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Fan di lagrime intoppo e di lamenti. Ma tenerezza e carità di moglie Viuta è da Furia di maggior possanza, Che da l'amplesso conjugal gli scioglie.

Poichè fera menando oscena danza Scorrean di porta in porta affaccendati Fantasmi di terribile sembianza;

De' Druïdi i fantasmi insanguinati,
Che fieramente da la sete antiqua
Di vittime nefande stimolati,

A sbramarsi venian la vista obliqua Del maggior de' misfatti, onde mai possa La loro superbir semenza iniqua.

Erano in veste d'uman sangue rossa, Sangue e tabe grondava ogni capello, E ne cadea una pioggia ad ogni scossa. Squassan altri un tizzone,altri un flagello Di chelidri e di verdi anfesibene, Altri un nappo di tosco, altri un coltello. E con quei serpi percotean le schiene E le fronti mortali, e fean, toccando Con gli arsi tizzi, ribollir le vene.

Allora de le case infuriando Uscían le genti, e si fuggía smarrita Da tutti i petti la pietade in bando. Allor trema la terra oppressa e trita Da cavalli, da rote e da pedoni; Ene mormora l'aria sbigottita;

Simile al mugghio di remoti tuoni, Al notturno del mar roco lamento, Al profondo ruggir de gli aquiloni.

Che cor, misero Ugon, che sentimento Fu allora il tuo, che di morte vedesti L'atro vessillo volteggiarsi al vento?

E il terribile palco erto scorgesti, Ed alzata la scure, e al gran misfatto Salir bramosi i manigoldi e presti; Eil tuo buon rege, il re più grande, in atto D'agno innocente fra digiuni lupi, Sul letto de' ladroni a morir tratto;

E fra i silenzii de le turbe cupi Lui sereno avanzar la fronte e il passo, In vista che spetrar potea le rupi. [so, Spetrar lerupi,esciorre in pianto un sasNon le galliche tigri. Ahi! dove spinto L'avete, o crude? Ed ei v'amava? Oh lasso! Ma piangea il sole di gramaglia cinto, E stava in forse di voltar le rote Da questa Tebe che l'antica ha vinto. Piangevan l'aure per terrore immote, E l'anime del cielo cittadine Scendean col pianto anch'esse in su le gote;

L'anime che costanti e pellegrine Per la causa di Cristo e di Luigi

Lassù per sangue diventar divine.

Il duol di Francia intanto e igrau litigi Mirava Iddio da l'alto, e giusto e buono Pesava il fato de la rea Parigi.

Sedea sublime sul tremendo trono, E su le lance d'or quinci ponea L'alta sua pazienza e il suo perdono;

De l'iniqua città quindi mettea Le scelleranze tutte; e nullo ancora Piegar de' due gran carchi si vedea.

Quando il mortal giudizio e l'ultim'ora De l'augusto Infelice alfin v'impose L' Onnipotente: cigolando allora

Traboccâr le bilance ponderose; Grave in terra cozzò la mortal sorte, Balzò l'altra a le sfere, e si nascose.

In quel punto al feral palco di morte Giunge Luigi. Ei v'alza il guardo, e viene Fermo a la scala, imperturbato e forte. Già vi monta, già il sommo egli ne tiene; E va si pien di maestà l'aspetto, Ch'a i manigoldi fa tremar le vene.

E già battea furtiva ad ogni petto La pietà rinascente, ed anco parve Che del furor sviato avria l' effetto.

Ma fier portento in questo mezzo apparve: Sul patibolo infame a l' improvviso Asceser quattro smisurate larve. [triso,

Stringe ognuna un pugnal di sangue inA la strozza un capestro le molesta, Torvo il cipiglio, dispietato il viso;

E scomposte le chiome in su la testa, Come campo di biada già matura, Nel cui mezzo passata è la tempesta.

E su la fronte arroncigliata e scura Scritto in sangue ciascuna il nome avea, Nome terror de' regi e di natura.

