti special nascimento e processo; da Dio cacciata a interprete d'un disegno altissimo tra le nazioni; ond'ebbe cittadini non umani, ma divini, deputati ad essere istrumenti d'un volere supremo; ragione per cui non conosce morte, a buon diritto appellata eterna ( Conv. IV, 5).

E questo ringiovanirsi perenne, questo contiuuo trasformarsi, or sotto la clamide de' re', or sotto il fascio de'consoli, or sotto la porpora degl'imperadori, or solto il ca mauro de'pontefici, pur sempre balda di vita e dominatrice sempre, è fenomeno, è prodigio unico nella storia della umanità. Tiro, Sidone, Cartagine, Corinto, Orcomene, furono città doviziose e potenti; oggi pochi ruderi appena le ricordano al passaggiero. Roma è li vincitrice de'secoli, parlante tuttora dalle sue torri, dai suoi monumenti. D'onde il segreto ? Quelle, gelose di loro grandezza, furono città municipali, egoiste, esclusive: e caddero. Il patriottismo degli stessi Ateniesi, de'medesimi Spartani, fu troppo angusto; onde respinsero improvvidamente ogni elemento straniero. Sparta ed Atene, città libere, malgrado tanto eroici sforzi, rimasero perciò sempre città e presto finirono. Roma all' incontro (e qui dice pur molto bene il Cantù ) divenne un gran popolo, pur rimanendo città: non solo assorbendo, ma assimilando mille idee, costumanze, persone d'ogni parte e a tutte infondendo la vita, ed alla forza del numero accoppiando la forza dell'unità. Essa, la gran città cosmopolita, spinta dal suo popolare istinto di associazione universale, nel che (per unanime consenso di tutti gli istoriografi e giureconsulti profondi ) sta il capolavoro della legislazione romana, ad aggregare a sė, o stendere altrui le proprie istituzioni, accettando nella città gli avveniticci, con la triplice distinzione di municipi, colonie e prefetture, moltiplicava e variava le concessioni in proporzion dello zelo: e per tal modo mantenea tra loro sempre desta la gelosia, ed accesa l'emulazione. Il municipe (che primeggiava tra le condizioni), purchė, trasferitosi sul Tevere, vi si fosse fatto ascrivere in qualche tribù, godea dell'alto diritto del suffragio e della eleggibilità; talché, mentre restava membro della propria comunità indipendente, era (come abbiamo da Cicerone) anche cittadino di Roma, elettore ed eleggibile, avendo una patria di nascita ed un'al tra di diritto.

Ne, per volgere di tempi e per cambiar di costumi e di religione, Roma mutó mai di indole; anzi fu questa maggiormente rinvigorita dalla idealità evangelica; onde,

allargando più e più sempre la sfera delle sue conquiste, non più col ferro (secondo la bella frase di S. Agostino) ma col legno, insieme congiunse ( ripeterem col Gioberti) « l'urbe coll'orbe e fu in effetto, come di titolo, cosmopolita» (Primalo, vol. I, 1844, Purg. 38). E, se la Chiesa pervenne potente (a prescindere da Costantino, da Pipino, da Carlo Magno e dalla contessa Matilde), ei fu perché, amica del popolo, anzi sua tutela e baluardo contro la prepotenza armata, fu popolare anch'essa. La forma di fatto, con cui ne'primi tempi si governò, fu a forma di popolo. Gli ordini dodici riapparvero nelle assemblee, nelle diete, nelle leghe; e le formule repubblicane, fondate cristianamente sul principio di abnegazione assoluta, riapparvero ne'chiostri, sotto ruvidi ammanti, in mezzo agli ordini monastici, per opera di pii taumaturghi, la cui memoria perció non ancor langue; tanto tuttor ne diletta quella loro austera semplicità! I popoli si erano avvezzi a veder nella Croce, non più la insegna di un potente, ma la bandiera della fratellanza, il segno della universa redenzione, il simbolo che dai pinnacoli de'templi, dalla cima delle antenne e de'gonfaloni, protendendo le braccia, li benediceva. Come altrimenti si spiegherebbero i miracoli di valore, oprati allora Erano tempi di fede schietta, e quindi di massimo entusiasmo religioso. Quando il papato, per avidità di regno e per fame di oro, cessò di rappresentare il progresso, unica legge che domina il mondo, decadde. Avuto il regno, perdé l'umanità, la quale non è mai col settatore, nella necessità di svolgersi, di esplicarsi, per raggiungere i suoi destini; si schiuse altre vie, più larghe, più feconde, ed incomparabilmente più maestose e belle.

