Pregio, il servire; il non pensar, decoro. lo, per me, sorte estimo assai beata, Non conoscer nè ambire altro tesoro, Che fama eterna col sudor mercata. Alfieri. CCXXXIII. Sopra i proprii scritti. Io 'l giurerò morendo; unica norma Sempre esser stato il core al compor mio, Cui mai servil menzogna non deforma, Ne doppio scopo, o pueril desio. Rapida innanzi passami la torma De' molti scritti; in cui sbagliai fors'io; Ma da ignoranza il loro errar s' s' informa, Non da malizia: e testimon n'è Iddio. Muto e sepolto il mio nome si giaccia, Pria di quest'ossa annichilato, in tomba; S'io non cercai del vero ognor la traccia. Cigno, non l'oso io dir, bensì colomba Dovrà nomarmi, ove di me non taccia, Quella ch'eterna l'uom coll'aurea tromba. Alfieri. Esca abbondante, Pace e diletto.... Care mie figlie, è facile La libertà di svolazzar qua e là, Ne questa a noi giammai tolta verrà, Così il dotto moscon, lor viste fosche Che non potría-mai farsi un POPOL MO [SCHE. Alfieri. DEL SECOLO DECIMONONO CCXXXIV. Al genio. Salve, o scintilla de l'eterno lume, Non è pupilla di sì forte acume, Di mille obbietti svariati e sparti Tu'l creato ideal mondo ricrei; Mazza. CCXXXV. Sopra la musica e i musici antichi. One' bei giorni de la culta Atene, De' gravi padri a le prodotte cene Qui vaga pompa di gentil contesa; ᎷᎥ compungon de'naufraghi i singulti. Ma te, te ben ravviso; oimè, ti duoli Del trojano infedel, misera Dido. Tero mi dolgo, generosa Alceste: Va,ch'io ti seguo pe'l cammin de l'ombre. Me pur tra l'ombre stesse avrai compagno, Sventurato cantor, vedovo sposo, Oagrio garzon. Elisia chiostra, Soggiorno di piacer, campo di расе, Quanto se'bella! Mormorate, o fonti; F bisbigliate pur, garrule aurette: E per le nari cupido l'olezzo Suggo de'vostri graziosi fiori, E del vostro seren conforto i lumi. Torna, amata Euridice, al palpitante Sen de lo sposo, che varcar poteo, Solo per te riaver, la pallid'onda Che ritorno non ha. Furie, tacete, Torna Euridice. Tal dolce me prende Di me medesmo obblio; tal mi ricerca Tutta la facil anima, vittrice Oh qual mais'apre d'improvvisa scena Forza di note lidie, erranti in mille Vasto teatro, che l' orecchio e il guardo Giri di melodia, cui spinge e frena, Del par m' assale e mi lusinga! E questo, E in sè stesse ripiega, aggruppa e snoda Io non m' inganno, il travaglioso aringo La voce penetrabile e soave. Corso da l' arti emulatrici, Or fanno Gli ondeggiavan di popolo le strade, CCXXXVI. L'opera in musica. Mazza. CCXXXVII. A Giovanni Ansani cantore ed attore illustre. Odio i bassi concenti Degno è Nason che accolgal o Ŏ Ansani, a te non piegansi Tal da l'eleo conflitto De'prischi eroi le immagini Perfida! e che giovolle Invan le cure a tergere Misero il reo se crede Come diverso il veggono, Dal di che scese a l'Erebo Esclama: empia, t'affretta: Il nero Abisso; e tenti Cerr etti. CCXXXVIII. Sopra la filosofia morale. Altri studii, altre cure, altro diletto Grave filosofia qui al core infonde: Non quella che, sprezzando umano affetto, Superba il capo oltre le nubi asconde. Spazii ella pur sul ciel; scorga i portenti Noti d'Etruria e d'Albione al saggio; E il corso a gli astri, e a le comete ardenti Prescriva i moti del fatal viaggio. Emulo de gli Dei, l'arduo intelletto Contempli pur dietro i suoi voli ardito A l'infallibil calcolo soggetto L'ampio giro de'mondi e l'infinito. Ma poi che pro? squarci il suo vel NaVincasi del destin l'ordine immoto; [tura, Ricco d'inutil lume, in nebbia oscura Per te, dovuti al Cielo, incensi e voti Salgon su l'are;e a l'uom l'altr'uomo è caro: Per te al candido cor son nomi iguoti Ambiziose voglie o genio avaro: Quindi è che insulti a l'uccisor di Clito, Che angusto il mondo finse a le sue brame; E a lui che il mar coperse e ingombrò il Già per la morte di Leandro infame. [lito Intrepida per te mostrasi un'alma Al furiar de la contraria sorte: Tal fra i ceppi serbàr la prima calma Socrate e Focione, in faccia a morte. Tu intanto odimi, o Dea. Se tuo seguace Il cammin di virtù correr degg' io; Schifo d'adulator suono mendace, Se aver dee nobil meta il canto mio; Sien lunghi i giorni miei: me d'Egle in seno D'un bramato imeneo scorgan le faci; Finchè in tremola