Damiens l'uno, Ankastrom l'altro dicea, E l'altro Ravagliacco; ed il suo scritto Il quarto co la man si nascondea.

Da queste Dire avvinto il derelitto
Sire Capeto dal maggior de' troni
A la mannaja già facea tragitto.

E a quel Giusto simil che fra'ladroni Perdonando spirava, ed esclamando: Padre, Padre, perchè tu m' abbandoni? Per chi a morte lo tragge anch'ei preganIl popol mio, dicea, che si delira, [do, E il mio spirto, Signor, ti raccomando.

In questo dir con impeto e con ira Un de gli spettri sospingendo il venne Sotto il taglio fatal; l'altro ve 'l tira.

Per le sacrate auguste chiome il tenne La terza Furia, e la sottil rudente

Quella quarta recise a la bipenne.

A la caduta de l'acciar tagliente S'apri tonando il cielo, e la vermiglia Terra si scosse, e il mare orribilmente. Tremonne il mondo, e per la maraviglia E pel terror dal freddo al caldo polo Palpitando i potenti alzar le ciglia.

Tremò Levante ed Occidente. Il solo
Barbaro Celta in suo furor più saldo
Del ciel derise e de la terra il duolo.

E di sua libertà spietato e baldo
Tuffò le stolte insegne e le man ladre
Nel sangue del suo re fumante e caldo.
Vincenzo Monti, Basvilliana, canto II.
CCLXXIV. Ultimi momenti
di Luigi XVI.

Di vita la richiami, infin che scioglie
L'ultimo volo, e sfavillando muore:

Tal quest'alma gentil, che Morte or to-
A l'italica speme, e su lo stelo [glie
Vital, che verde ancor fioria, la coglie ;
Dopo molto affannarsi entro il suo velo,
E anelar stanco su l'uscita, al fine
L'aliaperse, e raggiando alzossi al cielo.

Le virtù, che diverse e pellegrine
La vestir mentre visse, il mesto letto
Cingean bagnate i rai, scomposte il crine.
V. Monti, Cantica in morte
di L. Mascheroni, canto I.

CCLXXVI. Il Mattino.

Allorchè il sole (io lo rammento spesso)
D'Oriente sul balzo compariva
A risvegliar dal suo silenzio il mondo,
E a gli oggetti rendea più vivi e freschi
I color che rapiti avea la sera,
Da l' umile mio letto anch' io sorgendo,

Uom d'affannosa, ma regal sembianza,
A cui rapita la corona e il regno,
Sol del petto rimasta è la costanza,
Venía di morte a vil supplizio indegno
Chiamato, ahi lasso! e vel traevan quelli A salutarlo m'affrettava, e fiso
Che fur de l'amor suo poc' anzi il segno.
Quinci e quindi accorrean sciolte i capelli
Consorte e suora ad abbracciarlo,e gli occhi
Ognuna avea conversi in due ruscelli.
Stretto al seno egli tiensi in su i ginocchi
Un dolente fanciullo, e par che tutto
Ne gli amplessi e ne'baci il cor trabocchi;

E si gli dica: Da' miei mali istrutto
Apprendi, o figlio, la virtude, e cogli
Di mie fortune dolorose il frutto.

Stabile e santo nel tuo cor germogli
Il timor del tuo Dio, nè mai d'un trono
Mai lo stolto desir l'alma t'invogli.

E, se l'ira del ciel si tristo dono
Faratti, il padre ti rammenta, o figlio;
Ma serba a chi l' uccide il tuo perdono.
Questi accenti parea, questo consiglio
Profferir l'infelice; e chete intanto
Gli discorrean le lagrime dal ciglio.
Piangean tutti d'intorno, e da l'un canto
Le fiere guardie impietosite anch'esse
Sciogliean, poggiate su le lance, il pianto.
Vincenzo Monti, Basvilliana, canto IV.

