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I

De'cervi van pel pian fuggendo in frotta:
Timer gl'inganni de le volpi ha spenti:
Le lepri al primo assalto vanno in rotta:
Di sua tana, stordita, esce ogni belva:
L'astuto lupo vie più si rinselva;
E, rinselvato, le sagaci nare
Del picciol bracco pur teme il meschino;
Ma il cervo par del veltro paventare;
De'lacci 'l porco, o del fiero mastino.
Vedesi lieto or qua or là volare
Fuor d'ogni schiera il giovan pellegrino 2;
Pel folto bosco il fier caval mette ale;
E trista fa qual fera Giulio assale.

Qual il centaur per la nevosa selva
Di Pelio o d'Emo va feroce in caccia,
Da le lor tane predando ogni belva,
Or l'orso uccide, or il fioa minaccia;
Quanto è più ardita fera, più s'inselva;
Il sangue a tutte dentro al cor s'agghiaccia.
La selva trema,e gli cede ogni pianta: [ta.
Gli arbori abbatte osveglie 3,orami schian-
Ah quanto a mirar Giulio è fiera cosa!
Rompe la via dove più il bosco è folto,
Per trar di macchia la bestia crucciosa;
Con verde ramo intorno al capo avvolto,
Con la chioma arruffata e polverosa,
E d' onesto sudor bagnato il volto.

Poliziano, ivi.

VI. Favole effigiate da Vulcano sulle porte della reggia di Venere.

In un formoso e bianco tauro Si vede Giove per amor converso, Portarne il dolce suo ricco tesauro; E lei volger il viso al lito perso, In atto paventosa; e i be' crin d'auro Scherzan nel petto, per lo vento avverso; La vesta ondeggia, e indietro fa ritorno: L'una man tien al dorso, e l'altra al corno. Le ignude piante a sè ristrette accoglie, Quasi temendo il mar, che non le bagne". Tale, atteggiata di paure e doglie, Par chiami invan le sue dolci compagne: Le quali, assise tra fioretti e foglie, Dolenti Europa ciascheduna piagne: Europa, sona il lito, Europa, riedi. Il toro nota, e talor bacia i piedi.

Fassi Nettuno un lanoso montone, Fassi un torvo giovenco, per amore; Fassi un cavallo il padre di Chirone: Nari. 2 Raro, Eccellente. * Svelle. 4 Bagni.

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Poi segue Dafne; e'n sembianza si lagna, Come dicesse: o ninfa, non ten gire; Ferma il piè, ninfa, sopra la campagna; Ch'io non ti seguo per farti morire: Così cerva leon, così lupo agna, Ciascuno il suo nemico suol fuggire: Ma perchè fuggi, o donna del mio core, Cui 2 di seguirti è sol cagione amore?

Da l'altra parte la bella Arianna Con le sorde acque di Teseo si dole, E de l'aura, e del sonno, che la inganna; Di paura tremando come sole 3 Per picciol ventolin palustre canna. Par che in atto abbia impresse tai parole: Ogni fiera di te meno è crudele; Ognun te più mi saria fedele.

[no

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Vien, sopra un carro d'edera e di pampi→ Coperto, Bacco; il qual duo tigri guidano: E con lui par che l'alta rena stampino Satiri e Bacche; e con voci alte gridano. Quel si vede ondeggiar, quei par ch'inciam

[pino, Quel con un cembal bee, quei par che ridano: Qual fa d'un corno, e qual de leman ciotola; Qual ha preso una ninfa, e qual si rotola.

Sopra l'asin Silen, di ber sempre avido, Con vene grosse, nere, e di mosto umide, Marcido sembra, sonnacchioso e gravido, Le luci ha di vin rosso, enfiate e fumide. L'ardite ninfe l'asinel suo pavido Pungon col tirso; ed ei con le man tumide A'crin s'appiglia; e, mentre sì l'attizzano, Casca nel collo; e i satiri lo rizzano.

Quasi in un tratto vista, amata e tolta Dal fiero Pluto, Proserpina pare Sopra un gran carro; e la sua chioma sciolta A' zefiri amorosi ventilare. La bianca vesta, in un bel grembo accolta, Sembra i colti fioretti giù versare. Si percuote ella il petto, e in vista piagne, Or la madre chiamando, or le compagne.

