E, com'or noi facemo 1, essi cantavano. I vecchi, quando al fin più non uscivano Per boschi,o si prendean la morte intrepiO con erbe incantate ingiovani vano. [di, Non foschi e freddi, ma lucenti e tepidi Erano i giorni e non s'udivan ulule, Ma vaghi uccelli, dilettosi e lepidi. La terra, che dal fondo par che pulule 3 Atri aconiti, e piante aspre e mortifere, Ond'oggi avvien che ciascun pianga ed uluEra allor piena d'erbe salutifere, [le4; E di balsamo, e 'neenso lacrimevole, Di mirre preziose ed odorifere. Ciascun mangiava a l'ombra dilettevole Or latte e ghiande, ed or ginepri e morole. O dolce tempo, o vita sollazzevole ! Pensando a l'opre lor, non solo onorole Con le parole; ancor con la memoria Chinato a terra come sante adorole. Ov'è il valore? ov'è l'antica gloria? U'son or quelle genti (oime son cenere!) De le quai grida ogni famosa istoria? I lieti amanti e le fanciulle tenere Givan di prato in prato rammentandosi Il foco e l'arco del figliuol di Venere. Non era gelosia ; ma sollazzandosi Movean i dolci balli a suon di cetera, E 'n guisa di colombi ognor baciandosi. O pura fede, o dolce usanza vetera! Or conosco ben io che 'l mondo instabile Tanto peggiora più, quanto più invetera. Talche ogni volta,o dolce amico affabile, Ch' io vi ripenso, sento il cor dividere Di piaga avvelenata ed incurabile. Sannazzaro, Arcadia, egloga VI. XI. Una sposa moribonda Parte de l'alma mia, caro consorte, Che vivrai dopo me qualch'anno ancora Se vuoi che in pace ed in quiete io mora, ; 1 Primasceglier convienti a l'api un sito Ove non possa penetrare il vento: Perche 'l soffiar del vento a quelle vieta Portar da la pastura a l'umil case Il dolce cibo e la celeste manna. Ne buono è dove pecorella pasca, O l'importuna capra e' suoi figliuoli, Ghiotti di fiori e di novelle erbette; Ne dove vacche o buoi, che col piè grave Frangano le sorgenti erbe del prato, O scuotan la rugiada da le frondi. Ancora stian lontane a questo loco Lucerte apriche, e le squamose bisce : E non t'inganni il verde e bel ramarro, Ch'ammira fiso la bellezza umana; Ne rondinella che con destri giri, Di sangue ancora il petto e la man tinta, Preda col becco suo vorace e ingordo L'api, che son di cera e di mel carche, Per nutricare i suoi loquaci nidi: Troppo dolce esca di sì crudi figli. Ma surgano ivi appresso chiari fonti, O pelaghetti con erboso fondo; O corran chiari e tremolanti rivi, Nutrendo gigli e violette e rose; Che 'n premio de l'umor, ricevon ombra Da i fiori; e i fior cadendo infioran anco Grati la madre, e'l liquido ruscello. [ma, * Poscia adombri il ridutto una gran palO l'ulivoselvaggio: acciocchè quando L'aere s'allegra, e nel giovinett'anno Si ricomincia il mondo a vestir d'erba, I re novelli e la novella prole S'assidan sopra le vicine frondi ; E quando, usciti del regale albergo, Vanno volando allegri per le piagge, Quasi gl' inviti il fresco ombroso seggio 1 E i. A fuggir il calor del sole ardente: Se poi nel mezzo stagna un'acqua pigra, XIII. Invito a Galatea. Ben mi raccorda quando lungo il rio Avrò. 1 Si riveston di foglie a primavera Ma i giorni oscuri diverrian sereni, Che invidia Orfeo e Lino ancor n'ariano I Corrimi adunque in braccio, o Galatea; Di bianca lana i miei greggi coperti Un canestro di pomi t'ho già colto; Si spogliano i serpenti la vecchiezza', 'Avriano, Avrebbero. 2 Avraiti. Chè col tempo, ma in van, ti pentirai Oime, ch' io vedo pur mover le frondi, Castiglione. XIV. Giuliano de' Medici, duca di Nemours, defonto, alla moglie Filiberta di Savoja. Anima eletta, che nel mondo folle Reggi, che ben l'alto disegno adempi E facile a piegar ne li vizii empi, Ove si vien per grazia e per virtute, Ti manda; il tuo fedel, caro consorte, Se ad ogni affetto rio non fosse tolto Salva da le mondane aspre fortune, L'hai da fruir meco in perpetua gioja, LEOPARDI, Crestomazia. II. Anime altra non è che meglio torni. Di me t'incresca; ma non altrimente Che, s'io vivessi ancor, t' incresceria D'una partita mia, Che tu avessi a seguir fra pochi giorni. De la sua rota, in che i mortali aggira; Non abbia forza il ritrovar di spine Ombre soavi d'alberi e di poggi, De le verdi, vermiglie e bianche e azzurre A crudel morte con insidiosi Fatta di giuochi e d'ogni lieta vista, Si che fermar ti veggia pigra e trista. Di falsi gaudii, o quattro o sei, più prezza, Che l'eterna allegrezza, Vera e stabil, che mai speranza o tema 1 Devi. 2 Filiberta, dopo la morte del marito, si era ridotta in un monastero. 