Semele indusse allor con nuovi inganni, Che de l'incarco tuo gravida andava ; Ben si conobbe il di come devea 2 Il mondo empier di sè l'altero nome; Quando il gran padre tuo, di lampi e tuoni E di folgor vestito e nubi cinto, Non potendo fallir le sue promesse, Lagrimando di duol tua madre ancise, Che non maturo il parto uscisse fuore Del fulminato ventre. E'l buon parente In sè stesso ti pose, e tenne tanto, Che già il decimo mese aggiunse al fine. Così due volte nato, a la sorella
Ti pose in man de l'infelice madre: Poi le Ninfe di Nissa ascosamente Nutrici avesti nel sacrato speco. Ivi crescendo poi d'anni e d'onore, Gl'Ircan, gli Arabi,i Persi,i Battrie gl'Indi Sentir quel che potea quell'alto germe Che ci venne da Giove,e nacque in Tebe. Ma i superbi trionfi, i regni e l'oro, Tanto onor, tanta gloria e tante lodi Ch'indi traesti allor, furon mortali: Ma l'eterna memoria, il divin nome, L'esser chiamato dio, gl'incensi, i voti, Il tirso, i sacrificii, il becco anciso, I satiri, i Silen ti sono intorno, Perchè mostrasti a noi quel sacro frutto, Quel sacro frutto che ciascuno avanza, Quanto il poter divin terrena cosa. Se tu fossi tra lor venuto allora Quando furo a quistion Nettuno e Palla, Non mi contrasti alcun che dal tuo solo La dottissima Atene il nome avrebbe. Chi potrebbe agguagliar con mille voci L'infinita virtù ch' apporta seco Il soave arbor tuo? che di lui privo, Quasi vedovo e sol saria ciascuno? La natura de l' uom più saldo e vero Non ha sostegno alcun; se questo prenda Con misura e ragion, tra 'l molto e 'l poco. Quando più gira il ciel ventoso e fosco; Ch'Apollo è in bando, e le fontane e i fiumi Son legati dal giel, e i monti intorno Mostran canuto il pel, uccello e fera Non si vede apparir, chè stanno ascosi: Chi fa il buon viator sicuro e lieto L'alte nevi stampar, calcar i ghiacci, Se non questo liquor? chi ardente e vivo, Di più d' un lustro antico, e non offeso Da l'onde d'Acheloo, nel più gran verno Può in mezzo l'Appennin portar aprile? 'Quel di.
Poi, quando a noi la rondinella riede, Che vigor, che dolcezza a i corpi e a l'alme Dona il soave vin, ch'a le chiare onde Del rivo cristallin sia fatto sposo! Non ci porta ei ne i cor Ciprigna e Flora? Poi, che Febo, montando, al punto arriva Onde le piagge e i colli in fiamma e in fuoco Torna co' raggi suoi; ch'a pena ardisce Trar la testa di fuor pur il lacerto; Che dolce compagnia, che bel ristoro Si ritrova egli in quel leggiadro e chiaro, Senza fumo e calor, che il fresco e l'acqua Fa di noi penetrar là dove ' questa Gir non può sola, o più sudore apporta! Indi che'l tempo vien ch'ogni arbor mostra Spiegate al ciel le vaghe sue ricchezze Nel tardo autunno; che quel ramo appare Carco d'oro più fin, quell'altro d'ostro; Che dir si può di lui, che solo ha forza D'ammorzar il venen che i pomi han seco?
