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liani-Giudici con fatidici accenti, divinando il non lontano tempo in cui il gran concetto del gran padre Alighieri risusciti l'Italia, e ch'ei ne venga salutato il redentore politico, volea che intanto l'Italia si affrettasse ad inalzar un monumento più degno e più concorde a'voti di lui, ristabilendo la cattedra intenta ad interpretar la Divina Commedia.... « Ormai, disfatti i ruderi dello inutile edificio, se ne rialzi un altro che onori il poeta, e risponda al progresso del tempo presente, in cui il bisogno di spingere a scopo più nobile gli studii della letteratura è sentito da tutti; si rivesta della dignità d'interprete un pensator profondo e potente a riprodurre agli occhi degli Italiani quei tanti e sì peregrini tesori di scibile, i quali armonizzando sotto quella sintesi speciosa, che simboleggia intero un grande evo nella vita intellettuale dell'umanità, si prestano da sè alla mente che sappia comporli in un prospetto. In tal guisa lo interprete della Commedia, non umiliato dal carattere di gretto chiosatore, abbatterebbe tutto quanto il medio evo nei moltiplici suoi aspetti, e ridirebbe agl'Italiani, nella storia delle loro vicissitudini, com'essi, furono iniziatori e diffonditori al moderno universo di quello incivilimento, che, varcato lo emisfero, va ognora facendosi via ai più riposti confini della terra. E forse il prospetto della vita passata con tutti i mali che l'accompagnarono, in contrasto con la presente indolenza, varrà a scuotere la vergogna, ritemprare gli animi, ed elevarci una terza volta a primo fra'popoli del mondo. Qui, in questa terra di gloria, dove ogni cosa ti suscita una rimembranza, ogņi monumento ti testifica una grandezza; qui, centro alle lettere e alla coltura della Penisola; qui dove dalle più remote regioni del mondo migliaia di stranieri accorrono, e, meravigliando di tanta magnificenza congiunta a sì peregrina bellezza, si stanno come ammaliati da una sirena, la instituzione d'una scuola d'onde venisse dispensata la scienza de'tempi del

lia. Il prof. Castrogiovanni palermitano, nel maggio del 1862 (4, 11, 28 e suc.) nella grande aula dell'università di Torino divideva le sue lezioni in due parti, letteraria e politica. Nella prima prendeva a mostrar come Dante fu la sua storia contemporanea alzata a poesia; nell'altra dava il ragguaglio degli attuali sistemi politici con quelli di Dante; parlava del sublime in generale ed in ispecie di quello di Dante ec. eg. Giov. Battista Niccolini nella sala filodrammatica Marchisio di Torino a'19, 26 aprile, e 3 maggio 4863, dava pur pubbliche lezioni su Dante e il suo poema e l'unità d'Italia e il polere temporale dei papi. N. 29 del Nouvelliste Vaudois ci parla di un corso libero di lezioni che il cav. Pescantini diede a Losanna. Il professore si era proposto di mostrare la parte presa nella lotta impugnata, durante il secolo, fra l'Italia e la corte romana, e divideva il suo soggetto in tre periodi corrispondenti alle tre epoche principali della nostra storia moderna, quella di Dante, di Machiavelli e di Vittorio Emanuele.

poeta, e ad un'ora illustrata la sua poesia, sarebbe un evento da stabilire per la letteratura ». (Continua)

Prof. FERRAZZI.

LEZIONI intorno alle condizioni morali e politiche d'Italia, in relazione alle dottrine di Dante, dette al pubblico dal Prof. T. ZAULI SAJANI, nel R. Istituto tecnico di Forlì.

II.