3 Declini. 2 O altro affetto non accresce o scema! So con quant'odio e quant'orror ti scosti: Tuo passo; e che tu sappia quanto costi Si riverir non ti faranno, come E fede e castità: tanto più caro, Che d'esser de'sublimi, incliti e santi Feroce Gallia, hanno tant'anni e tanti 2 E da l'estremo Idaspe al mar di Calpe. De'gigli d'oro, e al santo regno, assunto Che fa l'Asia e l'antica Babilonia tremar, sempre che rugge; E forse Arabia e tutto Egitto fugge Del chiaro Sol di tue virtù pareggi, E perchè. 2 Tali. Chiome d'argento fine, irte, ed attorte Senz'arte intorno ad un bel viso d'oro; Fronte crespa, u'' mirando, io mi scoloro, Dove spunta i suoi strali Amore e Morte; Occhi di perle vaghi, luci torte Da ogni obbietto disuguale a loro; Ciglia di neve; e quelle ond'io m'accoro Dita e man dolcemente grosse e corte; Labbra di latte; bocca ampia, celeste; Denti d'ebano, rari e pellegrini; Inaudita, ineffabile armonia; Costumi alteri e gravi; a voi, divini Servi d'Amor, palese fo che queste Son le bellezze de la donna mia. Berni. XVI. Il Berni racconta gli accidenti della sua vita, e descrive la sua natura. Qui era, non so come, capitato E tolse moglie, e s'accasò in Bibbiena, [que, Morto lui, stette con un suo nipote: 1 Ove. 2 Masetto da Lamporecchio, nel Decamero 31 papa Leone decimo fratello di Giuliane, ne del Boccaccio, D'un che serviva al Vicario di Dio Credeva il pover uom di saper fare Con tutto ciò viveva allegramente, Ne mai troppo pensoso o tristo stava. Era assai ben voluto da la gente; Di quei signor di corte ognun l'amava: Ch'era faceto, e capitoli a mente D'orinali e d'anguille recitava, E certe altre sue magre poesie, Ch'eran tenute strane bizzarrie. Era forte collerico e sdegnoso, De la lingua e del cor libero e sciolto; Non era avaro, non ambizioso; Era fedele ed amorevol molto, De gli amici amator miracoloso: Così anche chi in odio aveva tolto Odiava a guerra finita e mortale: Ma più pronto era amar' ch'a voler male. Di persona era grande, magro e schietto: Lunghe e sottil le gambe forte aveva: . E'l naso grande; e 'l viso largo; e stretto Lo spazio che le ciglia divideva: Concavo l'occhio aveva, azzurro e netto: La barba folta quasi il nascondeva, Se l'avesse portata; ma il padrone Aveva con le barbe aspra quistione. Nessun di servitù già mai si dolse, Ne più ne fu nimico di costui. E pure a consumarlo il diavol tolse: Sempre il tenne fortuna in forza altrui. Sempre che comandargli il padron volse, Di non servirlo venne voglia a lui: Voleva far da sè, non comandato; Com'un gli comandava, era spacciato. Cacce, musiche, feste, suoni e balli, Giochi, nessuna sorte di piacere Troppo il movea. Piacevangli i cavalli Assai: ma si pasceva del vedere; Che modo non avea da comperalli 3. Unde il suo sommo bene era in jacere Nudo, lungo, disteso; e 'l suo diletto Era non far mai nulla, e starsi in letto. 2 Volle. Ad amare. 3 Comperarli. Tanto era da lo scriver stracco e morto; Si i membri e i sensi aveva strutti ed arsi; Che non sapeva in più tranquillo porto Da così tempestoso mar ritrarsi, Nè più conforme antidoto e conforto Dar a tante fatiche, che lo starsi, Che starsi in letto, e non far mai niente, E così il corpo rifare e la mente. Quella diceva ch' era la più bella Arte, il più bel mestier che si facesse: Il letto er'una veste, una gonnella Ad ognun buona che se la mettesse: Poteva un larga e stretta e lunga avella', Crespa e schietta, secondo che volesse: Quando un la sera si spogliava i panni, Lasciava in sul forzier tutti gli affanni. Berni, Orlando innamorato, canto LXVII. XVII. Contro gl' ipocriti. Questo mostrar di non si contentare De la vita comunemeute buona, E voler far tra gli altri il singolare, Subito scandalezza la persona: E fa tutto il liuto discordare Quando una corda con l'altre non suona. E di questo strafar convien che sia Cagione o fraude o superbia o pazzia. La santità comincia da le mani, Non da la bocca o dal viso o da' panni. Siate benigni, mansueti, umani, Pietosi a l'altrui colpe, a gli altrui danni. Non hanno a far le maschere i Cristiani: Chi non mostra quel ch'è, va con inganni, E non entra per l'uscio ne l'ovile, Anzi è un ladro, un traditor sottile. Questi son quella sorta di ribaldi Levate via la superbia, e la sete |