Roma (noi dicevamo) ereditò da Gerusalemme lo scettro del pensiero e della fede, e con esso il primato morale nel mondo dello spirito; ma s'inganna chi crede che Roma sia per la civiltà moderna ciò che Gerusalemme fu per la civiltà antica. Imperocchè carattere precipuo della civiltà antica è la difformità, necessaria conseguenza di società discordi ed autonome; carattere precipuo della civiltà moderna è la uniformità, l'accentramento, la fusione, effetto immediato della codificazione, che fa tanto maggiormente sentire i suoi bisogni, come più serve e divampa lo spirito di nazionalità, omai propagato e diffuso per ogni dove. Nel mondo antico fu il predominio del senso, che si tradusse in religione, e si disse politeismo; in morale, e si nomó schiavitù; in politica, e si appello cesarismo. Cristo lo contemplò, e proferi le alte parole: Il mio regno non è di questo mondo! Quasi dicesse il mio regno è quello che verrà, il regno della idea divina, il regno della giustizia e dell'amore, il regno della emancipazione e della libertà, il regno della concordia e della fratellanza universale, il regno in cui si sarebbe adorato Dio in spirito e verità!.... ch'era il regno ch'ei predicava del Padre, il regno evangelico ed ortodosso, rispondente all'armonia cosmica, ed alla dialettica che aveva a cominciare fin d'allora. È questo il regno che già si è cominciato ad inaugurare su la terra: esso dunque non è più l'antico. Cristo ne predisse la rovina; e fini colla caduta di Gerusalemme prima e poi del romano Impero; ond'è che Paolo, scrivendo a' Tessalonicesi, annunziava omai prossima la fine del mondo. E gli uomini realmente

credevano il mondo dovesse finire! Alludeva per lo appunto a questo mondo primitivo, che, agonizzante a piè della Croce, stava per dare il rantolo estremo. E quindi l'Alighieri, a significarci questo rovescio immenso, avvenuto nel mondo dello spirito, nel simboleggiare in un gran veglio, quello del monte Ida, mondo mitico primitivo, cuna di Giove, sede di Paride e di Minos, tutta la umanità, dalla testa di oro fino, dal petto di argento puro, dal ventre di rame, dalle cosce e gambe di ferro, e da'pie di argilla (giusta il colosso veduto in sogno da Nabuccodonosor), ce lo descrive (come ci occorse altresi di notare nell'articolo II) con le spalle volte inver Damiata (per accennare all'Oriente, la cui sapienza era già chiusa col suo sistema di privilegi e di caste, colla sua immobilità e quindi colla sua morte!), e col guardo intento, come a suo speglio, in Roma, tipo de' nuovi tempi e della civiltà nuova (generata dal movimento europeo, ed avente a suoi principii fondamentali, eguaglianza e libertà, diritto e dovere, indipendenza ed unità, progresso ed umanità).

Avo paterno del Guido che ci muove a scrivere, fu quel grande avventuriere Simone di Montfort, che, fatto capo della guerra contro gli Albigesi, divenne conte di Tolosa; e il padre suo, Simone egli pure, essendo passato in Inghilterra, vi sali talmente da trovarsene infine di fatto, se non di nome, il vero monarca; per quindi precipitare, e in quella ruina, da tanta altezza, trarsi dietro, colla fortuna, anche l'anima de' suoi figli, come vedremo.