Già le membra e'l poter del seme umano, Per ciascuna stagion, per ogni etade, Non pur nutre, sostien, conforta, accresce, Ma l'ingegno, il discorso, e l'altre parti Che dell'animo son, risveglia, e rende, Se moderato vien, più acute e pronte. Questo spoglia il timor, riveste ardire, Porta in alto i pensier, pigrizia scaccia; Ne gli può cosa vil restare in seno. Questo ci mostra pian talor il monte Di Pierio, di Pimpla e d'Elicona; E ci conduce ove le Muse e Febo Ci fan dir cose a maraviglia altere. Chiara tromba sovrana, il cui gran suono Di così raro onor il mondo ingombra, Che mille altre cittadi, e Smirna e Rodo, Sol per gloria acquistar, ti chiaman figlio; Tu 'l puoi saper; che lui compagno avesti Per far l'onde sigee sanguigne e'l Xanto, E far troppo aspettar la casta sposa. Or non sa il mondo omai, non è palese, Che questa è la cagion che l'edra antica, Perch'al padre Leneo le tempie cinge, Al santo poetar ghirlanda sia?
Alamanni, Coltivazione, libro III. XXIX. Segni della tempesta e della serenità.
Non sentiam noi, Quando s'arma aquilon per farci guerra, Suonar d'alto romor gran tempo innanz i
Fa penetrare in quella parte di noi, dove.
Le selve alpestri; e minacciar da lunge Con feroce mugghiar Nettuno i liti? I presaghi delfin fuggirsi a schiera Ove il futuro mal men danno apporte E se dall'alto mar con più stese ali Rivolando tornar si sente il mergo, E con roco gridar fra cruccio e tema, D'un non solito suon empier gli scogli; O se l'ingorde folaghe intra loro Sopra il secco sentier vagando stanno; O il montante aghiron, poste in oblio Le native onde sue, paludi e stagni, Consideriam fra noi volando a giuoco Sopra le nubi alzarse 2; allor chi puote Ratto schivar il mar, si tiri al porto; E chi ne sta lontan, ne i voti appelli E Castore e 'l fratel; ch'ei n'ha mestiero. Or dal notturno ciel cader vedrai, Quando il vento è vicin, lucente stella, Di fiammeggiante albor lassando l'orme; Or secchissima fronde, or sottil paglia Gir per l'aria volando; or sopra l'onde Leve piuma apparir vagando in giro. Ma se 'nver l'Aquilon son lampi e fuochi, Se di Zeffiro o di Euro 3 il ciel rintuona; Nuotan le biade allor; nè fia torrente Che non voglia adeguar l'Eufrate e'l Nilo; E bagnandosi i crin, gravose e molli Il turbato nocchier le vele accoglie.
Quanti son gli animai che ti fan segno De la pioggia che vien! L'esterno grue, De le palustri valli al ciel volando, La mostra aperta. Il bue con l'ampie nari, Sollevando la fronte, l'aria accoglie. La rondinella vaga intorno a l'onde S'avvolge e cerca: e dal lotoso albergo Il nojoso garrir la rana addoppia. Or l'accorta formica a ratto corso, Con lunga schiera, a ritrovar l'albergo Intende, e bada a la crescente prole. Puossi, verso il mattin, tra giallo e smorto Talor l'arco veder, che l'onde beve, Per riversarle poi. De i tristi corvi Veggonsi attorno andar le spesse gregge, Di spaventoso suon l'aria ingombrando. Ogni marino uccello, ogni altro insieme Ch'aggia 4 in stagno, in palude, o'n fiume
Sopra il lito scherzar ripien di gioja Veggiam sovente: e chi la fronte attuffa Sott'acqua, e bagna il sen; chi ne l'asciutto
Dalla parte di Zeffiro o d'Euro, 4 Abbia.
S'accorca e s'alza, e ne dimostra aperto Van desio di lavarse 'e dolce speme. Or l'impura cornice a lenti passi Stampar l'arena, e con voci alte e fioche Veggiam sola fra sè chiamar la pioggia.
Ne men la notte ancor sotto il suo tetto La semplice donzella il di piovoso Può da presso sentir, qualor cantando Trae de la rocca sua l'inculta chioma; Che 'l nutritivo umor, montando in cima, De l'ardente lucerna ingombra il lume, E scintillando vien di fungo in guisa.