Posa giù del leone il fiero spoglio Ercole, e veste femminina gonna; Colui che 'l mondo da grave cordoglio Avea scampato; ed or serve una donna: E può soffrir d'Amor l'indegno orgoglio Chi con gli omer già fece al ciel colonna; 'Che. 2 Uno a cui, 3 Suole.

E quella man con che era a tenere uso La clava poderosa, or torce un fuso.

Gli omer setosi a Polifemo ingombrano L'orribil chiome, e nel gran petto cascano; E fresche ghiande l'aspre tempie adom[brano.

Presso a sè par sue pecore che pascano:
Ne a costui dal cor già mai disgombrano
Li dolci acerbi lai che d'amor nascano ';
Auzi, tutto di pianto e dolor macero,
Seggia in un freddo sasso, appie d'un acero.
Da l'una e l'altra orecchia un arco face 2
Il ciglio irsuto, lungo ben sei spanne:
Largo sotto la fronte il naso giace;
Pajon di schiuma biancheggiar le zanne.
Tra' piedi ha il cane; e sotto il braccio tace
Una zampogna ben di cento canne;
Eguarda il mar, ch'ondeggia; e alpestre
Par canti, e mova le lanose gote; [note
E dica ch'ella è bianca più che il latte;
Ma più superba assai ch'una vitella;
E che molte ghirlande le ha già fatte;
E serbale una cerva molto bella;
Un orsacchin, che già col can combatte;
E che per lei si macera e flagella,
E che ha gran voglia di saper notare,
Per andare a trovarla infin nel mare.

3

Duo formosi delfini un carro tirano: Sovr'esso è Galatea, che 'l fren corregge: E quei notando parimente spirano. Ruotasi attorno più lasciva gregge: [no; Qual le salse onde sputa, e quai s'aggiraQual parcheperamor giuochie vanegge 4. La bella niufa con le suore fide Di si rozzo cantar vezzosa ride.

Intorno al bel lavor serpeggia acanto, Di rose e mirti e lieti fior contesto; Con varii augei sì fatti, che il lor canto Pare udir ne gli orecchi manifesto. Ne d'altro si pregiò Vulcan mai tanto; Ne'l vero stesso ha più del ver che questo: E quanto l'arte intra se non comprende, La mente, immaginando, chiaro intende. Poliziano, ivi.

VII. Alla sua donna, Ippolita Leoncina.

Chi vuol veder lo sforzo di natura, Venga a veder questo leggiadro viso D' Ippolita, che 'l cor co gli occhi fura; Contempli il suo parlar,contempli il riso. Nascono. 2 Fa. 3 Alpestri. 4 Vaneggi.

Quando Ippolita ride onesta e pura,
E' par che si spalanchi il paradiso:
Gli angioli al canto suo, senza dimoro,
Scendon tutti dal cielo a coro a coro.

I' non ardisco gli occhi alto levare,
Donna, per rimirar vostra adornezza;
Ch'i' non son degno di tal donna amare,
Ne d'esser servo a si alta bellezza:
Ma, se deguaste un po' basso mirare,
E fare ingiuria a la vostra grandezza,
Vedreste questo servo si fedele,
Che forse gli sareste men crudele.

Che maraviglia è s'io son fatto vago D'un si bel canto, e s'io ne sono ingordo? Costei farebbe innamorare un drago, Un bavalischio 2, anzi un aspido sordo. I'mi calai: ed or la pena pago; Ch'i' mi trovo impaniato, come un tordo. Ognun fugge costei quand'ella ride: Col canto piglia, e poi col riso uccide. [ra;

Pietà, donna,per Dio;deh non più guerNon più guerra, per Dio, ch'i'mi t'arrendo: I' son quasi che morto, i' giaccio in terra, Vinto mi chiamo, e più non mi difendo: Legami, e in qual prigion tu vuoi,mi serra; Chè maggior gloria ti farò vivendo : Se temi ch' io non fugga, fa un nodo De la tua treccia, e legami a tuo modo.