Questo padre di Guido di Montfort abbandonò la Francia, per essersi inimicato colla regina Bianca, madre di Luigi IX allora minorenne, e scelse l'Inghilterra a nuova sua dimora, perché vi aveva diritto alla contea di Leicester, stata ereditata da una sua nonna. Il re ingle se Enrico III difatti accoltolo a grande onore, gli acconsenti il titolo e i dominii che reclamava, e che ai Montfort erano stati contesi da Giovanni Senzaterra; né ciò solo, ma se lo tenne a lato quale consigliere e capitano, e non tardó a dargli una propria sorella in moglie. Ma spirito infermo, e fatto anche sospettoso da un regno che tail il padre gli aveva trasmesso arruffatissimo, questo re

Ecco il grande ideale politico, religioso e sociale di Dante... Roma! « La capitale del Lazio per tutti gl' Italiani è da venerarsi, siccome principio comune di civiltà Latiale Caput pie cunctis est Italis diligendum, tanquam commune suae civilitatis principium » (Ep. IX, 40). Quel mistico Monte perciò è principio e cagion di tutta gioia (Inf. I, 78), simbolo di redenzione e di trasfigura, zione così nazionale che cosmica, e quindi immagine della solidarietà futura di tutto l'uman genere.

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Mostrocci un' ombra dall' un canto sola,
Dicendo: colui fesse in grembo a Dio
Lo cor, che in sul Tamigi ancor si cola.
(Inferno c. XII).

Sebbene francese, questo Guido di Montfort appartiene alla storia d'Italia per più ragioni ; e segnatamente per una crudele sua empietà, che parve enormissima anche a quel tristo secolo XIII nel quale fu commessa, e per la penitenza che ne dovette fare. Del grande peccato le memorie contemporanee parlano molto; e Dante che era bambino quando avvenne, se lo ricordó scrivendo la Commedia, e condegnamente lo puni; tuttavia credemmo che valesse il pregio di ritesserne la narrazione, imperciocchè nessuna delle cronache, per quanto diffusa, registrò tutto quello che mette in desiderio di saperne; - e molto meno i Commentatori del Divino Poema: alle quali scritture ora fa mestieri di aggiungere quanto inoltre le carte del pontificato di Gregorio X forniscono.

Da una piccola signoria fra Parigi e Chartres trasse il nome la famiglia dei Montfort; ma si rese famosa e potente in Inghilterra, nella Linguadoca e in Italia, per molta prodezza, per duro fanatismo, per ambizione e rapacità sfrenate fu insomma dei lignaggi che meglio valgono a rappresentare l'indole di quell' epoca di crociati e di tiranni, nella quale si agitò maggiormente.

rovesciava una vicenda che toccò pure al nostro conte Simone, il quale però seppe della disgrazia farsi mezzo a salire più sublime, imperciocchè essendo pieno il reame di città e di baroni malcontenti, egli si uni a loro, ne divenne capo, e raccolte cosi le forze della vasta op posizione, potè costringere Enrico III ad ubbidirla. Volle questa che la somma delle cose fosse nelle mani di un consiglio di ventiquattro signori, presieduto dal conte di Leicester; e ne usci una vera oligarchia, durata ben dieci anni; in capo al qual tempo il re avendo tentato di riafferrare il potere di prima, scoppio a impedirglielo fiera guerra civile, che dal conte Simone essendo stata condotta con somma accortezza e vigoria, fece lui arbitro del regno. Giunse a tanto egli durante codesta ostilità, da imprigionare nella Torre di Londra il re e la Regina, applaudendo il popolo, del cui bene mostrava di curarsi; finché venne chiamato in mezzo il re di Francia, Luigi il santo, perchè terminasse ogni contesa con una sua sentenza: ma questa poi, come suole accadere di tali compromessi, non venne osservata, perché ai baroni parve troppo favorire la corona. Riarse dunque la lotta, e più di prima accanita; ma i regii ebbero lungamente la fortuna contraria, cosi che di nuovo re Enrico fu fatto prigioniero, e questa volta con lui anche il suo primogenito Eduardo, e il fratello Riccardo di Cornovaglia che una fazione di elettori tedeschi aveva poco innanzi proclamato re destinandolo alla corona imperiale. Dopo di ciò vero signore del regno fu il conte di Leicester; se non che al giovane Eduardo riusci liberarsi, e poté riprendere ajuto di Francia e di Germania. Affrontò egli allora i baroni ribelli e già fra loro discordi; e ad Evesham li batté completamente, uccidendo lo stesso conte Simone che li comandava, e a lato a lui il suo figlio maggiore; poi, come il cadavere di codesto fu raffigurato fra i mille morti, con selvaggia vendetta lo volle messo in brani, e ne mandó la testa alla moglie del conte di Mortimer, la quale aveva odiato Simone, come la romana Fulvia il sommo Oratore.

