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Pregio, il servire; il non pensar, decoro. lo, per me, sorte estimo assai beata, Non conoscer nè ambire altro tesoro, Che fama eterna col sudor mercata.

Alfieri.

CCXXXIII. Sopra i proprii scritti.

Io 'l giurerò morendo; unica norma Sempre esser stato il core al compor mio, Cui mai servil menzogna non deforma, Ne doppio scopo, o pueril desio.

Rapida innanzi passami la torma De' molti scritti; in cui sbagliai fors'io; Ma da ignoranza il loro errar s' s' informa, Non da malizia: e testimon n'è Iddio.

Muto e sepolto il mio nome si giaccia, Pria di quest'ossa annichilato, in tomba; S'io non cercai del vero ognor la traccia. Cigno, non l'oso io dir, bensì colomba Dovrà nomarmi, ove di me non taccia, Quella ch'eterna l'uom coll'aurea tromba. Alfieri.

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Esca abbondante,
Securo tetto,

Pace e diletto....
E che non hanno
Quelle iniquissime?
E il tutto fanno
Rette a repubblica.
E noi chi siamo?
Noi pur vogliamo
Libertà pubblica.
Era il moscone
Un vero omone,
Saggio, prudente,
E dell' api sapiente.
Onde a quel dire oppone
Il ragionar seguente:

Care mie figlie, è facile
11 chiacchierar; ma il fare
Dà un po'più da studiare.
L'api son insettoni,
Aspre di pungiglioni,
Che le fan rispettare.
Ma noi di tempra gracile,
Che faremmo in battaglia,
Se un soffio ci sparpaglia?
Le pure api si pascono
Dittamo erbette e rose:
E in noi sempre rinascono
Mille voglie golose.

La libertà di svolazzar qua e là,
Col periglio temprata
Di una qualche ceffata,
Sia dunque ognor la nostra:

Ne questa a noi giammai tolta verrà,
Se il senno il ver dimostra.

Così il dotto moscon, lor viste fosche
Ralluminando, apria

Che non potría-mai farsi un POPOL MO

[SCHE.

Alfieri.

DEL

SECOLO DECIMONONO

CCXXXIV. Al genio.

Salve, o scintilla de l'eterno lume,
Genio divin. Tu poichè un'alma accendi,
Di qual possa la informi! e qual la rendi,
Che l' uom per poco non rassembra un
[ nume!

Non è pupilla di sì forte acume,
Che la penétri ove lo sguardo intendi;
Ne raggiungon tuo vol, se 'l volo estendi,
D'aquila velocissima le piume.

Di mille obbietti svariati e sparti
Un ne componi, e d' un mille ne crei,
Spirto in mille diffuso e mille parti.

Tu'l creato ideal mondo ricrei;
Tu raddoppi natura; e tue son l'arti
Ch' hanno i mortali d'emular gli Dei.

Mazza.

CCXXXV. Sopra la musica

e i musici antichi.

One' bei giorni de la culta Atene,
Musica, de le belle alme ornamento;
Quando virtù col tragico lamento
Dal teatro echeggiava e da le scene.

De' gravi padri a le prodotte cene
Giungea decoro il dorico stromento
Nè a giovin cor periglio era e tormento:
Il notturno apparir d' empie sirene.
A gli uomini'l cantor sacro, ed a'numi
Caro, le argive discorrea contrade,
De le leggi custode e de'costumi:

Qui vaga pompa di gentil contesa;
Or l'una a l'altra qui s'abbraccia e forza
Presta e riceve, ed il piacer ricresce,
Raddoppiando l'incanto. Al ciel là spazia
Sublime reggia; e là s'incurva, e posa
Su marmoree colonne il facil arco:
Quella è del mar l'onda,che spuma e bolle;
E questa, ingombra di squallente musco,
È d'Averno la via. Qual fammi invito
Romor concorde di discordi voci,
E a qual l'alma s'atteggia atroce imago!
Che sento; oime! Freme la pugna; ascolto;
Anzi m'aggiro tra il rimbalzo e l'urto
De'spessi dardi e de'percossi acciari:
Odo le voci languide di morte,
Miste a le grida che vittoria innalza.
Ah! mugge il mar, l'etra sfavilla e tuona;
Ratta scende la folgore, e fa scoppio.
E, fra l'orror de la tempesta, il core