età venendo meno, Porganmi i labbri suoi gli ultimi baci. Ma, se, a me stesso e a le tue leggi infido, Dando al sentier de la virtù le spalle, Levar di me dovessi infame grido Del vizio seduttor battendo il calle; O se un dì, mia mercè, su le mie soglie Sparger dovesser mai singulti amari L'orfano derelitto e l'orba moglie, Dal sen divelti di paterni lari; Prima sul fato mio pianto immaturo Versi la madre; e tra profumi eoi Disponga i membri sovra il rogo oscuro Del figlio, che dovea comporvi i suoi. Cerretti. CCXXXIX. Alla posterità. Idolo de gli eroi, terror de gli empi; Spesso delusa in tanti bronzi e marmi, Posterità; se a te ne'tardi tempi Giungon miei carmi, Odili, nè temer che de'nepoti Tradisca il voto, o falso a te ragioni: Che a me de'ricchi e de'potenti ignoti Furono i doni. Unico forse, de le ascree sorelle Infra i seguaci, io libero, io ne'gravi Modi d'Alceo franco tonai fra imbelle Ahi, qual età! qual Pindo! Ov'è chi acVanti fra noi di patrio zelo il seno? [ censo Chi un Omero oggi imita, o chi l'immenso Lume d'Ismeno? Che se,tra il crocidar d'immondi augei, Qualche emerge talor voce sublime, Qual obietto, qual segno a dì sì rei Scelgon sue rime? Quanti a te giungeran nomi d'ingegni Ammirandi a la plebe, e vili al prode! E quanti obblio ne coprirà che degni Eran di lode! CCXL. Canto nuziale. Dal sacro orror Pimpleo, Da le materne selve, Scendi, Imene Imeneo. Cerretti. Te d'ogni stirpe chiamano O di costumi a gli uomini Tu ai re sdegnati e a i popoli E tu soave imperio Per te la zona timide Per te fama non temono Dal sacro orror Pimpleo, Invan la chiamo: pavida Deh non temer, non piangere, È il dio che brami: ah, semplice, Non lo ravvisi? è Imene. Però qualor sovra l'usato scanno A mensa i'siedo, ove in un cerchio i figli Chini d'intorno e taciturni stanno; Forza è che ne❜lor volti io mi consigli, E or questo or quel vo'che mi venga allato, Qual più a la madre parmi che assomigli. Pasco alcun poco il ciglio affascinato: Ma la dolce illusion fugge, e m'accorgo Che la sposa non è quella ch'io guato. Sul desco allora smanioso i' sorgo, E a temprar la bevanda, e condir l'esca, D'amarissimo pianto un fiume sgorgo. Timor nuovo ne'figli avvien che cresca; Tutti tendon le braccia, ognun mi dice: Deh, padre, per pietà, di noi t'incresca. Orfani de la cara genitrice, Per noi chi resta? a noi, pensa che or sei Salomone Fiorentino. Fantoni. CCXLII. Il rimorso della coscienza. CCXLI. In morte della sua sposa. Pur quasi serbi ancora e senso e mente, A lei, che più non m'ode, e muta giace, Talor rivolgo il mio parlar dolente. Ahi sposa, ahi sposa! un vol d'ombra [fugace Fu il breve trapassar de'tuoi verdi anni, E un vol fu la mia gioja e la mia pace. Mira del tuo fedel gli acerbi affanni; Mira, al tuo dipartir come s'accuora, Vedovo, sconsolato, in negri panni. Qual resta il fior se una nemica aurora Trattien sul grembo l'umida rugiada, Che il curvo stelo e l'arse foglie irrora; Tale io restai poichè l'adunca spada Di Morte a me ti tolse, e lunge spinse Te per ignota interminabil strada. Ma, come il fato in pria nostre alme E poi quaggiù provido amor ci unio, M'apparve in truce aspetto, ed ogni vena Il fier rimorso ad agghiacciar si accinse; Indi armato d'artigli e di catena, Senza pietà mi lacerò, m'avvinse. Quale, oh Dio, mi scoperse orrida scena! In quai tetri color la penna tinse Per linearmi in ogni parte scritto Il giudice, la pena, e il mio delitto! Volgea la notte:e notte unqua più nera Di quella non vidio. Torbidi, inquieti S'aggiravan fantasmi; e priva ell'era De'suoi momenti placidi e segreti: Pareanmi estinti in la stellata sfera E gli astri erranti, e i lucidi pianeti: Tante ombre e tante noje ivano attorno, Che al Ciel chiedea, per respirare,il giorno. E il dì pur venne: allor su l'universo Fosco vedea caliginoso velo, Sbiadate l'erbe, ed ogni arbusto asperso Di quel color di cui lo tinge il gelo: Pallido, altrove ciascun fior converso, Da me torceva l'aduggiato stelo: Parea sospiro il moto de le fronde, Flebil lamento il mormorar de l'onde, Forse così, seguito il reo consiglio, L'Eden comparve al genitore antico. Invan spirava odor la rosa e il giglio, E il lusingava invano il rezzo amico; |