Sopravvivevano però al conte di Leicester altri due figli; il Guido e un Simone; e questi con un odio in cuore il più acerbo che possa da uomo sopportarsi, ripararono in Francia dove allora Carlo d'Angiò affaccendatissimo preparava la impresa di Napoli contro re Manfredi, e faceva festa e prometteva grandi premi a qualunque uomo di vaglia traesse ad offrirgli il servigio della propria spada. A lui dunque non potevano mancare di portarsi i due giovani cavalieri, già illustri non solo pel casato, ma si anche per proprie geste; e agevolmente si può immaginare come ne venissero accolti. Ben essi avrebbero preferita qualunque altra bandiera che fosse stata messa contro i reali d'Inghilterra; ma non vedendone in tutta Europa, dovettero tenersi ancora fortunati di quella congiuntura.

Parve infatti l'impresa di Napoli dover restaurare grandemente, se non ripristinare del tutto, la casa principesca dei Montfort; imperciocchè a Guido affido Carlo d'Angiò il rischioso incarico di menargli attraverso alle Alpi e ai campi ghibellini la cavalleria, sgombrandosi il cammino colle spade non meno che « coll'argento de franceschi, intanto che egli precedeva sulle navi; e di poi lo creò suo vicario in Toscana, quando i Guelfi di Firenze, dopo la giornata di Benevento, vollero aver lui per signore.

Mentre queste cose avvenivano, il santo re di Francia preparava la seconda sua crociata, e la faceva predicare anche fuori del proprio regno; ond' è che gli si unissero molti signori pure di altre nazioni, e lo stesso principe Eduardo, ereditario della corona inglese, allora impeditone, promettesse di farlo in seguito, e gli mandasse frattanto il giovane suo cugino Enrico, detto di Germania, per essere figlio di Riccardo di Cornovaglia.

ben dice quanto codest' odio fosse. Imperciocchè non solo dalla presenza dei due re non furono tenuti a freno, ma neppure dalla casa di Dio, ove l'orribile uccisione venne eseguita, forse perchè maggiore ne andasse la fama di quella vendetta. Adunque saputo un mattino che l' inglese crociato assisteva in una chiesa parocchiale al sacrificio della messa, ivi si portarono a cavallo, seguiti da una mano di sicari; e smontando alla porta fecero irruzione in quel tempio, e piombarono addosso colle spade nude al giovane, il quale orava inconsapevole innanzi all'altare ove era celebrato. A quella vista due buoni sacerdoti si slanciarono contro i furibondi; ma caddero sotto i loro colpi, l'uno morto, l'altro sconciamente ferito, senza che il crociato potesse intanto mettersi in salvo o in difesa. Fu dunque trucidato co' suoi difensori; né desistettero dal trafiggerlo, finchè più non lo videro dar tratto e nè anche bastó codesto alla vendetta, che già lo avevano abbandonato nel suo sangue, là sui gradini dell' altare, e usciti di chiesa stavano per rimettersi in sella; quando a Guido venne in cuore di tornare a lui, e pe' capelli trascinarselo dietro fino al cavallo. Dopo di che l'orribile comitiva se ne poté andare, senza che una mano si levasse ad arrestarli; la città da stupore o da terrore colpita non si mosse, e vuolsi che i due re acconsentissero a lasciarli fuggire: fatto è che di questo poi riportarono grande biasimo, e gli Inglesi li stimarono complici dell' assassinio, per nimistà alla loro nazione. Questo sacrilegio veniva perpetrato nella quaresima del 1271.

Si chiusero dopo di ciò gli uccisori in un castello maremmano del conte Aldobrandino, il quale aveva maritata a Guido una sua figlia; ma poco di poi Simone mori di morte naturale, senza aver dato pubblico segno di contrizione; e questo fece, oltre alla maggiore rinomanza del fratel suo, che narrando la tragedia di Viterbo da molti non si menzionava che Guido quasi fosse stato solo a qnel misfatto, del quale poi solo portò veramente la pena. Anche Dante lo vede scompagnato nell' Inferno.

