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All' aspra marra il fianco,
Pensano muti il lor natio ricetto,
Pensano i vani lai

De' cari figli, al cui soave aspetto
Non potran gli occhi consolar più mai.
Dispietato flagello li respinge
Al dure affanno e tinge

L'arso terren dell'infelice sangue.
Da ria febbre percosso

Altri senza conforto a terra langue,
L'oscura pelle maculata in rosso.
Consunto d'ogni lena altri in tenace
Souno profondo giace,

Donde più non sarà ch' arte il ridesti;
Vien di tue degne voglie,

Vieni, Europa, a veder gli effetti onesti,
E qual di tua virtù frutto si coglie.

Di cari affetti e d'amorosi amplessi
Nulla gioja è per essi;

Mesta sorge l'aurora, alcun la sera
Dolce senso non porta,

Non ride il ciel, non torna primavera,
Ogni letizia di natura è morta.

Ne' tristi petti a poco a poco spento
L'alto uman sentimento;

Spento è quel germe che talvolta in rude
Abitator di selve

Per sè stesso è possente a dar virtude;
Uomini furo ed or son fatti belve.
Tuona, o sdegno di Dio, vindice telo,
Di natura e del cielo

Fulmina l'onta, i rei tiranni prostra,
Struggi le scellerate

Catene; e voi, della grand'ombra vostra,
Voi schermo a tanta indignità, tremate.
Ove drizza le vele ed il governo
Quella nave che a scherno [ vampa?
Ha l'Atlante che mugge, e il ciel che av-
Ahi ch'ella appressa i lidi

Dell' adusta Guinea. Célati, scampa,
O tu che incauto al margine ti fidi.
Come l'altiveggente aquila piomba
Ove annidò colomba,

Così l'empio naviglio a quella riva:
Un vil pezzo d'argento
Nuova turba fa misera e captiva!
Giá nave e grida se ne porta il vento.

G. Marchetti, Poesie.

Che vivo e morto riposar qui volle,
Tu che vivo il vedesti

(Quanto t'invidio!) e di bei lauri cinto
Trar sua vecchiezza a lenti passi e gravi
Per queste ombre soavi,

Quando del prisco italico valore
Pensier gravosi e mesti

Qui portava nel volto, ancor dipinto
De la dolcezza che vi pose Amore;
Di', qual parte di quest'ombrosa chiostra
Copre l'avanzo de la gloria nostra ?

Ecco, io ti veggio, o solo

E più che gemma prezïoso sasso!
Fortunata quest'aura e questo suolo
A cui rivolge il passo

Cupidamente ogni anima bennata
Che qui gode inchinarsi e star pensosa ;
E ogni anima amorosa

Che sospir più soavi unqua non spera:
lo veggo Amor che lasso

Si volge a l' urna dolorosa e guata;
La sacra Poesia, cinta di nera
Benda, con mano a' tristi occhi fa velo:
Credo la guardi con pietade il cielo.
E Amor così le dice :

Quivi seder con lagrime e con lutto
A me veracemente, a me s'addice.
Vedi a che m'han ridutto
Diversi tempi e tralignate genti,
Ch' io porto di lascivia abito e nome;
E ben sa 'l mondo come

La più gentil fra le gentili cose
Questi mi fece, e tutto

Pudico innanzi a giovinette menti,
Col suo sì dolce lamentar, mi pose:
In lui, sommo intelletto e puro core,
I divini pensier spirava Amore.
Ed ella a lui : Ben parmi
Che più a me si convegna
il van disio
Qui disfogare e piangere e lagnarmi ;
Amor, tu'l sai, com' io

Presi l'alme più schive e più selvagge
Di mia beltate allor ch'ei mi die veste
Eletta e si celeste

Dolcezza che sonò per lunga etade;
Or donna vil che il mio

Nome si toglie, e i nuovi ingegni tragge
Dietro sua vanità, che par beltade,
Vaga di strani fregi uscì del fango:

48. Alla tomba del Petrarca in Arquà. Ella gode onorata, ed io qui piango.

Verde e solingo colle

Ch' al mio vate gentil tanto piacesti

LEOPARDI, Crestomazia. II.