I. L'ultima volta che ho avuto l'onore d'intrattenermi con esso voi, egregi alunni, buoni amici e concittadini, siamo entrati nel gran vestibolo del poema, e sollevando il velo che ricuopre la più grande delle allegorie, abbiamo veduto che quest'allegoria è il simbolo della redenzione politica dalla mente del sovrumano vate preconizzata., Chiaro ci rifulse agli occhi il suo gran proposito dell'unità politica d'Italia sotto un solo monarca, e mi parve di vedervi nel profondo dell' anima giubilare udendomi preludere coi sublimi versi del Poeta contro i tre più gravi delitti di lesa unità nazionale - la nequizia degl'imperadori che a Roma non facevan capo l' invidia dei papi che pel temporale governo offendono la santità dello spirituale e la pervicacia delle parti che agli uni o agli altri mal puntello facendo, accrescevano quella confusione, quel disordine di principii morali e politici tanto infesti alla nazionale unità.

Seguitiamo l'altissima poesia che fulmina queste tre gravi colpe, trascegliendola dove che sia nel gran poema, come ci venga più opportuno allo scopo e poichè abbiamo veduto che prima e più grave colpa egli considera la potestà temporale dei papi, contro la quale profetizza una potenza nazionale che di età in età deve conquiderla, apriamo il canto XIX della Simonia, peccato massimo della temporale podestà, sul quale la tromba del poeta squillò sì forte che se del solo rintronamento non giunse ad abbattere queste mura di Gerico, ebbe però nei secoli un altissimo rimbombo, i cui effetti se di troppo vedemmo ritardati, non possiamo consolarcene che coi medesimi versi del poeta, il quale coll'animo assorto nei misteri della Provvidenza esclamava:

E se lecito m'è, o sommo Giove
Che fosti in terra per noi crocefisso,
Sono i giusti occhi tuoi rivolti altrove;

O è preparazion che nell' abisso
Del tuo consiglio fai per alcun bene
In tutto dall' intender nostro scisso?

Ah sì preparazione, lunga preparazione. La storia ve ne accennerà un cumulo di cagioui; vi dirà che mentre in Europa il potere monarchico accentrandosi dava unità alle masse, nome alle nazioni, l'Italia con più svariati, più forti elementi di civiltà, con ardentissimo amore alle libere istituzioni, divisa secondo le sue tradizioni storiche, con metropoli ognuna delle quali aveva autonomia, e con in mezzo il temporale dominio dei papi, ostacolo ad un tempo a concentramento e a libertà, ad unione e a indipendenza; l'Italia doveva passare per una più lunga elaborazione sotto il peso di tutte le preponderanze straniere (spagnuole, germaniche e francesi) prima di assidersi una e potente al gran convito delle Nazioni. Ma il sommo padre insiem della poesia e della storia nazionale, questo viluppo di cagioni con vatidico presentimento compendia in una sola e principalissima, e la registra nel canto dei simoniaci, come nel gran volume dei fati sono registrate le colpe delle nazioni, che il pietoso angelo di Dio nel processo dei secoli cancella colle lagrime.

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II. Simonia! Simonia che cosa è ? Sta scritto negli Atti degli Apostoli che il Mago Simone, volendo farsi cristiano, offerse a S. Pietro grossa somma di danaro per comprare e rivendere i doni dello Spirito Santo. Rifiutò l'apostolo, e sul capo del Mago scagliò la maledizione che aggravossi tremenda sopra coloro, i quali brutti di un somigliante peccato furono detti simoniaci. E i simoniaci son qui - qui nella terza bolgia del cerchio ottavo, severamente puniti i simoniaci, tuona il Poeta, che le cose di Dio che di bontà devono essere spose, essi rapaci per oro e per argento adulterarono.

Ma comprendiamo bene il concetto del poeta sulla malvagia natura della simonia che tanto offende l'evangelica legge. Sono simoniaci i ministri dell'altare allorchè all' altare si fanno sgabello delle cose terrene, e per mezzo dell'altare arricchiscono, deturpando coll'oro la evangelica semplicità del costume; allorchè delle sacre cose facendo detestabile mercimonio, i beni e gl'interessi di questo basso mondo con quelli del cielo scambiano e confondono, ed allorchè principalmente sul maggiore degli altari si

ricuoprono di un manto sotto cui traluce o l'orpello del diplomatico, o la spada del guerriero, e quindi per benedire i fedeli innalzano quella mano che poco prima ha decretato colla guerra lo sterminio o la schiavitù dei popoli, quella mano con che jeri anatemizzavano re ed imperatori sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà, e che oggi abbiamo veduto benedire i nemici d'Italia per punire gl' Italiani postulanti il primo dono di Dio, la libertà!

