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Lungo il cammino stramazzar sovente.

Ride il fanciullo, e gli occhi

Tosto gonfia commosso,

Che il cubitoo i ginocchi

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Noja gli scherzi e le novelle spandi.
O, se tu sai, più astuto,

I cupi sentier trova
Colà dove nel muto

Aere il destin de'popoli si cova;
E fingendo nova esca

Al pubblico guadagno,

L'onda sommovi, e pesca
Insidioso nel turbato stagno.

Ma chi giammai potria

Me scorge,o il mento, dal cader percosso. Guarir tua mente illusa,

Altri accorre; e, oh infelice,

E di men crudo fato

Legno vate! mi dice;

E, seguendo il parlar, cinge il mio lato.
Con la pietosa mano,

E di terra mi toglie;
E il cappel lordo, e il vano
Baston, dispersi ne la via, raccoglie.
Te, ricca di comune
Censo, la patria loda;
Te sublime, te immune
Cigno da tempo che il tuo nome roda,
Chiama gridando intorno;

E te molesta incita

Di poner fine al Giorno,

Per cui cercato a lo stranier ti addita:

Ed ecco, il debil fianco

Per anni e per natura,
Vai nel suolo pur anco

Fra il danno strascinando e la paura:
Ne il si lodato verso
Vile cocchio ti appresta,
Che te salvi a traverso

De'trivii dal furor de la tempesta.
Sdegnosa anima, prendi,
Prendi novo consiglio;
Se il già canuto intendi
Capo sottrarre a più fatal periglio.
Congiunti tu non hai,
Non amiche, non ville,
Che te far possan mai

Ne l'urna del favor preporre e mille.
Dunque per l'erte scale
Arrampica qual puoi,
E fa gli atrii e le sale

O trar per altra via

Te ostinato amator de la tua musa?
Lasciala: o, pari a vile
Mima, il pudore insulti,
Dilettando scurrile

I bassi genii dietro al fasto occulti,
Mia bile alfin, costretta
Già troppo, dal profondo
Petto rompendo, getta
Impetuosa gli argini; e rispondo:

Chi se'tu, che sostenti

A me questo vetusto

Pondo, e l'animo tenti

Prostrarmi a terra? Umano sei; non giu

Buon cittadino, al segno

Dove natura e i primi

Casi ordinar, lo ingegno

Guida così, che lui la patria estimi.
Quando poi d'età, carco

Il bisogno lo stringe,
Chiede opportuno e parco,
Con fronte liberal, che l'alma pinge.
E se i duri mortali

A lui voltano il tergo,

Ei si fa, contro a i mali,

Ne la costanza sua scudo ed usbergo.
Ne si abbassa per duolo,

Nè s'alza per orgoglio.

Così dicendo, solo

[sto.

Lascio il mio appoggio, e bieco indi mi

Così, grato a isoccorsi,

Ho il consiglio a dispetto:

E privo di rimorsi,

[ toglio.

Con dubitante piè, torno al mio tetto.

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CLVI. Il pericolo.

Invano, invan la chioma Deforme di canizie, E l'anima già doma Da i casi, e fatto rigido Il senno da l'età,

Si crederà che scudo
Sian contro ad occhi fulgidi,
A mobil seno, a nudo
Braccio, e a l'altre terribili
Arme de la beltà.

Gode assalir nel porto
La contumace Venere;
E, rotto il fune e il torto
Ferro, rapir nel pelago
Invecchiato nocchier;
E per novo periglio
Di tempeste, a l'arbitrio
Darlo del cieco figlio:
Esultando, con perfido
Riso, del suo poter.

Ecco, me di repente,
Me stesso, per l'undecimo
Lustro di già scendente,
Sentii vicino a porgere
Il piè servo ad Amor:
Benchè gran tempo al saldo
Animo invan tentassero
Novello eccitar caldo
Le lusinghiere giovani
Di mia patria splendor,

Tu da i lidi sonanti
Mandasti, o torbid'Adria,
Chi sola de gli amanti
Potea tornarmi a i gemiti
E al duro sospirar:

Donna d'incliti pregi
Là fra i togati principi,
Che di consigli egregi
Fanno l'alta Venezia
Star libera sul mar.
Parve, a mirar, nel volto
E ne le membra Pallade,
Quando, l'elmo a sè tolto,
Fin sopra il fianco scorrere
Si lascia il lungo crin:

Se non che a lei d'intorno
Le volubili Grazie
Dannosamente adorno
Rendeano a i guardi cupidi
L'almo aspetto divin.