O cener benedetto,

Or cener muto che una pietra guarda,
E già stanza d'altissimo intelletto ;

15

Ben cred' io che ancor arda,
Volta quaggiù, la tua santissim' ombra
Di quell'amor magnanimo e cortese
Che ben d'altro l'accese

Che d'occhi rilucenti e di crin biondo.
O sol, ch'ogni più tarda

Reliquia hai vinto di barbaric' ombra
E adorni ancor di gentilezza il mondo,
Or chi ti cela? or che saria mestiero
Di te che apristi ai più superbi il vero.

Canzon, sovra quest' urna
Poni un serto di lauro ed un di mirto;
E la querela affettuosa e il canto
Leva umilmente a quel divino spirto,
A quel sovrano italico decoro,
E lui ringrazia: intanto

Io bacio il suolo, e questa tomba adoro.
G. Marchetti, Poesic.

49. La fuga e la sorpresa.
Del claustro nel solingo orto s'apria
Dagli sterpi impedita e dalle spine
Una vetusta sotterranea via
Che del Circo adduceva alle ruine;
Quinci ei medesmo incontro le verria,
E lei vestita d'armi e ascoso il crine,
Scortar farebbe da un fidato messo,
Col qual l'avria di pochi di precesso.

Ecco la notte della speme arriva
Agli amanti propizia, oltre il costume
Di densa nebbia intenebrata, e priva
Sotto ciel procelloso d'ogni lume:
Già la fanciulla tacita e furtiva
Abbandonò le travagliate piume:
Già si volge evitando ogni fragore
Verso le scale giù pel corridore.

A se dinanzi nullo obbietto vede,
E, come i ciechi, vien per l'aria oscura
Movendo piena di sospetto il piede,
E le man brancolanti per le mura:
Fra un duplice di celle ordin procede
Lieve lieve, tremando di paura
Che alcuna delle suore non si desti
Al fievol suon de'passi e delle vesti. [sa,
Se a una porta la man tentando appres-
La tragge indietro, ed oltrepassa incerta:
Spesso tende l'orecchio, e l'andar cessa,
Che ad ogni moto parle esser scoverta;
Ma giunta ove s' alloggia la badessa
S'accorge al tocco che l'imposta è aperta,
E poco stante ode il romor d' un piede,
Onde com'ella è ancor desta s'avvede.
Fu per cader dallo spavento in terra.

Tutta l'invade un gelato sudore;
E nelle fauci un brivido le serra
Il respiro ed i palpiti nel core:-'
Più s' affrettando si confonde ed erra
Smarrita a lungo entro quel cupo orrore;
Riscontra alfin per caso sotto al passo
Le scale e vien precipitosa al basso.

Varca la corte e i portici, e discende
Per un ándito ignoto barcollante
Fino all' orto e alla cava ove l' attende
Fra tema e speme il combattuto amante;
Il qual con una man tosto la prende,
E tentando con l'altra a sè davante
Con lei si mette per l'oscuro calle
Sempre temendo aver gente alle spalle.

Quanto più ponno accelerando i passi
Eran già a mezzo di quel fosco loco,
Quando lontan lontan visibil fassi
L'incerto tremolar d' un picciol foco,
Ed odono un fragor sordo che vassi
Approssimando sempre a poco a poco,
E raffiguran poi più da vicino
Molti armati venir per quel cammino.
Indietro si rivoltan spaventati
Tornando su la strada già fornita ;
Ma non si tosto veggonsi arrivati
Al pertugio che s' apre in sull' uscita,
Ch'ivi pur trovan numerosi armati,
Onde la fuga vien loro impedita:
Mettono questi un grido, e di lontano
Risponde il primo stuol dal sotterrano.

Rizzardo, sguaïnando allor la spada,
Dice all'amata che al suo fianco stia,
E a correr dassi per l'incerta strada
Verso lo stuol che addosso gli venía:
Scontra fra i primi della ria masnada
Un che gli altri scorgea per quella via ;
La man che il lume sofferia gli tronca,
E torna buja a un tratto la spelonca.

Nella confusion che lo seconda
Rotando ei vien con una man l'acciaro,
E con l'altra si trae dietro Ildegonda
Del suo petto facendole riparo:
Quai diersi in fuga, quai dalla profonda
Oscurità difesi s'appiattaro:
Molti a que' colpi orribili, improvvisi
Cadean feriti d'ogni parte o uccisi.