III. Uno sguardo adesso alla storia dei due incivilimenti antico e moderno. La civiltà antica, soprattutto in Oriente, procedè a traverso la lotta di due soli principii, il potere teocratico ed il monarchico. La società era divisa in caste, e lottarono fra loro per dominarla le due maggiori, quella dei sacerdoti e dei guerrieri. Il principio teocratico prevalse è vero in Egitto, dove il dominio dei sacerdoti si riprodusse nei costumi e nei monumenti; prevalse nell' India dove la lotta fu più lunga, più sanguinosa; ma ad ogni modo i tempi di maggiore grandezza, cioè della cacciata degli stranieri, dell'unità e della gloria nazionale così per l'Egitto come per l'India, i tempi dei Sesostridi e dei Prasii, furono quelli del predominio della casta guerriera e del principio monarchico, che o accomodossi colla casta sacerdotale, o al proprio intendimento la sottopose.

La storia del popolo eletto, la storia degli Ebrei, forse perchè destinata da Dio in ammaestramento dei popoli, di questo ci fornisce un più chiaro e luminoso esempio. Samuele Profeta, salito a Giudice, cerca fare la dignità pontificale ereditaria nella sua famiglia. È un tentativo di teocrazia che origina la

lotta del sacerdozio coi re. La nazione brama un re che Samuele, qual confidente di Jeova deve additare. Addita Saulle, e comincia la monarchia, ma insieme ad essa la contesa col sacerdozio. Davide si accomoda coi sacerdoti e sale al potere le forze della nazione si riuniscono. Egli conquista, canta le lodi del Signore, prepara la grandezza di Salomone, il Sesostri degli Ebrei, e questa (come l'età dei Sesostridi per gli Egizii) è l'età più luminoso del popolo di Dio. Ma dopo Salomone il sacerdozio si rimette in viva lotta coi re; il regno si divide in due, quello d'Isdraele e di Giuda. Dal che la debolezza, lo scisma religiosa, e la guerra ostinatissima che fra i due stati si accese. Quindi l'intervenzione straniera non tarda Egizii da un lato, Assirii e Caldei dall'altro, sino a che giungiamo alla schiavitù di Babilonia, e

alla distruzione di Gerusalemme. I miseri suoi cittadini rilegati in Babilonia siedono piangendo sulle rive dell' Eufrate, e appendono ai salici le cetre su cui più non possono intuonare il libero cantico di Sionne.

IV. Ma era suonata l'ora,

Termine fisso d'eterno consiglio.

La bontà infinita per redimere dalle colpe il genere umano, incarna nella Vergine la parola d'amore, e là in quella Gerusalemme, fumante ancora delle rovine del gran tempio di Salomone, là il Figliuolo di Dio, umanato, insegna la suprema legge che deve rinnovellare il mondo, e porre le fondamenta della nuova civiltà, che indi incominciata nelle vie del Signore sempre progredisce. Ed uno de primi e più grandi precetti evangelici con che il Verbo eterno intese di richiamare a pace e felicità il mondo, fu questo: « Apostoli e sacerdoti della vera fede, a Dio ciò che è di Dio a Cesare ciò che è di Cesare, perocchè il mio regno non è di questo mondo ». Così dalla divina legge fu vietata la teocrazia; e la suprema potestà religiosa, da Cristo delegata a Pietro ed a suoi successori, ad altro non doveva intendere che a coadiuvare la potestà civile, colla virtù della persuasiva parola indirizzando le anime alla felicità celeste, mentre la civile coi mezzi coercitivi dalla umana legge prescritti, guida gli uomini a quella minore infelicità che sulla terra è dato di conseguire.

