I De'cervi van pel pian fuggendo in frotta: Qual il centaur per la nevosa selva Poliziano, ivi. VI. Favole effigiate da Vulcano sulle porte della reggia di Venere. In un formoso e bianco tauro Si vede Giove per amor converso, Portarne il dolce suo ricco tesauro; E lei volger il viso al lito perso, In atto paventosa; e i be' crin d'auro Scherzan nel petto, per lo vento avverso; La vesta ondeggia, e indietro fa ritorno: L'una man tien al dorso, e l'altra al corno. Le ignude piante a sè ristrette accoglie, Quasi temendo il mar, che non le bagne". Tale, atteggiata di paure e doglie, Par chiami invan le sue dolci compagne: Le quali, assise tra fioretti e foglie, Dolenti Europa ciascheduna piagne: Europa, sona il lito, Europa, riedi. Il toro nota, e talor bacia i piedi. Fassi Nettuno un lanoso montone, Fassi un torvo giovenco, per amore; Fassi un cavallo il padre di Chirone: Nari. 2 Raro, Eccellente. * Svelle. 4 Bagni. Poi segue Dafne; e'n sembianza si lagna, Come dicesse: o ninfa, non ten gire; Ferma il piè, ninfa, sopra la campagna; Ch'io non ti seguo per farti morire: Così cerva leon, così lupo agna, Ciascuno il suo nemico suol fuggire: Ma perchè fuggi, o donna del mio core, Cui 2 di seguirti è sol cagione amore? Da l'altra parte la bella Arianna Con le sorde acque di Teseo si dole, E de l'aura, e del sonno, che la inganna; Di paura tremando come sole 3 Per picciol ventolin palustre canna. Par che in atto abbia impresse tai parole: Ogni fiera di te meno è crudele; Ognun te più mi saria fedele. [no Vien, sopra un carro d'edera e di pampi→ Coperto, Bacco; il qual duo tigri guidano: E con lui par che l'alta rena stampino Satiri e Bacche; e con voci alte gridano. Quel si vede ondeggiar, quei par ch'inciam [pino, Quel con un cembal bee, quei par che ridano: Qual fa d'un corno, e qual de leman ciotola; Qual ha preso una ninfa, e qual si rotola. Sopra l'asin Silen, di ber sempre avido, Con vene grosse, nere, e di mosto umide, Marcido sembra, sonnacchioso e gravido, Le luci ha di vin rosso, enfiate e fumide. L'ardite ninfe l'asinel suo pavido Pungon col tirso; ed ei con le man tumide A'crin s'appiglia; e, mentre sì l'attizzano, Casca nel collo; e i satiri lo rizzano. Quasi in un tratto vista, amata e tolta Dal fiero Pluto, Proserpina pare Sopra un gran carro; e la sua chioma sciolta A' zefiri amorosi ventilare. La bianca vesta, in un bel grembo accolta, Sembra i colti fioretti giù versare. Si percuote ella il petto, e in vista piagne, Or la madre chiamando, or le compagne. Posa giù del leone il fiero spoglio Ercole, e veste femminina gonna; Colui che 'l mondo da grave cordoglio Avea scampato; ed or serve una donna: E può soffrir d'Amor l'indegno orgoglio Chi con gli omer già fece al ciel colonna; 'Che. 2 Uno a cui, 3 Suole. E quella man con che era a tenere uso La clava poderosa, or torce un fuso. Gli omer setosi a Polifemo ingombrano L'orribil chiome, e nel gran petto cascano; E fresche ghiande l'aspre tempie adom[brano. Presso a sè par sue pecore che pascano: 3 Duo formosi delfini un carro tirano: Sovr'esso è Galatea, che 'l fren corregge: E quei notando parimente spirano. Ruotasi attorno più lasciva gregge: [no; Qual le salse onde sputa, e quai s'aggiraQual parcheperamor giuochie vanegge 4. La bella niufa con le suore fide Di si rozzo cantar vezzosa ride. Intorno al bel lavor serpeggia acanto, Di rose e mirti e lieti fior contesto; Con varii augei sì fatti, che il lor canto Pare udir ne gli orecchi manifesto. Ne d'altro si pregiò Vulcan mai tanto; Ne'l vero stesso ha più del ver che questo: E quanto l'arte intra se non comprende, La mente, immaginando, chiaro intende. Poliziano, ivi. VII. Alla sua donna, Ippolita Leoncina. Chi vuol veder lo sforzo di natura, Venga a veder questo leggiadro viso D' Ippolita, che 'l cor co gli occhi fura; Contempli il suo parlar,contempli il riso. Nascono. 2 Fa. 3 Alpestri. 