Qual se, parlando, eguale

A gigli e rose il cubito
Molle posava! quale
Se improvviso la candida
Mano porgea nel dir!
E a le nevi del petto
Chinandosi, da i morbidi
Veli non ben costretto,
Fiero de l'alme incendio
Permetteva fuggir!

Intanto il vago labro,
E di rara facondia
E d'altre insidie fabro,
Gia modulando i lepidi
Detti nel patrio suon.
Che più? da la vivace
Mente lampi scoppiavano
Di poetica face,

Che tali mai non arsero
L'amica di Faon,

Nè quando al coro intento
De le fanciulle lesbie
L'errante, violento,
Per le midolle fervide
Amoroso velen,

Ne quando lo interrotto
Dal fuggitivo giovane
Piacer cantava, sotto
A la percossa cetera
Palpitandole il sen.

Ahimè, quale infelice
Giogo era pronto a scendere
Su la incauta cervice,
S'io nel dolce pericolo
Tornava il quarto di!

Ma con veloci rote
Me, quantunque mal docile,
Ratto per le remote
Campagne il mio buon Genio
Opportuno rapi.

Tal che in tristi catene
A i garzoni ed al popolo
Di giovanili pene
lo canuto spettacolo
Mostrato non sarò.

Bensì, nudrendo il mio
Pensier di care immagini,
Con soave desio

Intorno a l'onde adriache
Frequente volerò,

Parini.

CLVII. Da piccoli e remoti principii gli animi divengono facilmente inumani.

Lascia, mia Silvia ingenua,
Lascia cotanto orrore
A l'altre belle stupide
E di mente e di core.
Ahi, da lontana origine,
Che occultamente nuoce,
Anche la molle giovine
Può divenir feroce.

Sai de le donne esimie
Onde si chiara ottenne
Gloria l'antico Tevere,
Silvia, sai tu che avvenne?
Poi che la spola, e il frigio
Ago, e gli studii cari
Mal si recaro a tedio,
E i pudibondi lari,

E con baldanza improvida,
Contro a gli esempii primi,
Ad ammirar convennero
1 saltatori e i mimi;
Pria tolleraron facili

I nomi di Tereo,'
E de la maga colchica,
E del nefario Atreo;
Ambito poi spettacolo
A i loro immoti cigli
Fur ne le orrende favole
I trucidati figli.

Onde perversa l'indole,
E fatto il cor più fiero,
Del finto duol già sazio,
Corse sfrenato al vero.

E là dove di Libia
Le belve, in guerra oscena,
Empiean d'urli e di fremito
E di sangue l'arena,

Pote a l'alte patrizie,
Come a la plebe oscura,
Giocoso dar solletico
La soffrente natura.

Che più? baccanti, e cupide
Di più nefando aspetto,
Sol da l'uman pericolo
Acuto ebber diletto:

E da i gradi e da i circoli,
Co'moli e con le voci
Di già maschili, app'ausero
A i duellanti atroci;

Creando a se delizia

E de le membra sparte,
E de gli estremi analiti,
E del morir con arte.
Copri, mia Silvia ingenua,
Copri le luci, ed odi
Come tutti passarono
Licenziose i modi.

Il gladiator, terribile
Nel guardo e nel sembiante,
Spesso fra i chiusi talami
Fu ricercato amante.

Così, poi che da gli animi Ogni pudor disciolse, Vigor da la libidine La crudeltà raccolse: Indi a i veleni taciti Si preparò la mano, Indi le madri ardirono Di concepire invano. Tal da lene principio In fatali rovine Cadde l'onor, la gloria De le donne latine.

Parini, ode a Silvie

CLVIII. Lodi del sonno.

Già molte cose e molte sopra 'l sonno Furono dette in prosa e in poesia, Che ne gli autori leggere si ponno, E se ne dicon molte tuttavia; Che sia cosa cattiva alcuni vonno, Cosa buona altri vogliono che sia; Altri ne dicon bene ed altri male, A misura del loro naturale.

Del sonno d'ordinario suol dir bene Chi a dormir molto sentesi inclinató; E da color che dormon poco, viene Il souno per lo più vituperato: Siccome appunto de le donne avviene, Son lodate da chi n'è innamorato; E color che non san che cosa farne, Le sprezzano, e son soliti a sparlarne.

Altri il sonno chiamò sommo diletto Ristoratore de la stanca vita: De'graziosi Dei dono perfetto, De'mali dolce obblio, requie gradita, De le cure sollievo: ed altri ha detto Ch'egli ha dal mondo ogni virtù sbandita, Ch'e fratel de la morte: e v'ha chi dice Ch'è figliuolo de l'Erebo infelice.