ᎷᎥ

compungon de'naufraghi i singulti. Ma te, te ben ravviso; oimè, ti duoli Del trojano infedel, misera Dido. Tero mi dolgo, generosa Alceste: Va,ch'io ti seguo pe'l cammin de l'ombre. Me pur tra l'ombre stesse avrai compagno, Sventurato cantor, vedovo sposo, Oagrio garzon. Elisia chiostra, Soggiorno di piacer, campo di расе, Quanto se'bella! Mormorate, o fonti; F bisbigliate pur, garrule aurette: E per le nari cupido l'olezzo Suggo de'vostri graziosi fiori, E del vostro seren conforto i lumi. Torna, amata Euridice, al palpitante Sen de lo sposo, che varcar poteo, Solo per te riaver, la pallid'onda Che ritorno non ha. Furie, tacete, Torna Euridice. Tal dolce me prende Di me medesmo obblio; tal mi ricerca Tutta la facil anima, vittrice Oh qual mais'apre d'improvvisa scena Forza di note lidie, erranti in mille Vasto teatro, che l' orecchio e il guardo Giri di melodia, cui spinge e frena, Del par m' assale e mi lusinga! E questo, E in sè stesse ripiega, aggruppa e snoda Io non m' inganno, il travaglioso aringo La voce penetrabile e soave. Corso da l' arti emulatrici, Or fanno

Gli ondeggiavan di popolo le strade,
Poco men fatte di letizia fiumi.
Qh aurei giorni! ahi tralignala etade!
Mazza.

CCXXXVI. L'opera in musica.

Mazza.

CCXXXVII. A Giovanni Ansani cantore ed attore illustre.

Odio i bassi concenti
Di citarista indegno
Uso a far coi potenti
Vil traffico d'ingegno,
E il delitto e la frode
Avvolti in bisso e in porpora
A coronar di lode.

Degno è Nason che accolgal o
Del freddo Istro la foce,
Quando a colui querelasi
Che il Perugin feroce
Spinse a l'orribil fame,
E a l'altro ond'è lo scoglio
Tuttor di Capri infame.
Cadon, derisi serti,
E inaridita fronda,
I lauri al lusso offerti.
Ma eterno il crin circonda,
E contro gli anni è scudo,
Lauro non compro, e libero
Fregio di merto ignudo.

Ŏ Ansani, a te non piegansi
Dome provincie e genti,
Ne gli atrii tuoi rimbombano
Al fragor di clienti;
E pur difficil vanto)
Per te a la parca cetera
Sposai due volte il canto.

Tal da l'eleo conflitto
D'Enessidemo il figlio,
Due volte al corso invitto
E al pugillar periglio,
Movea al trinacrio tetto
A doppio inno di Pindaro
Invidiato oggetto.

De'prischi eroi le immagini
A suscitar rivolto,
Qual non fosti d'Eacide
L'ira imitando e il volto?
E chi te non ammira
Sotto il sembiante indomito
Del figlio di Semira 1?

Perfida! e che giovolle
Alma oltre il sesso ardita;
Vincer, con l'Indo molle,
Il faretrato Scita;
Se di rimorso atroce
Eterna romoreggiale
Nel vinto cor la voce?
Semiramide.

Invan le cure a tergere
Da l'empio sen profano
Voluttà veglia, e libale
I don più scelti invano,
Che a lei nutre e colora
Col soggiogato oceano
La tributaria aurora.

Misero il reo se crede
Vita condur serena:
Tardo ha talvolta il piede,
Ma certa è ognor la pena:
Ecco, il feral delitto
Presto a punir, lo squallido
Spettro di re trafitto.

Come diverso il veggono,
Lasso! le regie mura

Dal di che scese a l'Erebo
Tradita ombra immatura!
Gli aspidi di Megera
Ei scote, e il sen circondane
De l'infedel mogliera.

Esclama: empia, t'affretta:
Vieni, infallibil preda,
Devota a la vendetta:
Meco scender ti veda

Il nero Abisso; e tenti
A nove colpe orribili
Novi eccitar tormenti.
Questo pugnal percossemi,
Da cara man vibrato;
Questo, sacro a le Eumenidi,
Vindice del mio fato,
Pena di te più amara
Prendasi, e il sen ti laceri
Spinto da man più cara.

Cerr etti.

CCXXXVIII. Sopra la filosofia

morale.

Altri studii, altre cure, altro diletto Grave filosofia qui al core infonde: Non quella che, sprezzando umano affetto, Superba il capo oltre le nubi asconde.