Cotal si può veder tra l'acqua e i venti Il buon tempo seren ch'appresso viene, A mille segni ancor. Ciascuna stella Mostra il suo fiammeggiar più vago e lieto, E la luna e 'l fratel più chiaro il volto. Non si veggion volar per l'aria il giorno Le leggier foglie; nè sul lito asciutto Spande il tristo alcion le piume al sole: Non con l'immonda bocca il lordo porco Or di paglia or di fien sciogliendo i fasci, Gli getta in alto: e già seggon le nebbie Dentro le chiuse valli, in basso sito: Nè quel notturno uccel ch'Atene onora, Gia spiato del Sol l'ultimo occaso, Di nojoso cantar intuona i tetti. Sentonsi i corvi allor di chiare vori Empier più spesso il ciel; poi lieti insieme, Di dolcezza ripien, per gli alti rami Menar festa tra lor: chè già le piogge Veggion passate, e con desio sen vanno I figli a riveder nel nido ascosi.
Già non voglio io pensar ch'augello e fera Per segreto divin prevegga il tempo Chiaro e fosco che vien, nè sian per fato Di più senno o veder creati al mondo: Ma dove o la tempesta o 'l leve umore Van cangiando il sentier (che'l padre Giove, Or con Austro or con Borea, or grossa or Fa l'aria divenir), gli spirti e l'alme [rara Diversi hanno i pensier; che nascon dentro Dal variar del ciel. Però veggiamo, Quando torna il seren, tra i verdi rami Dolce cantar gli augei, scherzar le gregge, E più lieto apparir cantando il corvo.
Alamanni, Coltivazione, libro VI. XXX, Bellezza di Apollo.
Ma, quale al maggior di la bianca aurora Lieta mostrarsi in oriente suole;
Qual fresca rosa che pur nasce allora, Ne sente ancor come poi punge 1. sole; Qual per le piagge che dipinge l' ôra', Perse, vermiglie e candide viole; Tale e più mi parea, guardando, quello Di ch'io ragiono 2, allor, leggiadro e bello. I capei, che vinceano e l'ambra e l'oro, Scendean nel collo, ch'ogni neve oscura: Vaga ghirlanda pur di verde alloro Copria la fronte sua candida e pura; Candida, quale al suo virgineo coro Suol Diana parer, poi che sicura D'altra vista mortal, tra fiori e fronde Lascia il casto sudor ne le fresch'onde. Alamanni.
XXXI. Gaspara Stampa a Collaltino de'conti di Collaltio.
Deh lasciate, Signor, le maggior cure, D'ir procacciando in questa età fiorita, Con fatiche, o periglio de la vita, Alti pregi, alti onori, alle venture.
E in questi colli, in queste alme e sicure Valli e campagne, dove amor n'invita, Viviamo insieme vita alma e gradita, Fin ch'il Sol de'nostr'occhi al fin s'oscure3. Perchè tante fatiche e tanti stenti Fan la vita più dura; e tanti onori Restan per morte poi subito spenti.
Qui coglieremo a tempo e rose e fiori Ed erbe e frutti; e con dolci concenti Canterem con gli uccelli i nostri amori. Gaspara Stampa.
XXXII. Al medesimo.
Il cor verrebbe teco Nel tuo partir, Signore; S'egli fosse più meco
Poi che con gli occhi tuoi mi prese Amore. Dunque verranno teco i sospir miei; Che sol mi son restati
Fidi compagni e grati;
E le voci e gli omei.
E se vedrai mancarti la lor scorta
Perchè spiri con voglie empie ed acerbe, Facendo guerra a l'onde alte e schiumose, Zefiro, usato sol fra piagge ombrose Mover talor col dolce fiato l'erbe?
Ira si grave, e tal rabbia si serbe' Contr'al gelato verno: or dilettose Sono le rive, e le piante frondose, E di fiori e di frutti alte e superbe.
Deh torna a l'occidente, ove t'invita, Col grembo pien di rose c di viole, A gli usati piacer la bella Clori.
Odi l'ignuda state, che smarrita Di te si duol con gravi alte parole, E pregando ti porta e frutti e fiori.