CCLXXV. Morte di Lorenzo
Mascheroni.

Come face al mancar de l'alimento
Lambe gli aridi stami, e di pallore
Veste il suo lume ognor più scarso e lento;
E guizza irresoluta, e par che amore

Tenea l'occhio a mirar come nascoso
Di là dal colle ancora ei fea da lunge
De gli alti gioghi biondeggiar le cime;
Poi come lenta in giù scorrea la luce
Il dosso imporporando e i fianchi alpestri,
E dilatata a me venía d' incontro,
Che a' piedi l' attendea de la montagna,
Da l' umido suo sen la terra allora
Su le penne de l'aure mattutine
Grata innalzava di profumi un nembo:
E altero di sè stesso, e sorridente
Su i benefizii suoi, l' aureo pianeta
Nel vapor, che odoroso ergeasi in alto,
Gia rinfrescando le divine chiome,
E fra il concento de gli augelli e il plauso
De le create cose egli sublime
Per l'azzurro del ciel spingea le rote.

Allor sul fresco margine d'un rivo
M' adagiava tranquillo in su l'erbetta
Che lunga e folta mi sorgea dintorno
E tutto quasi mi copriva; ed ora
Supino mi giacea, fosche mirando
Pender le selve da l'opposta balza
E fumar le colline, e tutta in faccia
Di sparsi armenti biancheggiar la rupe:
Or rivolto col fianco al ruscelletto
lo mi fermava a riguardar le nubi,
Che tremolando si vedean riflesse
Nel puro trapassar specchio de l'onda:
Poi di gentil spettacolo già sazio,
Tra i cespi, che mi fean corona e letto,

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Si fissava il mio sguardo, e attento e che- Giove a i figli dovea de l'empia Terra.

[to Tutte di ferro esercitato e greve

Il picciol mondo a contemplar poneami,
Che tra gli steli brulica de l'erbe,
E il vago e vario de gl' insetti ammanto,
E l'indole diversa e la natura.
Altri a torma e fuggenti in lunga fila
Vengono e van per via carchi di preda;
Altri sta solitario, altro l' amico
In suo cammino arresta, e con lui sembra
Gran cose conferir: questi d' un fiore
L'ambrosia sugge e la rugiada; e quello
Al suo rival ne disputa l'impero,
E venir tosto a lite, ed azzuffarsi,
E avviticchiati insieme ambo repente
Giù da la foglia sdrucciolar li vedi.
Ne valor manca in quegli angusti petti,
Previdenza, consiglio, odio ed amore.
Quindi alcuni tra lor miti e pietosi
Prestansi aita ne' bisogni assai;
Migliori in ciò de l' uom,che al suo fratello
Fin ne la stessa povertà fa guerra:
Ed altri poscia da vorace istinto
A la strage chiamati ed a gl' inganni,
De la morte d'altrui vivono, e sempre
Del più gagliardo, come avvien tra noi,
O del più scaltro la ragion prevale.
Vincenzo Monti, Sciolti al principe Ghigi.

CCLXXVII. Battaglia de' Titani.

Cosi cantar de l'orbe giovinetto
Gli alti esordii le Muse e l'incremento,
E un insolito errava almo diletto
Sul cor de' Numi a l'immortal concento.
Poi disser come dal profondo petto
La Terra suscito nuovo portento,
Col Ciel marito nequitosa e rea,
Che i suoi figli, crudel, spenti volea.