V. E quando la religione di Cristo uscendo dalle catacombe si assise trionfante a lato del trono di Costantino, prima cura dei primi santi pontefici fu quella di ben sceverare l'autorità spirituale dalla temporale per tenersi quella intera, e intera lasciar questa agl' imperatori, i quali appena favorito l' innalzamento del sacro potere già il minacciavano, già essi medesimi papeggiavano, già facevano guerra a quelle sacre immagini che un saggio pontefice doveva salvare in Italia perchè poi tanta ala vi distendessero le arti belle italiane. La divisione fra lo spirituale e il temporale fu un fatto salutarissimo, ma che per mala ventura si rimase incompleto e non guarentito, e fu pur troppo su questa linea di partizione (la quale pur dalla diversa natura delle cose era per sè medesima così bene definita) che si avvicendarono le dispute, le usurpazioni, le guerre, le stragi, di cui Dante (profondo istorico che guarda sempre alle prime cagioni) vide la più remota sorgente nella piccola dote (la basilica lateranense prima proprietà ecclesiastica) che Costantino fece ai pontefici, e che perciò chiama madre di gravissimo male.

VI. Ad ogni modo noi vediamo che il governo della Chiesa a lato del trono fu ne' suoi primordj altamente benefico. Poggiò sulla base delle libere coscienze: colla virtù della fraterna parola alla mente al cuore dei fedeli richiamò i precetti evangelici quando se ne allontanarono nei tempi più scabrosi eser

citò una salutare influenza sulla società cercando di metter pace fra i più feroci cuori degli uomini, lottando generosamente contro i grandi vizi e contro la schiavitù mantenne viva la fiamma delle scienze teologiche, e fecondò il movimento delle menti in Europa superiormente a quanto il mondo antico conobbe ; infine diede un grande impulso alla libertà civile spesso ponendosi dalla parte degli oppressi contro la tirannia. Ma tutto questo grande apparecchio di bene scomparve allorquando i papi, dimentichi che il regno di Cristo non è di questo mondo, accettarono il gran dono, e sovrapposero alla tiara una corona di re; nè paghi a tanto vollero star sopra a quegl' imperatori che consacravano, rinnovando così tutte le scene orientali della lotta fra la casta dei sacerdoti e quella dei guerrieri, fra il principio teocratico ed il monarchico. Gran ventura che la civiltà moderna constasse di elementi ben diversi da quelli della antica, e che la lunga ma salutare contesa di questi elementi desse campo ai re d'Europa di strappare ogni giorno un brano di questa teocratica corona, lasciandola però (col protesto di dare indipendenza alla Chiesa) troppo a lungo pesare sulla lungamente calpestata Italia, che ora è sola contro uno.... e più potenti a rimetter la tiara nelle vie del Signore e in quelle della nazione.

VII. Ma intanto da quella funesta donazione a noi, che più di dieci secoli comprende, quale e quanta storia di dolore! L'accettazione del gran dono, lo scambio cioè di una benedizione per una corona di questo mondo, fu la prima, la più grande delle simonie! Da quell' epoca comincia il peggior tempo della Chiesa; tempo di scisma, di scandali, di lussurie, di pompe tutte mondane, in onta dell'evangelio comprate coll' oro, e quel che è peggio col sangue dei popoli. La corruzione dall' alto si comunica a tutti i rami della ecclesiastica gerarchia. L'esempio dei papi troppo è seguito; il vescovo è vescovo e barone; il suo feudo si chiama beneficio, e nella chiesa mette profonda radice; quindi nel più gran maleficio si trasforma la proprietà ecclesiastica. Divenuto feudatario il vescovo porta sotto il piviale la corazza, pone sull' elmo la mitra, siede a mensa colla concubina, e lordo di ogni colpa ministra dall'altare i sacramenti. Papi e imperatori lottano fra loro per dargli a un tempo spada e pastorale, ed ecco la gran guerra delle investiture. Non è più la virtù della fraterna parola che richiama al dovere i traviati. Dai mezzi persuasivi passa la Chiesa ai coercitivi, e i peggiori e i più crudeli usurpa alla potestà civile; dalla minaccia delle pene eterne passa ad accendere i roghi su questa terra, e Cattari e Paterini e Albigesi e seguaci di Arnaldo da Brescia son arsi vivi in quelle fiamme che ben altre ne pre