Suonan le basse sotterranee volte
D' urla lugubri e strida di terrore
Delle genti che vanno in fuga sciolte,
Di chi grida al soccorso e di chi more;
Le varie truppe de'fuggenti, stolte,
Fra lor si fiedon per funesto errore;
A cerchio par gira Rizzardo il brando,

E in silenzio si vien sempre avanzando.
E già un barlume gli apparia dal fesso
Pel qual la strada al Circo adito dava;
Già ver quelle affrettandosi era presso
Al termin giunto dell'orrenda cava,
Quand'eccogli alle spalle un branco spesso
Di nova gente che lo seguitava
Con faci accese ed armi d'ogni sorte,
Gridando e minacciandol della morte.

Trascinandosi dietro la mal viva
Slanciasi fuor di quel pertugio in fretta,
Ma dalla prima torma fuggitiva
Quivi accolta la fuga gli è intercetta;
La nuova schiera intanto ecco che arriva;
Già l'infelice coppia in mezzo è stretta :
Non per questo l' indomito s'arrende,
Ma disperatamente si difende.

Con spessi colpi la calca dirada, E solo a tanti assalitor pur basta, E s'apre sui cadaveri una strada Che nessun de' nemici gli contrasta: Ma Ildegonda fra quegli avvien che cada, La qual ferita indietro era rimasta, Senza che il giovin se ne fosse accorto Tutto nel caldo della pugna assorto.

Tai dalla fiera mischia ei si districa, E a salvamento giungere potea; Ma poi si volge, e vede che l'amica Fuor del rischio seguito non l' avea ; Sente i gridi di lei, che s'affatica D'uscir di man di quella turba rea; E se stolto nomando, un' altra volta Slanciasi ardito in mezzo della folta. E molti pur nel nuovo scontro alterra, E fa di suo valor miranda prova, Ma troppo disuguale era la guerra, Ne l'esser forte a lungo anco gli giova, Che d'ogni intorno sempre più lo serra Armata calca succedente e nova; Sicchè spossato e in molte parti offeso, Dopo lungo contrasto alfin fu preso.

Grossi, Ildegonda, parte II.

50. Morte d'Ildegonda.

Ma poscia che rinvenne dal celeste Rapimento a che s'era abbandonata, Lagrimose inchinò le luci meste In lui che a tanta altezza l'ha levata:Ed-Ah! disse, potrò la mortal veste Spogliar, dal padre mio sendo esecrata? Morir portando in fronte ancor scolpita La sua maledizion nell' altra vita?

Che direbbe la santa madre mia

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Allor che in cielo incontro mi venisse,¿l Vedendo che la figlia unica siap se Morta ribelle al padre come visse ?up it! Ella che sempre sofferente e piaid of Stette sommessa a quanto ei le prescrisse, ' E moglie e donna era per se veggente, Mentr' io fanciulla, ed egli è il mio pa[rente.

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Volgiti al padre, il confessor le dice, Ne possibil non è ch'ei non si pieghi, Che alla morente sua figlia infelice, Supplicato, il perdono ultimo neghi: Avvalorati fian dalla vittrice Parola del Signor per me i tuoi preghi. Le membra inferme di vigor già prive Dal letto a stento ella solleva e scrive: - «Padre: ricolma è la misura orrenda « Dell'ira un di sul mio capo imprecata. «Sapete voi, sapete qual tremenda

Prova sostenne questa sventurata? « Deh! un'anima paterna non l'intenda; Troppo, ah! troppo ne fora esulcerata. « Solo il cielo lo sappia, e il dolor mio « Gradito salga in olocausto a Dio. —

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«E del giudicio estremo che m'aspetta. Perdonatemi, o padre, e benedite « L'afflitta vostra figlia moribonda; « Deh per l'amor di Dio, deh non patite «Per pietà della povera Ildegonda, « Che v'amò tanto in questa vita, e mite « Vi pregherà il Signor nella seconda, « Deh non patite che sotterra io scenda, « Nella paterna vostra ira tremenda. ·