Contro di questo Enrico sfogossi poi la vendetta dei fratelli da Montfort, poiché loro mancò l'occasione di portarla più in alto; ed ecco in qual modo. È noto come re Luigi IX, nel 1270, sbarcasse i suoi crocesignati sotto Tunisi, e quivi in capo ad un mese egli perisse di febbre maligna, in mezzo al suo esercito dalla stessa influenza già miseramente sminuito. Poche settimane dopo la morte del santo, si tolse l'esercito crociato da quel Dal collegio de' Cardinali furono gli empi fratelli lido funesto, e traghettò in Sicilia per ristorarsi; ma in scomunicati, e re Carlo di Sicilia dovette spogliarli di seguito più non si diede pensiero della Palestina, dove ogni dignità loro conferita; ma solo ebbe un effetto propure era stato predicato che si sarebbe condotto; e cia-porzionato alla colpa la sentenza che poi, nel 1273, fulscuno procacciò di far ritorno alle sue case. Il solo Eduardo d'Inghilterra, che fedele alla sua parola aveva raggiunto a Tunisi il re francese (ma già vi era spirato), lui solo volle sciogliere compiutamente il voto; e menò le sue genti, inglesi e scozzesi, a Tolemaide; neppure seguito dal cugino Enrico, il quale tenne dietro al nuovo re francese, che, stato col padre in Africa, ora ne riportava la salma in Francia per la via di terra.

Volle questo re, in uno collo zio Carlo d'Angiò re di Sicilia, visitare in Viterbo il collegio dei cardinali, colà radunatisi perché vacava la sedia papale, e in Roma di quei giorni non avrebbero potuto farlo con sicurezza: ma vi trassero anche i fratelli Simone e Guido di Montfort venendo ai due sovrani per onorarli; e come videro il loro congiunto Enrico di Germania, smarrito ogni lume, determinarono di sbramare nel sangue di lui quell' odio che a tutta la sua casa portavano; e il modo che tennero

mino Gregorio X, il nuovo Papa, ad istanza di Eduardo già fatto re d'Inghilterra per la morte del padre.

Eduardo in Palestina era stato ferito a tradimento con lancia avvelenata da un saraceno, e penò molto a guarirne; per la qual cosa disanimato, non appena sentissi di poter reggere al viaggio, ne era partito. Fors'anche a indurlo si erano aggiunte notizie del padre suo, il quale era caduto infermo, ed anzi mori mentre egli viaggiava.

Navigo Eduardo da Tolemaide in Italia, d'onde intendeva poi di proseguire per terra fino alla Manica; non appena ebbe toccato il nostro suolo, furongli incontro servi ed amici del cugino suo Enrico, a presentargli in una coppa d'oro il cuore dell'ucciso e a narrargliene la morte. Allora egli con quella reliquia ne andò al sovrano Pontefice, per impetrare che Guido di Montfort (già Simone non era più) avesse pena adeguata al gran delitto, e tale che non potesse farsene gabbo; dal che

Papa Gregorio fu indotto a pronunciare contro il sacrilego micidiale sentenza di prigionia; e « che ogni persona avesse facoltà di arrestarlo, e fosse colpita da interdetto quella terra dove lo si lasciasse andar libero ».

Ciò conseguito, e non vedendo di potere in Italia avere maggiore ammenda, re Eduardo portò quella coppa funerale in Inghilterra, ove la fece porre in su una colonna in capo al ponte di Londra sopra il Tamigi, per memoria agli Inglesi del detto oltraggio (4).