parano! Dalle dispute per tener viva la fede passa a conciliaboli e concilii con papi ed antipapi alla mercè dei potentati della terra; dalla innocente e spontanea raccolta delle decime alle donazioni che, per la salute dell'anima sua, esige al letto del ricco moribondo, e a quella sequela di estorsioni e di simoniache frodi onde pei beni della terra si vende il Cielo, e che tanto e si fortemente le rimproverarono i santi e Dante.

E tuttavia, sei secoli addietro, non vedeva Dante che la metà appena dei funestissimi mali da quella prima e gran simonia derivati, ma ben presentiva il sommo vate che per lunga età dovevan farsi maggiori, anzi toccare il culmine, chi vorrebbe negarlo? sì, toccare il culmine, quando i papi di predominanti l'impero, dell' impero si fanno i primi schiavi, e sul trono di Pietro lor politica diviene limosinare colle benedizioni la conservazione del poter temporale che loro sfugge, sussistere solo per la gelosia d'invidiosi e prepotenti rivali; quando da quella cattedra secondano i crudeli atti di fede dell'orrenda Inquisizione di Spagna, quando non maledicono agli sterminatori di quasi tutta la stirpe americana, che in nome del Dio di pace e d'amore, viene tormentata, uccisa col Cristo convertito in archibugio, cancellata dal novero dell' umane creature; quando in fine per procacciare un poco d'oro alla fabbrica di S. Pietro, destano pel mondo già troppo di loro scandalizzato, quel terribile incendio onde sorgono Calvino, Zuinglio e Lutero, onde insanguinata è la Francia, devastata e spopolata la Germania, e l'Europa si divide per sempre in tre maniere di credenti tutti figli di uno stesso Redentore, tutti figli di un solo riscatto. Ecco gli effetti della simonia; ed ecco ora la pena fulminata da Dante ad una colpa che tanti e sì gravi mali alla cristianità produsse.

VIII. Laggiù negli abissi, entro la sterminata fossa di uno dei circoli che rappresentano l'eternità, vedi uno strano spettacolo, una selva di ossa e di polpe che si agitano in perpetuo sotto rosseggianti fiammelle. Onde ciò? Per ambedue le coste e per lo fondo della gran fossa o caverna, la pietra livida è piena di fori d'una misura tutti, e fuor dell'orlo di ogni foro escono fino alle giunture le gambe dei peccatori, le cui piante (parte più sensitiva al dolore) sono a tutti accese di fiamme che su vi percorrono incessantemente ed incessantemente fanno guizzare le doloranti giunture. - Avviene questo perchè i simoniaci sprofondano capovolti negli abissi, e siccome le cose del cielo dimenticarono per quelle della terra, il capo e la persona hanno in terra confitto, e colle piante infuocate ricalcitrano a Dio. Ma credete che i simoniaci di cui vediamo le agitate giunture, ben