Quindi i Titani di cor fero ed alto
Con parto ella creò nefando e diro,
Congiurati con Oto ed Efialto
Ad espugnar l'intemerato Empiro.
La gioventù superba al grande assalto
Con grande orgoglio e gran possanza usci-
E fragorosa la terra tremava
[ro,
Sotto i vasti lor passi, e il mar mugghiava.
Ma Piracmon, da l'altra parte, e Bronte,
Co'lor fratelli affumicati e nudi,
Sudor gocciando da l' occhiuta fronte
Per la selva de' petti ispidi e rudi,
Cupamente facean l'eolio monte
Gemere al suon de le vulcanie incudi,
I fulmini temprando, onde far guerra

Son l'orrende saette, ed ogni strale
Tre raggi in sè di grandine riceve,
E tre d'elementar foco immortale,
Tre di rapido vento, e tre ne beve [le.
D'acquosa nube, e larghe in mezzo ha l'a-
Poi di lampi una livida mistura
E di tuoni vi cola e di paura;

E di furie e di fiamme e di fracasso Che tutto introna orribilmente il mondo. Prende il Nume quest' arme o move il pas[ so:

Il ciel s' incurva, e par che manchi al pon

[ do. Sentinne il re Pluton l'alto conquasso E gli occhi alzò smarrito e tremebondo., Chè le volte di bronzo e i ferrei muri A l'impeto stimò poco securi.

Da' fulmini squarciata e tutta in foco Stride la terra per immensa doglia. Rimbombano le valli, e caldo e roco Con fervide procelle il mar gorgoglia. Vincitrice di Giove in ogni loco La vendetta s'aggira; e par che voglia Sotto il carco de' Numi il gran convesso Slegarsi tutto de l'Olimpo oppresso.

E in cielo, e in terra, e tra la terra e [ il cielo Tutto è vampa e ruina e fumo e polve. Fugge smarrita dal signor di Delo La luce, e indietro per terror si volve. Fugge avvolta ogni stella in fosco velo, Ed urtasi ogni sfera e si dissolve: E immoto ne l'orribile frastuono Non riman che del Fato il ferreo trono.

Ma coraggio non perde la terrestre
Stirpe, nè par che troppo le ne caglia.
Di divelte montagne arman le destre,
E fan con rupi e scogli la battaglia.
Odonsi cigolar sotto l'alpestre

Peso le membra, e ognun fatica e scaglia.
Tre volte a l' arduo ciel diero la scossa,
Sovra Pelio imponendo Olimpo ed Ossa.
E tre volte il gran padre fulminando
Spezzò gl' imposti monti e li disperse:
E da le stelle mal tentate in bando
Nel Tartaro cacciò le squadre avverse;
Nove giorni le venne in giù rotando,
E nel decimo al fondo le sommerse:
Orribil fondo d'ogni luce muto,
Che da perpetui venti è combattuto.

E tanto de la terra al centro scende Quanto lunge dal ciel scende la terra.

Di pianto in mezzo una fiumana il fende;
Di ferro intorno una muraglia il serra;
E di ferro son pur le porte orrende
Che Nettuno vi pose in quella guerra.
I Titani là dentro eterna e nera
Mena in volta la pioggia e la bufera.

Ivi Giapeto si rivolve e Ceo,

E l'altra turba che i celesti assalse.
Ivi Gige, ivi Coto e Brïareo,

Cui la forza centimana non valse.
Fuor de l'atra prigion restò Tifeo,
Ch' altramente punirlo a Giove calse:
Su l'ineffabil mostro in giù travolto
Lanciò Sicilia tutta; e non fu molto.
Peloro la diritta, e gli comprime
Pachin la manca, e Lilibeo le piante.
Schiaccia l'immensa fronte Etna sublime,
Di fornaci e d'incudi Etna tonante.
Quindi, come il dolor dal petto esprime,
E mutar tenta il fianco il gran gigante,
Fumo e fiamme dal sen mugghiando erut-

[ ta.

Ne trema il monte e la Trinacria tutta.
Del sacrilego ardir sorti compagna
Encelado a Tifeo la pena e il loco.
Gli altri su la flegrea vasta campagna
Rovesciati esalâr di Giove il foco.
Ond'ivi ancor la valle e la montagna
Mandan fumo, e rumor funesto e roco.
De la divina Creta alcun satolle
Fe del suo sangue le feconde zolle.