XXXIV. Sopra un pappagallo che educavasi da una dama.
Vago augelletto da le verdi piume, Che, peregrino, il parlar nostro apprendi, Le note attentamente ascolta e'ntendi, Che Madonna dettarti ha per costume:
E parte 2 dal suave e caldo lume De'suoi begli occhi l'ali tue diffondi; Chè il fuoco lor (se, com'io fei 3, t'accendi) Non ombra o pioggia, e non fontana o
Nè verno allentar può d'alpestri monti; Ed ella, ghiaccio avendo i pensier suoi, Pur de l'incendio altrui par che si goda.
Ma tu da lei leggiadri accenti e pronti, Discepol novo, impara: e dirai poi: Quirina, in gentil cor pietate è loda.
Quel vago prigioniero peregrino, Ch'al suon di vostra angelica parola. Sua lontananza e suo carcer consola; E 'n ciò men del mio fero have 4 destino; Permesso tutto, e 'l bel monte vicino Vincer potrà, non che Calliope sola: Da si dolce maestra, e 'n tale scola Parlar ode ed impara alto e divino. Ben lo prego io ch'attentamente apprenda
Gaspara Stampa. Con quai note pietà si svegli, e come Vera eloquenza un cor gelato accenda. Si dirà poi: che tra si belle chiome
2 Parimente. Insieme. Al medesimo tempo. 3 Feci. 4 Ha. 5 Parnaso.
E'n si begli occhi Amor già mai non scenda, Questo è notte e veneno al vostro nome.
O dolce selva, solitaria, amica De'miei pensieri sbigottiti e stanchi; Mentre Borea, ne'di torbidi e manchi, D'orrido gel l'aere e la terra implica;
E la tua verde chioma, ombrosa, antica, Come la mia, par d'ogn'intorno imbianchi, Or che'n vece di fior vermigli e bianchi, Ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica; A questa breve nubilosa luce Vo ripensando, che mi avanza; e ghiaccio Gli spirti anch'io sento e le membra farsi. Ma più di te dentroe d'intorno agghiaccio: Chè più crudo Euro a me mio verno ad[duce, Più lunga notte, e di più freddi e scarsi. Della Casa.
Questa vita mortal, che 'n una o'n due Brevi e notturne ore trapassa, oscura E fredda, involta avea fin qui la pura Parte di me ne l'atre nubi sue.
Or a mirar le grazie tante tue Prendo: chè frutti e fior, gelo ed arsura, E si dolce del ciel legge e misura, Eterno Dio, tuo magisterio fue '.
Anzi 'l dolce aer puro, e questa luce Chiara, che 'l mondo a gli occhi nostri [scopre,
Traesti tu d'abissi oscuri e misti. E tutto quel che 'n terra o'n ciel riluce, Di tenebre era chiuso, e tu l'apristi; E'l giorno e 'l Sol de le tue man son opre.
XXXVII. Sopra la città di Venezia.
Questi palazzi e queste logge or colte. D'ostro, di marmo, e di figure elette; Fur poche e basse case insieme accolte, Deserti lidi, e povere isolette.
Ma genti ardite, d'ogni vizio sciolte, Premeano il mar con picciole barchette; Che qui, non per domar provincie molte, Ma fuggir servitù, s'eran ristrette.
Non era ambizion ne'petti loro; Ma 'l mentir abborrian più che la morte; Ne vi regnava ingorda fame d'oro.
Se 'l Ciel v'ha dato più beata sorte; Non sien quelle virtù, che tanto onoro, Da le nove ricchezze oppresse e morte.
XXXVIII. Amori pastorali.
Filli, io non son però tanto deforme (Se 'l vero a gli occhi miei quest' acqua Che tu, che sola puoi farmi felice, [dice, Non dovessi talor men fera accorme'.
Non pascon de le mie più belle torme, Nè ha più grassi agnei 2 questa pendice: Ben già, ma non l'intesi, una cornice Predisse il fato al mio voler disforme.