chè in numero quasi infinito, siano i soli puniti? No, sotto ognuno di essi altri ve ne sono e poi altri ancora in lunga catena, perchè per cedere il luogo ai nuovi peccatori su loro piovuti, si sono sprofondati nella fessura della pietra piatti e così via via gli uni gravitano sugli altri, e tutti gravitano sopra Lucifero (sterminata immagine!) che del centro degli abissi l'enorme peso ne sostiene. Quelli che noi vediamo sono dunque i simoniaci dell' ora in cui suppone il Poeta avere avuta la gran visione. Premeva a lui di collocarvi i maggiori simoniaci del suo tempo, i papi, la cui spirituale autorità rispetta nell'atto medesimo che acerbamente la temporale redarguisce, e intanto nella caverna destinata ai papi ei non poteva vederne che uno, ma troverà ben modo di farne da quest'uno altri due aspettare, dei quali ben conosceva le colpe. Così saranno in questa bolgia puniti i tre più grandi papi simoniaci del suo tempo Nicolò III che aspetta Bonifacio VIII e Clemente V. Niccolò III degli Orsini che benedisse. ai vespri Siciliani non per amore della libertà dei popoli, ma per ingordigia dell' oro di Giovanni da Procida: - Bonifacio VIII, il maggiore antagonista del Poeta, presso il quale era in legazione quando Carlo di Valese, dal papa inviato come pacificatore a Firenze, vi produsse in cambio della pace la strage cittadina, e la cacciata dei Bianchi: e in fine Clemente V, un guascone, che per l'oro di Filippo il Bello re di Francia trasportò la sede apostolica da Roma in Avignone. Guardate intanto alla rettitudine di Dante che, giusto interprete della divina punizione, nell'atto che venera le somme chiavi, e compiangerà poi Bonifacio medesimo quando lo vedrà per opera del re di Francia assassinato, fulmina terribile le più grandi simonie del tempo, la prima delle quali dà la Sicilia in mano a Spagua, la seconda pone Firenze alla mercè degli stranieri, la terza sottomette al re di Francia la sede apostolica; la quale nel concetto religioso e politico di Dante doveva in Roma al lato dell'imperatore come gloria italiana, ma nel solo spirituale ufficio, rimanere. E certo nell' animo del Poeta non poteva entrare quel pensiero che oggi taluno ha accolto, e che farebbe pur piacere.... a molti di noi, e cioè che la Corte di Roma se ne tornasse in Avignone, presso quel buon clero che tanto la desidera, e quello imperatore che tanto nelle ultime sue ore il poter temporale sostiene.

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Ma chi sa.... chi sa che anche questo non sia uno di quei misteri della Provvidenza per alcun bene in tutto dall' intender nostro scisso? Guai adunque, guai a chi volesse precipitare gli eventi. - Vi è la nazione, vi è il parlamento, vi è il re, e sopra tutti la Provvidenza!

IX. Ma ritornando a Dante, che colla fida scorta della propria inspirazione, Virgilio, si ammira sospeso a quell' interminabile spingare di giunture e di piedi, alle piante accese di rosse fiamme, ecco che da una fiamma più dell' altre rosseggiante è avvertito quello essere il tristo buco de simoniaci maggiori; eccolo colà trasportato da Virgilio, e chino su quel riverso peccatore, come il frate che confessa un assassino condannato alla propagginazione, cioè ad essere vivo sotterrato. Nicolò III, quegli che coi piedi sì forte pingea, crede che il sopraggiunto sia Bonifacio VIII, e con rauca voce che pare venir di sotterra, com'è uso di dannati verso dannati, gli rimprovera le sue colpe. Lo disinganna il Poeta, e lo spirito tutti per dolore storcendo i piedi, narra il proprio peccato, e si consola dicendo che tra breve avrebbe preso il suo posto Bonifacio VIII, ma che il terrebbe questi minor tempo di lui, perchè dopo Bonifacio verrebbe di verso ponente (dalla Guascogna) un pastor senza legge di più laida simonia, Clemente V, venduto al re di Francia (come Giasone pontefice degli Ebrei al re Antioco), che entrando nel tristo forame calcherebbe per la fessura della pietra lui e Bonifacio fino a Lucifero.

E qui la celebre invettiva del Poeta contro i simoniaci, che stimerei profanazione solo il tentar di ritrarre in bassa prosa, e che sentirete ora nei più sublimi versi di questo Canto. Figlia com'è di verace e santo zelo, essa si pareggia alle parole dei santi di quell'epoca, di qualche buon vescovo, di un pontefice medesimo che fulminò la simonia. - Oh vanno pure errati coloro che per questi squarci della più elevata poesia vorrebbero far di Dante un acattolico; ma più vanno errati quei ministri dell'altare che accagionano d'irreligione coloro che con Dante alla mano le loro simonie discuoprono, perocchè non sapendo come meglio schermirsi per trovar fede presso le persone pregiudicate ed ignoranti gridano dall'altare, e (che Dio lor perdoni) sino dal più grande degli altari, che sono assaliti dall'eresia del popolo e del re. - Assumiamo sulla sicura coscienza, dividiamo volentieri col popolo e col re le eresie che si contengono in questo Canto.