Io arei 3 già un'orsa a pietà mossa ; E tu pur dura a tante mie parole. Che arai 4 tu fatto poi che ne la fossa Vedrai sepolto il tuo servo fedele ? Ecco la vita, ecco la carne e l'ossa : Che vuoi tu far di me, donna crudele? È questo il guiderdon de le mie pene? Dunque m'uccidi perch' io ti vo❜bene?

Costei per certo è la più bella cosa Che 'n tutto'l mondo mai vedesse il sole; Lieta, vaga, gentil, dolce, vezzosa, Piena di rose, piena di viole, Cortese, saggia, onesta, graziosa, Benigna in vista, in atto ed in parole: Così spegne costei tutte le belle, Come il lume del sol tutte le stelle.

Gli occhi mi cadder giù tristi e dolenti,
Com' io vidi levarsi in alto il sole;
La lingua morta m'addiacciò fra' denti,
E non potè formar le sue parole;

Tutti mi furon tolti i sentimenti
Da chi m'uccide e sana quand' e' vuole ;
E mille volte il cor mi disse in vano :

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Fatti un po' innanzi, e toccagli la mano.
Per mille volte ben trovata sia,
Ippolita gentil, caro mio bene,
Viva speranza, dolce vita mia :
Deh guarda quel che a rivederti viene :
Deh fagli udir la tua dolce armonia;
Da questo refrigerio a le sue pene :
Se 'l tuo bel canto gli farai sentire,
Allora allor contento è di morire.
Solevan già col canto le sirene
Fare annegar nel mare i naviganti;
Ma Ippolita mia cantando tiene
Sempre nel foco i miserelli amanti.
Solo un rimedio trovo a le mie pene:
Che un' altra volta Ippolita ricanti.
Col canto m'ha ferito, e poi sanato ;
Col canto morto, e poi risuscitato.

lo mi sento passare insin ne l'ossa
Ogni accento, ogni nota, ogni parola :
E par che d'altro,pascer non mi possa ;
Ch'ogni piacer questo piacer m'imbola.
E crederci, s'io fossi entro la fossa,
Risuscitare al suon di vostra gola ;
Crederei, quand'i' fussi ne l'inferno,
Sentendo voi, volar nel regno eterno.
Voi vedete ch'io guardo questa e quella;
E forse ancor n'avete un po' di sdegno:
Ma non possa io veder mai sole o stella,
S'io non ho tutte l'altre donne a sdegno:
Voi sola a gli occhi miei parete bella,
Piena di grazia e piena d'alto ingegno :
Abbiatene di questo mille carte:
Ma, per coprire il vero, uso quest'arte.
Poliziano, Strambolli.

16. Amante disperato.

La non vuol esser più mia,
La non vuol la traditora:
L'è disposta alfin ch'io mora
Per amore e gelosia.

La non vuol esser più mia,
La mi dice: Va'con Dio;
Ch'io t'ho posto omai in oblio,
Nè accettarti mai potria.

La non vuol esser più mia,
La mi vuol per uomo morto;
Ne giammai le feci torto.
Guarda mo che scortesia!

La non vuol esser più mia; La non vuol che più la segua; La m' ha rotto pace e tregua 1 Certezza. Sicurtà.

Con gran scorno e villania.

La non vuol esser più mia. lo mi trovo in tanto affanno, Che d'aver sempre il malanno lo mi credo in vita mia.

La non vuol esser più mia: Ma un conforto sol m'è dato, Che fedel sarò chiamato ; Sarai tu spietata e ria.

Poliziano.

VIII. La fortuna.

Porta la polve il vento in su le torre '; E, benchè in alto sia, polve si stima: Poi presto presto con furor ricorre, E la riporta in terra, ov'era prima. Così questa fortuna ognor discorre : Ora t'abbassa, ed or ti porta in cima.

Serafino dall'Aquila, Strambotti.

17. Morgante e Margutte in un'osteria.

Aresti tu da mangiare e da bere?
L'oste rispose: E' ci fia da godere......
E'c' è avanzato un grosso e bel cappone.
Disse Margutte: Oh! non fia un boccone.