La sentenza papale tolse a Guido di Montfort ogni via di scampo; cosi che dopo avere per qualche giorno errato come Caino, respinto da ogni umano consorzio e sospettoso di tutti, si ridusse ad atterrarsi dinanzi al Pontefice, e a subire la sua condanna. Erasi Gregorio mosso per andare a Lione, ove radunava un concilio ecumenico; e giunto a Firenze, vi aveva soggiornato quattro giorni, lusingandosi di potervi pacificare Guelfi e Ghibellini: ma la era opera non più fattibile oggimai neppure a un Papa. Mentre dunque trovavasi costa, Guido portossi a lui coi segni della più grande compunzione, e si sottomise alla sua condanna: questa scena lo stesso Gregorio X la descrive in una sua lettera, del 29 Novembre 1273, al re d'Inghilterra; sarà dunque il meglio udirla da lui. « Giunti che fummo a Firenze (cosi egli), Guido di Montfort ci mandò la moglie ed altre persone a supplicarci gli concedessimo di recarcisi ai piedi, che si diceva pronto ad ogni nostra ingiunzione; ma noi per aver maggior riprova del suo pentimento, glielo negammo. Se non che, lasciata di poi Firenze, a due miglia da questa ci si fece incontro lui medesimo, accompagnato da congiunti ed amici, dimessi tutti, a pie nudi, con funi al collo; e prostrandosi nella polvere piansero dirotto. Alcuni del nostro seguito soffermaronsi a tale spettacolo; e Guido ad alta voce ripeteva di voler ubbidire senza riserva ogni nostro comandamento; e chiedeva di esser rinchiuso in quella carcere che a noi fosse piaciuto, ma che prestassimo fede alla sua contrizione. Però noi non abbiamo voluto allora dargli ascolto; ed anzi rimbrottammo quelli che con lui si trovavano, come gente che facesse mal uso del tempo: ma di poi, consigliati dai nostri fratelli, commettemmo a due cardinali dimoranti in Roma, che assegnassero al peccatore in qualche fortezza della Chiesa una prigione ; e a re Carlo della Sicilia che ve lo facesse custodire durante la nostra assenza.

Fu mandato a chiudersi nella ròcca di Lecco, perché posta nella giurisdizione del Comune di Milano, del quale re Carlo aveva titolo in quel tempo di signore, fattogli decretare da Filippo Della Torre; come l'ebbe di Firenze, e d'altre cospicue città rette a parte guelfa. Che sia stata questa la prigione di Guido di Montfort non ci avvenne di trovarlo in altri storici di quel secolo, che in Galvano-Fiamme; il quale scrive: « Hic comes in rocha de. Leuco publice poenituit »; ma non lo avremmo creduto a lui solo, così facile a inventar fole; se non che poi ci cadde sott' occhi a confermarlo un breve dello stesso Gregorio X, che il di 1.o d'Agosto 1274, ingiungeva al Patriarca di Aquileja (era Raimondo della Torre), al Priore de' Predicatori e al Guardiano dei frati Minori, in Milano, di sciogliere dalla scomunica Guido di Mont(4) Ric. Malesini, cap. 208.

TIP. GALILEIANA DI M. CELLINI E C.

fort, prigioniero per mandato papale nella rócca di Lecco, e che pentito umilmente supplicava di venir riammes so nel grembo della santa Chiesa (1).

Malgrado però questa indulgenza del Pontefice, il severo Dante volle tuffare il sacrilego uccisore in quel fiume di sangue ove ci fa vedere immersi gli uomini più crudeli; e non solo, ma ve lo mise appartato, quasi gli stessi peccatori eternamente puniti per aver dato «nel sangue e nell' aver di piglio », inorridissero della sua compagnia. P. ROTONDI. riprodotto, come dostoria che abbiamo

(1) Questo Breve merita di essere qui cumento poco noto, e illustrativo della narrato.

Gregorius Episcopus, servus servorum Dei, venerabili fratri Patriarcae Aquilejensi, et dilectis filiis Priori Praedicatorum et Guardiano Minorum fratrum mediolanensium salutem et Apostolicam Benedictionem.

exco

Sua nobis nobilis vir Guido de Monteforti petitione monstravit, quod cum nos olim occasione homicidii, in quondam Henricum de Alemannia, natum clarae memoriae Richardi in Romanorum Regem electi, in quodam Parochiali Ecclesia Viterbiensi, dum ibidem divina celebrarentur officia, perpetrati, adversus eum tamquam in maleficio notorio procedentes, diffinitivam sententiam eiusdem maleficii enormitas exigebat, ac in eundem nihilduxerimus promulgandam, statuendo contra ipsum varia, prout ominus manifestum sacrilegium, et etiam contumacem, municationis sententiam promulgando. Postmodum idem Guido ad cor rediens, seque nostro conspectui personaliter representans, nostris et Ecclesiae mandatis parere per omnia obtulit se paratum, ac demum sponte, non coactus, ad mandatum nostrum Roccam de Leuco, mediolanensis diaecesis, carcerandus ibidem, intravit, ubi adhuc detinetur carcerali custodiae mancipatus. Quare dictus Guido nobis humiliter supplicavit, ut eum absolvi a praedicta excomunicationis sententia mandaremus. Quocirca discretioni vestrae per Apostolica scripta mandamus, quatenus vos, vel duo, aut unus vestrum, per vos, vel per alium, seu alios, eundem Guidonem juxta formam Ecclesiae ab hujusmodi excomunicationis sententia absolvatis; ita tamen quod praedicta diffinitiva sententia, et alia quae statuimus circa eum, in omnibus aliis in suo robore perseverent; et si dictus Guido contra ipsa in aliquo venire praesumpserit in excomunicationem eandem reincidat eo ipso - Datum Lugduni, Kalendis Augusti, Pontificatus nostri anno III.