Vita di Dante

INDAGINI STORICHE

Di Padova, Venezia e di due patrizi veneziani a proposito di DANTE ALLIGHIeri.

(Dal GALLO, giornale di Venezia ).

Di questo genio portentoso in cui Dio stampò così vasta orma del suo spirito creatore, fu detto assai acconciamente, che molte città d'Italia non

potendo disputare a Firenze (come rispetto ad Omero fecero tra loro quelle di Grecia) il vanto d'avergli data la culla, ascrivono giustamente ad onore l'avergli dato per alcun tempo l'ospitalità, e noverano studiosamente i suoi passi ond'esplorare, inferire e quasi direi indovinare dove, quando e per quanto tempo, quel grande abbia fatto le soste degli amari passi del suo esilio.

Dante visitò Padova. Ce lo apprende il Boccaccio (1), e ciò fu come abbiam da Cesare Balbo (2) tra la sua posa in Bologna, e l'altra appo Moroello Malaspina in Lunigiana. Dunque nel 1306 data coincidente a quella del chirografo, che si conserva in Padova nell'Archivio dell' illustre casato dei Papafava, e che registra fra i testimoni Dantino q. Aligeri de Florentia et nunc stat Paduae in contracta Sancti Laurenti. Padova giustamente lieta di un tanto onore lo addita con una lapide posta sulla casa in cui Dante ebbe dimora: FAZIONI E VENDETTA

DANTE

QUI TRASSERO DAI CARRARA DA GIOTTO EBBE MEN

1306 DURO ESILIO (3). Veramente a proposito di questo Dantino, Teodoro Hell nel suo Viaggio in Italia sulle orme di Dante, e il cav. Filippo Scolari, Nestore dei Dantologi, nel postillarlo (4) pendono al partito, che quel testimonio fosse non Dante, bensì un figlio suo. Ma siccome Dante non ebbe figli di quel nome (5) e siccome egli aveva impalmato solo nel 1293 Gemma Donati (6), il perchè il più anziano dei figli poteva essere nel 1306 appena adolescente, e ripugna l'ammettere che un adolescente servisse di testimonio legittimo in grave negozio, oltre di che il nome del padre del testimonio era Allighiero, nome appunto del padre di Dante che ne fu orbato in puerizia (7), lo che spiega l'abbreviativo q corrispondente a quondam o del fu, devesi adunque arguire non altri che Dante essere stato quel Dantino; ma che così lo si mentovasse per quel vezzo, che ovunque in Italia modifica i nomi specialmente in argomento di benevolenza. Quella infatti non era la soscrizione autografa di Dante, ma era la menzione fatta dallo scrittore

(1) La vita di Dante Allighieri scritta da Giovanni Boccacci. Testo emendato per cura di G. Gamba. Venezia, tip. Alvisop. 1825, pag. 36.

(2) Vita di Dante scritta da Cesare Balbo. Firenze, Le Monnier, 4853. Lib. II, cap. II, pag. 246.

(3) Gazzetta di Venezia 5 Novembre 1859.

(4) Treviso, 1844. Tip. Andreola, pag. 143. Nota 79. Vedi ivi l'Avviso al lettore, nonchè la Nota 54 a pag. 76, onde inferirne che Teodoro Hell è pseudonimo di S. A. R. Principe Giovanni, ora S. M. il Re di Sassonia.

(5) I sette figliuoli di Dante furono : Pietro, Jacopo, Gabriello, Allighiero, Eliseo, Bernardo e Beatrice. Balbo, Vita sud. Lib. I, cap. VIII, pag. 99.

(6) Ivi, pag. stessa.

(7) Vita di Dante scritta da Leonardo Aretino. Veggasene il principio.

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