E tu pur desti a gli empii sepoltura,
Terribile Vesevo, che la piena
Versi rugghiando di tua lava impura
Vicino ahi troppo a la regal Sirena.
Deh sul giardin d' Italia e di natura
I tuoi torrenti incenditori affrena:
Ti basti, ohimè! l'aver di Pompejano
1 bei colli sepolto e d'Ercolano

Il sacro de le Muse almo concento Del ciel rapiti gli ascoltanti avea. Tacean le dive; e desioso e attento Ogni Nume l'orecchio ancor porgea. Del nettare il ruscello i pie d'argento Fermare anch'esso, per udir, parea, E lungo l'immortal santissim'onda Ne fior l'aure agitavano nè fronda.

Vincenzo Monti, Musogonia.

CCLXXVIII. Notte dopo una battaglia.

Pallido intanto su l' abnobie rupi Il Sol cadendo raccogliea d' intorno

Da le cose i colori, e a la pietosa
Notte del mondo concedea la cura.
Ed ella, del regal suo velo eterno
Spiegando il lembo raccendea ne gli astri
La morta luce, e la spegnea sul volto
De gli stanchi mortali. Era il tuon queto
De' fulmini guerrieri, e ne vagiva
Sol per la valle il fumo atro, confuso
De le nebbie de' boschi e de' torrenti:
Eran quete le selve, eran de l'aure
Queti i sospiri; ma lugubri e cupi
S'udian gemiti e grida in lontananza
Di languenti trafitti, e un calpestio
Di cavalli e di fanti, e sotto il grave
Peso de' bronzi un cigolio di rote,
Che mestizia e terror mettea nel core.
Vincenzo Monti, Bardo della Selva
Nera, canto I.

CCLXXIX. Sul monumento
di Giuseppe Parini'.

I placidi cercai poggi felici,
Che con dolce pendio cingon le liete
De l' Eupili lagune irrigatrici;

E nel vederli mi selamai: Salvete, Piagge dilette al ciel, che al mio Parini Foste cortesi di vostr' ombre quete;

Quando ei fabbro di numeri divini
L'acre bile fe dolce, e la vestia
Di tebani concenti e venosini.

[ de

Parea de' carmi tuoi la melodia Per quell'aure ancor viva, e l'aure e l'onE le selve eran tutte un'armonia. [de

Parean d'intorno i fior, l'erbe, le fronAnimarsi, e iterarmi in suon pietoso: Il cantor nostro ov'è? chi lo nasconde?

Ed ecco in mezzo di recinto ombroso Sculto un sasso funébre che dicea: A I SACRI MANI DI PARIN RIPOSO.

E donna di beltà che dolce ardea (Tese l'orecchio, e fiammeggiando il vate Alzò l'arco del ciglio, e sorridea)

Colle dita venía biancorosate Spargendolo di fiori e di mortella, Di rispetto atteggiata e di pietate.

Bella la guancia in suo pudor; più bella Su la fronte splendea l'alma serena, Come in limpido rio raggio di stella.

'Le parole sono in bocca di Pietro Verri, uno de' quattro Spiriti descritti sul fine del terzo cauto.Pariai è uno degli ascoltanti.

[na,

Poscia che dati i mirti ebbe a man pie- Troppo su l'ale dell' ingegno s'alza. Di lauro, che parea liete fiorisse Tutti, io nol niego, ad un festivo detto Tra le sue man, fe al sasso una catena. Danno in un riso; ma, se bengli adocchi, E un sospir trasse affettuoso, e disse Guizzo del cor, che sulla faccia splende, Pace eterna a l'amico: e te chiamando, Non è quel riso in molti: è storcimento I lumi al cielo si pietosi affisse, Di labbra, come avesse altri l'incauto Che gli occhi anch'io levai,certa aspet- Dente in acerba melagrana impresso. [tando Non per questo io consiglioti che, dove La tua discesa. Ah qual mai cura, o quale Ti venisse su i labbri un motto arguto, Parte d'Olimpo ratteneati, quando Tu sempre il debba rimandare in petto; Di que' bei labbri il prego erse a te l'ale? Consiglioti lasciare al negro il volto Se questa indarno l'udir tuo per uote, E i panni variopinto Orobio mimo Qual altra ascolterai voce mortale? L'arte sua propria. Chi mattina e sera Questa d'esercitar mai non si stanca, Gli applaude, e a un tempo lo dispregia [il mondo.