Qui si conviene avere altre vivande;
Noi siamo usati di far buona cera 2:
Non vedi tu costui, com'egli è grande?
Cotesta è una pillola di pera.

Rispose l'oste: Mangi delle ghiande:
Che vuoi tu ch' io provegga or ch'egli è
E cominciò a parlar superbamente, [sera?
Tal che Morgante non fu paziente.

Comincial col battaglio a bastonare;
L'oste gridava, e non gli parea giuoco.
Disse Margutte: Lascia un poco stare,
Io vo' per casa cercare ogni loco;
Jo vidi dianzi un bufol drento 3 entrare:
E'ti bisogna fare, oste, gran foco,
E che tu intenda a un fischiar di zufolo,
Poi in qualche modo arrostire quel bufolo.
Il fuoco per paura si fe tosto;
Margutte spicca di sala una stanga:
L'oste borbotta, e Margutte ha risposto:
Tu vai cercando il battaglio t'infranga:
A voler far quell' animale arrosto,
Che vuoi tu tôrre, un manico di vanga?
Lascia ordinare a me, se vuoi, il convito.
2 Mangiar lautamente,

1 Torri.

3 Dentro.

E finalmente il bufol fu arrostito.

Non creder con la pelle scorticata;
E' lo sparò nel corpo solamente.
Parea di casa più che la granata:
Comanda e grida, e per tutto risente:
Un'asse molto lunga ha ritrovata,
Apparecchiolla fuor subitamente;
E vino e carne e del pan vi ponea,
Perchè Morgante in casa non capea.

Quivi mangiorno' le reliquie tutte
Del bufolo, e tre staia di pan o piue,
E bevvono a bigonce; e poi Margutte
Disse a quell'oste: Dimmi, aresti tue 2
Da darci del formaggio o delle frutte?
Chè questa è stata роса roba a due;
O s'altra cosa tu ci hai da vantaggio.
Or udirete come andò il formaggio.

L'oste una forma di cacio trovòe,
Ch'era sei libbre o poco più o meno ;
Un canestretto di mele arrecòe [pieno.
D'un quarto o manco, e non era anche
Quando Margutte ogni cosa guardòe,
Disse a quell' oste: Bestia senza freno,
Ancor s'arà il battaglio adoperare 3,
S'altro non credi trovar da mangiare.

È questo compagnon da fare a once?
Aspetta, tanto ch'io torni, un miccino,
E servi intanto qui con le bigonce;
Fa'che non manchi al gigante del vino,
Che non ti racconciasse l'ossa sconce.
l'fo per casa come il topolino :
Vedrai s'io so ritrovare ogni cosa,
E s'io farò venir qui roba a josa.
Fece la cerca per tutta la casa
Margutte, e spezza e sconficca ogni cassa,
E rompe e guasta masserizie e vasa;
Ciò che trovava, ogni cosa fracassa,
Ch' una pentola sol non v'è rimasa.
Di cacio e frutte raguna una massa,
E portala a Morgante in un gran sacco,
E cominciorno a rimangiare a macco.

L'oste co' servi impauriti sono,
Ed a servire attendon tutti quanti;
E' dice fra sè stesso: sarà buono
Non ricettar mai più simil briganti.
E' pagheranno domattina al suono
Di quel battaglio, e saranno contanti:
Hanno mangiato tanto, ch'in un mese
Non mangerà tutto questo paese.

Mangiarono,

2 Tu.

Morgante, poichè molto ebbe mangiato,
Disse a quell'oste: A dormire n'andremo,
E domattina, com' io sono usato
Sempre a cammino, insieme conteremo,
E d'ogni cosa ben sarai pagato,
Per modo che d'accordo resteremo.
E l'oste disse, a suo modo pagasse,
Chè gli parea mill' anni se n' andasse.

Pulci, Morgante, c. XVIII, st. 150. 18. Bellezze della sua donna.