Altri ha detto che l'uom sano mantiene, Eche agl'infermi è un gran medicamento: Altri dice che 'l sangue ne le vene

lugrossa, e il rende al moto tardo e lent.
Io non so tante cose, ma so bene
Che quando dormo, libero mi sento
D'ogni noja e travaglio, e non vorrei
Che nessuno rompesse i sonni miei.
Il sonno ad ogni cura, ad ogni male,
Se non dà pace, almen da qualche tregua:
Quando su gli occhi nostri spiega l'ale,
Da noi parte ogni duolo e si dilegua:
E, come lasciò scritto un ser cotale,
Le altrui disuguaglianze il sonno adegua:
E quando io dormo, sono somigliante
A ungran signore, a un principe regnante.
Anzi di lor più fortunato io sono,
Che non mi turba il sonno un timor vano
Ch'altri m'usurpi la mogliere, o 'l trono,
O che guerra mi mova il gran Soldano.
I sonni miei non rompe il rauco suono
Di fiera tromba, o altro rumore strano:
Mi rende sol le notti men tranquille
Il suon talor de le devote squille.

Che se talvolta qualche immagin tetra
L'uomo dal sonno mal contento desta,
Quante altre volte in sonno ei fende l'etra,
Quante volte si trova a una gran festa?
Or trova argento ed oro, o ricca pietra;
Ora si sente una corona in testa:
E molte altre venture spesso s'hanno,
Quando si dorme, con soave inganno.

Io però non mi son mai maritato,
Per dormire i miei sonni in santa pace:
E'l medico non fo, nè l'avvocato,
Ne 'l ladro, per dormir finchè mi piace:
E quando per esempio ho ben cenato,
Mirabilmente il sonno si conface
Al corpo mio, che subito si sdraja
Sul letto; e poi lascia bajar chi baja.
E mi sovvien d'avervi recitata
Sopra 'l sonno una certa filastrocca,
Che quando un poco più fosse durata,
Sebbene il dirlo forse a me non tocca,
S'addormentava tutta la brigata:
E mentre io non sapea chiuder la bocca,
Gli altri m'accorsi che chiudevan gli occhi,
E col capo accennavano a i ginocchi.

Forse qualche selvatico dottore,
Chi dorme, mi dirà, non piglia pesce:
Questo a me, che non faccio 'l pescatore,
Non importa niente e non incresce;
Massime che già disse un altro autore:
Fortuna, e dormi: il che a molti or riesce:
E poi chi dorme, il prossimo non secca;
E finalmente chi dorme non pecca.

E, se fossimo sempre addormentati,

Non si commetterian da le persone
Tante ribalderie, tanti peccati
Ma non si farian poi tante opre buone,
Ne ci sarebber tanti letterati,
Tanti bei libri d'erudizione,
Tanti altri beni non sarieno al mondo:
Sento che dite; ed io cosi rispondo,

Rispondo che oggidì, signori miei,
Sono assai rari gli uomini dabbene,
Gli uomini dotti; e sono i tristi e i rei
E gl'ignoranti più che non conviene:
E de le donne, io quasi giurerei
Che si faccia da lor più mal che bene:
Onde, se si dormisse tutto l'anno,
Sarebbe assai più l'utile che 'l danno.

N'eccettuo quelle poche, ovver que' po

chi
Che hanno la mente ad un bel fine intesa,
Che non passano l'ore in tresche e in giochi,
Ma sopra i libri, o in qualche illustre im-

[presa:
Di questi non sen trova in tutti i lochi,
Chè troppo rara la virtù s'è resa:
Questi han da dormir poco al parer mio;
Se fossi tal, dormirei poco anch'io.

Passeroni, Cicerone,

CI.IX. Sordità di varie sorti di
persone.

Pochi sordi or vi son, ma tanti e tante
Fanno a un bisogno orecchi da mercante.

Quanti e quante, poichè hanno ricevuto
Con promesse e con più di un giuramento
Un favor segnalato, e hanno ottenuto
Con tuo grave disagio il loro intento;
Se hai bisogno da lor di qualche ajuto,
Tu puoi chiamarli cento volte e cento,
Chè la tua voce sparsa va per l'etra,
Ne de gli orecchi il timpano penétra.

O, se vi giunge a stento qualche volta,
Entra per una, esce per l'altra banda:
Più d'un di loro estatico t'ascolta,
Che non giunge a capir la tua domanda,
E, se pur la capisce dopo molta
Fatica, in pace per lo più ti man la:
Se chiedi ajuto, egli ti dà consiglio
Con ruvide parole e altero ciglio.