Spazii ella pur sul ciel; scorga i portenti Noti d'Etruria e d'Albione al saggio; E il corso a gli astri, e a le comete ardenti Prescriva i moti del fatal viaggio.

Emulo de gli Dei, l'arduo intelletto Contempli pur dietro i suoi voli ardito A l'infallibil calcolo soggetto L'ampio giro de'mondi e l'infinito.

Ma poi che pro? squarci il suo vel NaVincasi del destin l'ordine immoto; [tura,

Ricco d'inutil lume, in nebbia oscura
Sarò poi sempre, a me medesmo ignoto.
Te dunque seguo, o Dea, te che comprendi
Tutte de l'uom le passioni ascose,
E a la patria e a sè stesso utile il rendi
Ne'varii officii ove la sorte il pose.

Per te, dovuti al Cielo, incensi e voti Salgon su l'are;e a l'uom l'altr'uomo è caro: Per te al candido cor son nomi iguoti Ambiziose voglie o genio avaro:

Quindi è che insulti a l'uccisor di Clito, Che angusto il mondo finse a le sue brame; E a lui che il mar coperse e ingombrò il Già per la morte di Leandro infame. [lito Intrepida per te mostrasi un'alma Al furiar de la contraria sorte: Tal fra i ceppi serbàr la prima calma Socrate e Focione, in faccia a morte.

Tu intanto odimi, o Dea. Se tuo seguace Il cammin di virtù correr degg' io; Schifo d'adulator suono mendace, Se aver dee nobil meta il canto mio; Sien lunghi i giorni miei: me d'Egle in seno D'un bramato imeneo scorgan le faci; Finchè in tremola età venendo meno, Porganmi i labbri suoi gli ultimi baci. Ma, se, a me stesso e a le tue leggi infido, Dando al sentier de la virtù le spalle, Levar di me dovessi infame grido Del vizio seduttor battendo il calle;

O se un dì, mia mercè, su le mie soglie Sparger dovesser mai singulti amari L'orfano derelitto e l'orba moglie, Dal sen divelti di paterni lari;

Prima sul fato mio pianto immaturo Versi la madre; e tra profumi eoi Disponga i membri sovra il rogo oscuro Del figlio, che dovea comporvi i suoi.

Cerretti.

CCXXXIX. Alla posterità.

Idolo de gli eroi, terror de gli empi; Spesso delusa in tanti bronzi e marmi, Posterità; se a te ne'tardi tempi

Giungon miei carmi,

Odili, nè temer che de'nepoti Tradisca il voto, o falso a te ragioni: Che a me de'ricchi e de'potenti ignoti Furono i doni.

Unico forse, de le ascree sorelle Infra i seguaci, io libero, io ne'gravi

Modi d'Alceo franco tonai fra imbelle
Popol di schiavi.
E mentre offrir godean plebei cantori
A i coronati vizii aonio serto,
Io le neglette osai cinger di fiori
Are del merto.

Ahi, qual età! qual Pindo! Ov'è chi acVanti fra noi di patrio zelo il seno? [ censo Chi un Omero oggi imita, o chi l'immenso Lume d'Ismeno?

Che se,tra il crocidar d'immondi augei, Qualche emerge talor voce sublime, Qual obietto, qual segno a dì sì rei

Scelgon sue rime? Quanti a te giungeran nomi d'ingegni Ammirandi a la plebe, e vili al prode! E quanti obblio ne coprirà che degni Eran di lode!

CCXL. Canto nuziale.

Dal sacro orror Pimpleo, Da le materne selve, Scendi, Imene Imeneo.

Cerretti.

Te d'ogni stirpe chiamano
Speme le madri, e i tremuli
Vecchi con voce fioca;
Te il garzoncello imberbe,
Te ogni donzella invoca.

O di costumi a gli uomini
Dolce maestro ed arbitro,
Dal sacro orror Pimpleo,
Da le materne selve,
Scendi, Imene Imeneo.

Tu ai re sdegnati e a i popoli
Pace ridoni, e candida
Fè di pensier concordi;
Tu in amistade unisci
Le famiglie discordi:

E tu soave imperio
Stendi da l'austro a borea.
Dal sacro orror Pimpleo,
Da le materne selve,
Scendi, Imene Imeneo.

Per te la zona timide
L'intatte spose sciolgono
A lusinghiero invito;
E redon, lagrimando,
A cupido marito.