Chi non ha visto ancora il gentil viso
Che solo in terra si pareggia al sole,
E l'accorte sembianze al mondo sole,
E l'atto dal mortal tanto diviso;

Chi non vide fiorir quel vago riso
Che germina di rose e di viole,
Chi non udi le angeliche parole
Che suonan armonia di paradiso ;

Chi mai non vide sfavillar quel guardo
Che, come stral di foco, il lato manco
Sovente incende e mette fiamme al core;

E chi non vide il volger dolce e tardo Del soave splendor tra il nero e il bianco, Non sa nè sente quel che vaglia Amore. Bojardo.

19. La Formica.

Andando la formica a la ventura,
Giunse dov' era un teschio di cavallo,
Il qual le parve, senza verun fallo,
Un palazzo real con belle mura.

E quanto più cercava sua misura,
Si gli parea più chiaro che cristallo,
E si diceva: Egli è più bello stallo,
Che al mondo mai trovasse creatura.

Ma pur, quando si fu molto aggirata,
Di mangiare le venne gran disio,
E, non trovando, ella si fu turbata ;

E diceva: Egli è pur meglio che io
Ritorni al buco dove sono usata,
Che morte aver; però ne vo' con Dio.
Così voglio dir io:
La stanza è bella, avendoci vivanda;
Ma qui non è', s'alcun non ce ne manda.
Burchiello.

1 Non ce n'è.

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IX. Canto funebre pastorale.

Alma beata e bella,
Che da' legami sciolta

Nuda salisti ne' superni chiostri;
Ove con la tua stella

Ti godi insieme accolta;

E lieta ivi schernendo i pensier nostri,
Quasi un bel Sol ti mostri
Tra li più chiari spirti ;

E co' vestigi santi
Calchi le stelle erranti ;

E tra pure fontane e sacri mirti
Pasci celesti greggi;

Ei tuoi cari pastori indi correggi;
Altri monti, altri piani,
Altri boschetti e rivi

Vedi nel cielo, e più novelli fiori;
Altri fauni e silvani
Per luoghi dolci estivi

Seguir le ninfe in più felici amori.
Tal fra soavi odori,
Dolce cantando, a l'embra,
Tra Dafni e Melibeo
Siede il nostro Androgeo ;

E di rara dolcezza il cielo ingombra,
Temprando gli elementi

Col suon de' novi inusitati accenti.
Quale la vite a l'olmo,

Ed a gli armenti il toro,

E l'ondeggianti biade aʼlieti campi ;
Tale la gloria e 'l colmo

Fostudel nostro coro.

I fiumi il sanno e le spelonche e i faggi: Pianser le verdi rive,

L'erbe pallide e smorte;

El Sol più giorni non mostrò suoi raggi;
Nè gli animai selvaggi
Usciro in alcun prato ;
Ne greggi andar per monti,
Ne gustaro erbe o fonti :

Tanto dolse a ciascun l'acerbo fato:
Tal che al chiaro ed al fosco
Androgeo Androgeo sonava il bosco.
Dunque fresche corone

A la tua sacra tomba,

E voti di bifolchi ognor vedrai :
Tal che in ogni stagione,
Quasi nova colomba,

Per bocche de'pastor volando andrai ;
Ne verrà tempo mai

Che 'l tuo bel nome estingua,
Mentre serpenti in dumi
Saranno, e pesci in fiumi.

Ne sol vivrai per la mia stanca lingua,
Ma per pastor diversi,

In mille altre sampogne e mille versi.
Se spirto alcun d'amor vive fra voi,
Querce frondose e folte,

Fate ombra a le quiete ossa sepolte.
Sannazzaro, Arcadia, egloga V.

X. L'età dell'oro.

Quand'io appena incominciava a tangere Da terra i primi rami, ed addestravami Con l'asinel portando il grano a frangere;

Ahi,cruda morte! e chi fia che ne scampi, Il vecchio padre mio, che tanto amavami,

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Sovente a l'ombra de gli opachi suberi
Con amiche parole a sè chiamavami :

E, come fassi a quei che sono impuberi,
Il gregge m'insegnava di conducere,
E di tosar le lane, e munger gli uberi.

Tal volta nel parlar soleva inducere I tempi antichi, quandoi buoi parlavano, Che'l Ciel più grazie allor solea producere.

Allora i sommi Dii non si sdegnavano Menar le pecorelle in selva a pascere ;

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