Quanti che ne la lor bassa fortuna
l'udivan volentieri e facilmente;
Giunti in alto, fan poi come la luna,
Che le parole altrui non cura o sente:
La tua vore a costor sembra importuna;
E mentre con lui parli umilemente,
Non ti degnan tampoco d'una sola

Benigna occhiata, oppur d'una parola.
Ti chiamano indiscreto e seccatore,
Se i tempi già preteriti ricordi:
Se tu chiedi da lor grazia o favore,
Non ti conoscon più questi balordi;
Grida pure, se sai, fa pur romore,
Che, se nol son, costoro fan da sordi:
E non v'è, lo Speroni solea dire,
Sordo peggior di chi non vuol sentire.
Co gli uomini superbi e co gl'ingrati,
Co' cortigiani, i quali del padrone
Godon la grazia, e co gl'indebitati,
Eco'somari, e simili persone,
E finalmente co gl'innamorati,
Se non ti fai sentir con un bastone,
Tu puoi gracchiare e stridere a tua posta,
Che fanno i sordi e non ti dan risposta.
Passeroni, Cicerone.

CLX. Amore verso i cagnolini.
Quasi ogni donna oggi vuole il suo cane,
E lo vuol di Parigi, o di Bologna,
O di Malta, o d'altre isole lontane;
E molte n'han tre, o quattro, se bisogna;
E taluna di lor che non ha pane,
Non ha pan da mangiar, non si vergogna
Di far patir la fame a'figliuolini,
Per mantener il cane a biscottini

Quelle poi che non hanno carestia De beni di fortuna, un poverello Potrebber mantenere, e sal mi sia, Comodamente, ed anche due, con quello Che spendono ne'cani: e, in fede mia, È cosa da far perdere il cervello Il veder tanti ignudi e mal pasciuti, E tanti cani così ben tenuti.

Fareste meglio a spendere pe'vostri Figli,o in qualch'altra cosa più importante Quel che spendete, o donne, a'giorni nostri In bestie,che in fin d'anno è un bel contante: Fareste meglio, senza ch'io vel mostri, A risparmiar, se il ciel vi faccia sante, Quel che gettate via senza giudizio, Ch'un giorno forse vi farà servizio. Se talora voi fate orazione, Avete in braccio il vostro cagnolino, Il qual vi rompe la divozione, E la rompe sovente anche al vicino: Se ascoltate una messa, od un sermone, Badar solete al cane ogni tantino, E disattente scorgovi a le note, Arrossisco per voi, del sacerdote

Non v'osate nè meno inginocchiare,

Quando l'avemmaria voi recitate:
E talvolta, per non incomodare
Il can che russa, voi non vi segnate:
E fate cose tali, che mi pare

Che col Petrarca dir voi pur possiate:
Questo m' ha fatto men amare Iddio,
Ch' io non doveva, e me porre in obblio.
Piovonvï amare lagrime dal volto,
Donne, e vi veggio co le guance smorte,
Le vostre smanie e le querele ascolto,
E del eiel vi dolete e de la morte:
Ah forse un figlio,o il genitor v'ha tolto?
O forse v'ha rapito il buon consorte?
Io mi vergogno a dire la cagione
Di questa vostra desolazione;

Io mi vergogno a dir perchè piangete,
E siete quasi dal dolore insane;
Ma 'l dirò pur: voi, donne, vi dolete
Per la morte d'un vostro amato cane
E pure il lume di ragione avete,
Almen suppongo, e siete pur cristiane,
E siete donne di qualche saviezza:
Chi crederebbe in voi tal debolezza?

Voi che la morte di più d' un amico, E forse forse di più d' un parente Avete intesa, ed io so quel che dico, O donne, ad occhi asciutti, o veramente Avete pianto un po' per uso antico, Ma breve fu quel pianto ed apparente, Or per un cane fate tante smanie, Tanti lamenti ed altre cose stranie.

Voi senza il cane non sapete stare
Un giorno, e i mesi con allegra faccia
State senza il marito; e non mi pare
Che questa cosa troppo onor vi faccia.
Ma tra marito e moglic io non vo'entrare,
Chè non è cosa che mi si confaccia;
Ne voglio far l' ufficio del demonio,
Mettendo mal nel santo matrimonio.

Voi de l'amato vostro cagnuolino
V'accomodate ad ogni impertinenza,
E discacciate un povero bambino
Senza cagion da la vostra presenza:
Volete il cane sempre aver vicino,
Co' figli non ci avete pazienza:
E lasciate di lor la cura altrui,
Fidandovi, Dio sa, donne, di cui.

E mi sovviene appunto d'un bel detto
D' Augusto ad una dama che tenea
Adagiato sul grembo un cagnoletto,
Al qual vezzi e carezze ella facca:
Le chiese Augusto, se alcun pargoletto
O alcuna figlia in casa non avea;
E, ad una tal domanda inaspettata,

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