Io vorrei, Filli, sol per queste valli, Senza punto curar d'armento o gregge, Vivermi teco infino a l'ora estrema... Con cui parli, meschin?che pur vanegge 3? Non vedi un lupo là fra quei due calli, Da cui fugge la mandra, e tutta trema?
Pastor, che leggi in questa scorza e in [ quella Filliscritto e Damon che Filli onora; Sappi che tanto fu pietosa allora Filli a Damon, quant'or gli è cruda e fella.
Io pur la chiamo, io pur la prego; ed ella, Misero!, non m'ascolta, e fugge ognora: E quanto fugge più, più m'innamora; E mi par sempre al suo fuggir più bella.
L'altr'ier, menando a ber la greggia al Tutta soletta a piè d'un bianco ulivo [rio, La vidi ch'intessea fragole e fiori:
Ma Licisca abbajò; perch' 4 ella fuori Da gli occhi mi spari si ratta, ch'io Rimasi, e sommi ancor,tra morto e vivo.
Appena potev'io, bella Licori, Giunger da terra i primi rami ancora, Quando ti vidi fanciulletta fuora Gir con tua madre a coglier erbe e fiori.
Possa io morir, se di mille colori Non sentii farmi tutto quanto allora: Ne sapea ancor che fosse amor: ma ora Ben me l'hanno insegnato i miei dolori. Già viss'io presso a te felice e lieto:
Non temer, Carin mo; ch'aperto segno Ne mostra il ciel ch'a glorioso fine I tuoi n'andranno e i miei cortesi ardori. Già sono io teco; e tu, se quelle spine Nol vietan, veder puoi l'alto sostegno, Nape, de la tua vita, apparir fuori.
Questo bianco monton, che da sè torna A la mandria la sera; ov'io l'inchiavo Con le mie mani, e la mattina il cavo, Tosto che a l'oriente il dì s'aggiorna;
Ed ei, l'aer ferendo con le corna, Sen va superbo, e più che un toro bravo; A te, Tirinto mio, pettino e lavo: Nisa dicea, di mille fiori adorna.
Tu que' begli occhi, ov'ha il suo nido A me rivolgi una sol volta lieto, [Amore, Che tutta ti donai l'anima e 'l core,
Poi felice morrò; ch'ogni dolore,
In rimirando te, non pure acqueto, Ma per dolcezza esco di vita fuore.
XXXIX. Sopra la primavera.
Ecco il fiorito aprile, Che scaccia il pigro gelo; E zefiro gentile,
Ch'a l'aere oscuro il velo
Di nebbia toglie, e rasserena il cielo. Cantiam, bifolchi tutti, L'alma stagione amica, Che ne promette i frutti D'ogni nostra fatica,
In questa piaggia dilettosa, aprica: Ove a noi gli arboscelli, Scossi da i vaghi Amori, Spargeranno i capelli De gli odorati fioriz
Che s'aprono al venir de' nuovi albori. Voi che del puro fondo Abitatrici siete
Di queste fonti, il biondo Crin fuor omai traete:
Chè le vostre acque son tranquille e quete. Venite, prego, o Dee Sante, e voi Dei silvestri, Oreadi e Napee;
Venite co'canestri:
Satiri, e voi, co'piè veloci e destri. Tempo è che si ritorni A i dolci usati balli. Fuggono i brevi giorni: E risonar le valli
Fan gliaugelletti, tra fior bianchi e gialli Quanto diletta e piace Questa stagion novella! Però tu, che la face Spregi di Amore, o bella
E più che orsa crudel, mia pastorella; Mentre che primavera Nel tuo bel viso appare, Non gir superba e fera: Ch'a queste dolci e chiare Verran poi dietro l'ore fosche, amare; E di tua vita in breve Porteran seco il verno, E la pioggia e la neve: Unde, oh dolor interno! Te stessa avrai, com' or me lasso, a scherno,
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