Finito che ebbe, alzata lentamente La faccia, vista fu che lagrimava: Prese il foglio, e baciollo con la mente Rivolta al genitor cui lo mandava; Quindi piegato, e chiuso finalmente, Con un sospiro al confessor lo dava, Che lo riceve impietosito, e vola Fuor della stanza, nè può dir parola,

Un lieve cenno allor fe con la testa, Idelben richiamando presso al letto, E tutto alla pietosa manifesta Che di Rizzardo il confessor le ha detto, E come a desïar più non le resta

Che la morte, onde torni al suo diletto,

E ch'ella ben la invocheria di core
Se impetrasse il perdon dal genitore.
Poi le dice:-Ecco affrettasi il momento
Che darà fine a questa lunga guerra :
Già nelle membra travagliate sento
Una voce che chiamami sotterra:
Forse mi cercherai domani, e spento
Quel raggio in me che tanto amasti in
Mi troverai, e non avrai presente [terra,
Fuor che un freddo cadavere indolente;

E tu, sorella, tu il cadaver mio
Toccherai sola, tanto imploro, o cara;
Tu lo componi in atto umile e pio
Con le tue man sulla funerea bara;
E orando sopra lui prega da Dio
La pace che a'suoi giusti egli prepara.
L'altra a risponder si movea, ma intanto
Pietà la vinse e ruppe in un gran pianto.
Non pianger, proseguia la rassegnata,
Non pianger me, che alfin arrivo in porto:
Che fare'io deserta e travagliata
In tanto mare, senza alcun conforto,
Or che tolta mi fu la madre amata,
Che il mio Rizzardo, il mio Rizzardo, è
[ morto?
A tutti in odio, fuor che il pianto, in
[ questa
Misera valle, dimmi, or che mi resta?
E, in così dir, l'amica accarezzando,
Le asciuga gli occhi e bacia in fronte
Ispesso.
E Mel concedi quel che ti domando?
Lo farai? dunque lo prometti adesso?
Cosi insistente supplicava; e quando [so,
Quella il capo inchinando ebbel promes-

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Mercè te n'abbia il ciel, sorella mia: Oh di che amor mi amasti ! e prose[guia: Mi vestirai di quella veste bianca Che mi trapunse la mia madre invano, Nei tristi giorni quando afflitta e stanca L'aspettato piagnea sposo lontano: Il mio rosario ponmi nella manca, Il crocifisso nella destra mano, E di quel nastro annodami le chiome Su che intrecciato il mio sta col tuo no[me.

Se fuor verrò portata dal convento, Siccome prego e supplico che sia, Mi porran nell'antico monumento Della famiglia con la madre mia: Che se dato non m'è tanto contento, Mi seppelliscan qui presso la zia Nella chiesa de' morti sotto al sasso

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Meste squillan nel bujo le campane: Un basso mormorar di molte genti, Che di lontan procedon lente e piane, Avvicinarsi a poco a poco senti; Il mistico recando augusto pane Fra lo splendor de' sacri ceri ardenti; Ecco apparir devotamente il santo Ministro, e stargli le sorelle accanto.

La povera celletta d'improvviso Rifulger parve d'un celeste raggio; Una soavità di paradiso Confortò la morente al gran viaggio, E fu veduta sfavillar d'un riso` Di carità, di speme e di coraggio Quando l'Ostia d'amor, le sacre note Proferendo, le porse il sacerdote.

Poichè col Sacramento benedette Egli ebbe alfin le congregate suore, Quelle in due file s'avviàr ristrette, Intonando le laudi del Signore: Nessuna il piè fuor della soglia mette Che non volga uno sguardo di dolore Alla morente, la qual grave e muta Con gli occhi ad una ad una le saluta.

Mentre con santi detti la rincora La voce di quel giusto al gran tragitto, Ecco che giunge rapida una suora Alla badessa e recale uno scritto: Del ver presaga, la morente allora Parve rasserenasse il volto afflitto; La madre incontanente a lei lo porse, Che, ogni vigor raccolto, alquanto sorse;

E baciò quello scritto e al cor lo strinChe scosso le balzò sotto la mano; [ se, Poi desiosa a leggerlo s' accinse

Tre volte e quattro,e fu ogni scherzo va-
Che nebuloso al senso le si pinse [no,
Ed ondulante su mal fermo piano;
Sicchè forzata finalmente il cesse
Al confessor, che lagrimando lesse:

« Amata figlia, il veggio, è troppo tardo

È vano in tutto il pentimento mio:

« Pur so che m' ami, e l' ultimo tuo [ sguardo

«Non sdegnerà lo scritto che t'invio.
Deh perdonami,e prega il tuo Rizzardo
«Che non chiami vendetta innanzi a Dio.
« Pensa che il tuo fratello è mio nemico,
« Ch'ei m'ha tradito, e ch'io ti benedico.
In atto di pietà la moribonda
Levò le luci al ciel senza far motto:
Quindi alla gioja che nel sen le abbonda
Cedendo, die in un piangere dirotto:
Incurvata del letto in sulla sponda,
Seco lei piange la sua fida, e sotto
I rabbassati veli la badessa
Tacitamente lagrimava anch' essa.
Il commosso ministro sulla pia
De' morenti le preci proferendo,
Devotamente ad or ad or la gia
Nel nome di Gesù benedicendo,
Finchè il tocco feral dall' agonia
Fra'l sopor che l'aggrava ella sentendo,
Balzó commossa, girò gli occhi intorno,
E domandò s'era spuntato il giorno.

Le fu risposto esser la notte ancora ;
Ma che indugiar però più lungamente
Non puote ad apparir nel ciel l'aurora,
Chè già svanian le stelle iu oriente.
Tale di riveder la luce allora
Surse desio nel cor della morente
Che fe schiuder le imposte, e fu veduta
Guardar gran tempo il ciel cupida e muta.

Si scosse finalmente, e vista accesa Starle la face benedetta accanto, Le preghiere ascoltando della Chiesa, Che ripeteale quel ministro santo, E la campana funerale intesa, Che di squillar non desisteva intanto, Dolce alzò gli occhi ad Idelbene in viso, Ed Ecco, le dicea con un sorriso,

Ecco l'istante che da lungo agogno.Ma un affanno improvviso qui l'oppresE levarla a sedersi fu bisogno, [se, Che rïaver l'anelito potesse. [ gno

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Oh me contenta! questo non è un soDisse, poichè il vigor glielo concesse, Che il di de'morti rammentava, quando Spirar tranquilla si credea sognando.

E furon queste l'ultime parole: Il capo, a guisa di persona stanca, Lene lene inchinò siccome suole Tenero fior cui nutrimento manca. Le sorge a fronte luminoso il sole, E quella faccia più che neve bianca

Col primo raggio incontra e la riveste D'una luce purissima celeste.

Grossi, Ildegonda, parte IV.

51. Canto di un Trovatore.

Bello al pari d'una rosa Che si schiude a sol di maggio È Folchetto, un giovin paggio Di Raimondo di Tolosa ; Prode in armi, ardito e destro Trovator di lai maestro.

Chi lo vede al di di festa
Su un leardo pomellato
Fulminar per lo steccato
Con la salda lancia in resta,
A san Giorgio lo ragguaglia
Che il dragon vince in battaglia:
Se al tenor di meste note
Sciorre il canto poi l' intende,
Quando il biondo crin gli scende
In anella per le gote,

Tocco il cor di maraviglia
Ad un angiol l'assomiglia.
In sua corte lo desia
Qual signor più in armi vale,
Non è bella provenzale
Che il sospiro ei non ne sia;
Ma il fedel paggio non ama
Che il suo sire, e la sua dama.

D'un baron di Salamanca
Essa è figlia, e Nelda ha nome:
Nero ciglio, nere chiome,
Guancia al par d'avorio bianca;
Non è vergine in Tolosa
Più leggiadra o più sdegnosa.
All'amor del giovinetto
La superba non s' inchina.
<< Sente ancor della fucina >>
Fra sè dice con dispetto:

"

No, si basso il cor non pone
La figliuola d'un barone. »
Piange il paggio e si lamenta
Notte e di sulla mandola;
Di lei canta, di lei sola,
La sua cobla e la sirventa;
La quintana corre a prova,
Lance spezza: e nulla giova.

Ond' ei langue come fiore
In sul cespite appassito:
Smunto il viso, n'è smarrito
Delle fragole il colore;
E si spegne a poco a poco
Ne' cerulei sguardi il foco.

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