AI SIGNORI ASSOCIATI.

Col presente numero hanno termine gli studi danteschi e gli altri scritti non relativi alle feste centenarie del Divino Poeta, ai quali finora fu dato luogo togliendo da quella una occasione d'illustrare il divino Poema. Al ragguaglio delle medesime, dato nell'ultimo numero, deve tener dietro il catalogo delle Rappresentanze convenute in Firenze, quello delle pubblicazioni dantesche offerte al Municipio fiorentino, e la distribuzione delle medaglie che il medesimo farà. appena i lavori di registro che si vanno facendo siauo compiuti. L'ultimo numero illustrato ha dovuto tener luogo come meglio si poteva della fotografia del monumento già promessa, dandogli in cambio i cataloghi sopra menzionati, non che il ragguaglio delle feste che si vanno preparando in Ravenna. Per queste radell'epoca ordinaria, ed all' ultirno di essi sarà unito gioni gli ultimi due o più numeri usciranno fuori l'indice del giornale e la coperta illustrata con disegno del prof. Niccola Sanesi.

LA DIREZIONE.

G. CORSINI Direttore-Gerente

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Mantova. Il centenario venne festeggiato dai Mantovani coll'inaugurazione solenne nel teatro Andreani di un busto a Dante. Si lessero poesie, alcune delle quali vennero musicale. Si compilò una strenna, dal provento della quale si costituirà il fondo per un monumento a Dante e Virgilio. Le soscrizioni furono numerose, e il Municipio ne sostenne la spesa.

I Comuni di Mantova, che fan parte del regno d'Italia, mandarono a quelli della stessa provincia sotto il dominio austriaco un saluto, che in numerosissime copie è stato fu diffuso tra quelle popolazioni.

Le associazioni per l'Italia si ricevono in Firenze alla Direzione del Giornale, alla Tipografia Galileiana di M. Cellini e C., e presso i principali Librai.

Incaricati generali per le Associazioni:

Per la Spagna e Portogallo, Sig. Verdaguer, libraio a Barcellona, Rambla del Centro;

Per il resto d'Europa: Sig. Ermanno Loescher, libraio a Torino, Via Carlo Alberto, N.o 5.

Verona. Oltre la inaugurazione del monumento a Dante scolpito dallo Zannoni, a spese e cura della Società di Belle Arti, l'Accademia di agricoltura, commercio ed arti promosse ed attuò la fondazione d'un annuo premio a favore delle industrie fabbrili della città, che si chiamerà Premio di Dante, e vi contribuivano anche il Municipio e la Camera di Commercio. Nel giorno 14 s'inaugurarono le lezioni festive di agricoltura. Si stampo l'Albo Dantesco Veronese, dedicato a Firenze e compilato da Veronesi. In tale occasione, si diede pure un saggio dagli alunni dell'istituto Mazza.

Chioggia. Un monumento fu posto nella sala maggiore del Municipio, e ne venne affidata la esecuzione a distinto artista. Eccone la iscrizione: A Dante Alighieri - Unificatore d'Italia Luce al Mondo Chioggia Ossequiente Nel secentennio natale- MDCCCLXV.

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Adria. Il Municipio commise al Trevisan di Venezia, scultore, un busto di Dante, onde porlo in una sala del Municipio.

Bassano. Questo Municipio commise allo scultore Passerini un medaglione in marmo coll'effige in alto rilievo del sommo poeta; le sale dell'Ateneo furono destinate all'inaugurazione. Uu discorso del vice presidente conte Roberti ed alcuni pezzi di musica dovevano rendere brillante la festa.

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