4 Vaneggi. Quando Ippolita ride onesta e pura, I' non ardisco gli occhi alto levare, Che maraviglia è s'io son fatto vago D'un si bel canto, e s'io ne sono ingordo? Costei farebbe innamorare un drago, Un bavalischio 2, anzi un aspido sordo. I'mi calai: ed or la pena pago; Ch'i' mi trovo impaniato, come un tordo. Ognun fugge costei quand'ella ride: Col canto piglia, e poi col riso uccide. [ra; Pietà, donna,per Dio;deh non più guerNon più guerra, per Dio, ch'i'mi t'arrendo: I' son quasi che morto, i' giaccio in terra, Vinto mi chiamo, e più non mi difendo: Legami, e in qual prigion tu vuoi,mi serra; Chè maggior gloria ti farò vivendo : Se temi ch' io non fugga, fa un nodo De la tua treccia, e legami a tuo modo. Io arei 3 già un'orsa a pietà mossa ; E tu pur dura a tante mie parole. Che arai 4 tu fatto poi che ne la fossa Vedrai sepolto il tuo servo fedele ? Ecco la vita, ecco la carne e l'ossa : Che vuoi tu far di me, donna crudele? È questo il guiderdon de le mie pene? Dunque m'uccidi perch' io ti vo❜bene? Costei per certo è la più bella cosa Che 'n tutto'l mondo mai vedesse il sole; Lieta, vaga, gentil, dolce, vezzosa, Piena di rose, piena di viole, Cortese, saggia, onesta, graziosa, Benigna in vista, in atto ed in parole: Così spegne costei tutte le belle, Come il lume del sol tutte le stelle. Gli occhi mi cadder giù tristi e dolenti, Tutti mi furon tolti i sentimenti Fatti un po' innanzi, e toccagli la mano. lo mi sento passare insin ne l'ossa 16. Amante disperato. La non vuol esser più mia, La non vuol esser più mia, La non vuol esser più mia, La non vuol esser più mia; La non vuol che più la segua; La m' ha rotto pace e tregua 1 Certezza. Sicurtà. Con gran scorno e villania. La non vuol esser più mia. lo mi trovo in tanto affanno, Che d'aver sempre il malanno lo mi credo in vita mia. La non vuol esser più mia: Ma un conforto sol m'è dato, Che fedel sarò chiamato ; Sarai tu spietata e ria. Poliziano. VIII. La fortuna. Porta la polve il vento in su le torre '; E, benchè in alto sia, polve si stima: Poi presto presto con furor ricorre, E la riporta in terra, ov'era prima. Così questa fortuna ognor discorre : Ora t'abbassa, ed or ti porta in cima. Serafino dall'Aquila, Strambotti. 17. Morgante e Margutte in un'osteria. Aresti tu da mangiare e da bere? Qui si conviene avere altre vivande; Rispose l'oste: Mangi delle ghiande: Comincial col battaglio a bastonare; 1 Torri. 3 Dentro. E finalmente il bufol fu arrostito. Non creder con la pelle scorticata; Quivi mangiorno' le reliquie tutte L'oste una forma di cacio trovòe, È questo compagnon da fare a once? L'oste co' servi impauriti sono, Mangiarono, 2 Tu. Morgante, poichè molto ebbe mangiato, Pulci, Morgante, c. XVIII, st. 150. 18. Bellezze della sua donna. Chi non ha visto ancora il gentil viso Chi non vide fiorir quel vago riso Chi mai non vide sfavillar quel guardo E chi non vide il volger dolce e tardo Del soave splendor tra il nero e il bianco, Non sa nè sente quel che vaglia Amore. Bojardo. 19. La Formica. Andando la formica a la ventura, E quanto più cercava sua misura, Ma pur, quando si fu molto aggirata, E diceva: Egli è pur meglio che io 1 Non ce n'è. IX. Canto funebre pastorale. Alma beata e bella, Nuda salisti ne' superni chiostri; Ti godi insieme accolta; E lieta ivi schernendo i pensier nostri, E co' vestigi santi E tra pure fontane e sacri mirti Ei tuoi cari pastori indi correggi; Vedi nel cielo, e più novelli fiori; Seguir le ninfe in più felici amori. E di rara dolcezza il cielo ingombra, Col suon de' novi inusitati accenti. Ed a gli armenti il toro, E l'ondeggianti biade aʼlieti campi ; Fostudel nostro coro. I fiumi il sanno e le spelonche e i faggi: Pianser le verdi rive, L'erbe pallide e smorte; El Sol più giorni non mostrò suoi raggi; Tanto dolse a ciascun l'acerbo fato: A la tua sacra tomba, E voti di bifolchi ognor vedrai : Per bocche de'pastor volando andrai ; Che 'l tuo bel nome estingua, Ne sol vivrai per la mia stanca lingua, In mille altre sampogne e mille versi. Fate ombra a le quiete ossa sepolte. X. L'età dell'oro. Quand'io appena incominciava a tangere Da terra i primi rami, ed addestravami Con l'asinel portando il grano a frangere; Ahi,cruda morte! e chi fia che ne scampi, Il vecchio padre mio, che tanto amavami, Sovente a l'ombra de gli opachi suberi E, come fassi a quei che sono impuberi, Tal volta nel parlar soleva inducere I tempi antichi, quandoi buoi parlavano, Che'l Ciel più grazie allor solea producere. Allora i sommi Dii non si sdegnavano Menar le pecorelle in selva a pascere ; |