Per te fama non temono
Casti Cupido e Venere.

Dal sacro orror Pimpleo,
Da le materne selve,
Scendi, Imene Imeneo.
Scendi, dator benefico
Di gioja e di dovizia;
Protettore fecondo
De le città, de i campi;
Animator del mondo.
Quale improvviso strepito?
Strider su i ferrei cardini
Odo la porta. Ei viene.
Sposa, ove fuggi? ah, semplice,
Non lo ravvisi? è Imene.

Invan la chiamo: pavida
Corre, e la madre abbraccia;
E vergognosa e mesta,
A l'altrui guardo celasi
Con la pudica vesta.

Deh non temer, non piangere,
Bella de l'Adria figlia:
Quel che da te sen viene,

È il dio che brami: ah, semplice, Non lo ravvisi? è Imene.

Però qualor sovra l'usato scanno A mensa i'siedo, ove in un cerchio i figli Chini d'intorno e taciturni stanno;

Forza è che ne❜lor volti io mi consigli, E or questo or quel vo'che mi venga allato, Qual più a la madre parmi che assomigli.

Pasco alcun poco il ciglio affascinato: Ma la dolce illusion fugge, e m'accorgo Che la sposa non è quella ch'io guato. Sul desco allora smanioso i' sorgo, E a temprar la bevanda, e condir l'esca, D'amarissimo pianto un fiume sgorgo.

Timor nuovo ne'figli avvien che cresca; Tutti tendon le braccia, ognun mi dice: Deh, padre, per pietà, di noi t'incresca. Orfani de la cara genitrice,

Per noi chi resta? a noi, pensa che or sei
Tu genitor, tu madre, e tu nutrice.
Si dividon così gli affetti miei:
Tenerezza, cordoglio; amore e pena;
Quello che mi restò, quel che perdei.

Salomone Fiorentino.

Fantoni. CCXLII. Il rimorso della coscienza.

CCXLI. In morte della sua sposa.

Pur quasi serbi ancora e senso e mente, A lei, che più non m'ode, e muta giace, Talor rivolgo il mio parlar dolente. Ahi sposa, ahi sposa! un vol d'ombra [fugace

Fu il breve trapassar de'tuoi verdi anni, E un vol fu la mia gioja e la mia pace. Mira del tuo fedel gli acerbi affanni; Mira, al tuo dipartir come s'accuora, Vedovo, sconsolato, in negri panni.

Qual resta il fior se una nemica aurora Trattien sul grembo l'umida rugiada, Che il curvo stelo e l'arse foglie irrora;

Tale io restai poichè l'adunca spada Di Morte a me ti tolse, e lunge spinse Te per ignota interminabil strada.

Ma, come il fato in pria nostre alme
[avvinse,

E poi quaggiù provido amor ci unio,
Sicchè due salme in una salma strinse;
Scemo de la metà de l'esser mio,
Or cerco te, come assetata cerva
Ne l'ardente stagion ricerca il rio.
Cosi parlo e vaneggio: e benchè i' ferva
D'un insano desir, tanto è l'inganno,
Che ragion signoreggia, e vuol che serva.

M'apparve in truce aspetto, ed ogni vena Il fier rimorso ad agghiacciar si accinse; Indi armato d'artigli e di catena, Senza pietà mi lacerò, m'avvinse. Quale, oh Dio, mi scoperse orrida scena! In quai tetri color la penna tinse Per linearmi in ogni parte scritto Il giudice, la pena, e il mio delitto!

Volgea la notte:e notte unqua più nera Di quella non vidio. Torbidi, inquieti S'aggiravan fantasmi; e priva ell'era De'suoi momenti placidi e segreti: Pareanmi estinti in la stellata sfera E gli astri erranti, e i lucidi pianeti: Tante ombre e tante noje ivano attorno, Che al Ciel chiedea, per respirare,il giorno. E il dì pur venne: allor su l'universo Fosco vedea caliginoso velo, Sbiadate l'erbe, ed ogni arbusto asperso Di quel color di cui lo tinge il gelo: Pallido, altrove ciascun fior converso, Da me torceva l'aduggiato stelo: Parea sospiro il moto de le fronde, Flebil lamento il mormorar de l'onde,

Forse così, seguito il reo consiglio, L'Eden comparve al genitore antico. Invan spirava odor la rosa e il giglio, E il lusingava invano il rezzo amico;

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