Riverente in disparte a le devote Ceremonie assistea, colle tranquille Luci nel volto de la donna immote,

Uom d'alta cortesia, che il ciel sortille Più che consorte, amico. Ed ei che vuole Il voler de le care alme pupille,

Ergea d' attico gusto eccelsa mole,
Sovra cui d'ogni nube immaculato
Raggiava immemor del suo corso il sole.

E Amalia la dicea dal nome amato
Di costei,che del loco era la Diva,
E più del cor, che al suo congiunse il fato.
Al pio rito funébre, a quella viva
Gara d'amor mirando, già di mente
Del mio gir oltre la cagion m' usciva;
Moșsi alfine, e quei colli, ove si sente
Tutto il bel di natura, abbandonai,
L'orma segnando al cor contrarie e lente.
Vincenzo Monti, Frammento del canto IV

inedito della Mascheronia na.

24. Avvertimenti per la

conversazione.

Garzon bennato, che alle frondi e ai fio-
Onde t'ornò benignamente il Cielo, [ri,
Già mostri in te si rispondenti i frutti,
M'accorgo io ben che Damo, il qual nei
[crocchi

Di buoni sali il favellar condisce,
T'entra molto nell'alma. Ah! non t'abba-
Prode garzone, un periglioso dono, [gli,
Ch'e di quel che a te pare, assai men bello.
Credi forse che grato a tutti Damo
Riesca? In error sei. Difficilmente
Sogliono perdonar gli uomini, in giro
Sedenti e confrontati, a chi tra loro

:

Taccio che spesso una faceta lingua,
Mentre alletta il vicin, l'assente offende:
Poichè tra quei, che cotidiana impresa
Dell'arguzia si fanno, a corvo bianco
Colui somiglia, che giammai non arma
Di satirica punta i suoi concetti.
Sen guarderà da prima indi la lode
Si a poco a poco lo imbrïaca e infiamma,
Che, quando il caso di un leggiadro colpo
Gli si presenta, non va salvo uom vivo.
Come, se l'arco in man teso sta sempre,
Non partirà l'ambizioso strale ?
Quindi il più fido ancora e vecchio amico,
Che altrove siede de' suoi rischi ignaro,
Riceve l' invisibile ferita;

E forse in quel, che con soave affetto
Parla di chi ferillo, e dall' accusa
Che di labbro maledico gli appicca
Non a torto qualcun, forse il difende,
Oil raccomanda caldamente a un grande.
Vuoi piacere ad altrui? Moderne o anti-
Storie, accidenti curiosi, pronte [che
Risposte, intese per ventura o lette,
Sempre che il destro n'hai, racconta breve.
Diletto non darà d' invidia misto
Si fatta prova non superba, in cui,
Più che l'ingegno, la memoria vale.
Giocondo a chi ode il raccontar pur torna,
Perchè, ciò che in un loco udir gli accasca,
Potrà recar senza gran sforzo altrove;
Ma recar non potrà detto che frizzi;
Chè, quasi di licor, che dall'un vaso
Passi nell'altro, dell' arguto motto,
Ove dall' una varchi all' altra bocca,
Il volatile spirto esala e sfuma.
Vuoi piacer ad altrui? Scolta mai sempre
Con viso attento chi favella; e, quando
Giunge del favellare a te la volta,

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