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Facilmente s'adira,

Facilmente si placa: e nel suo viso

Vedi quasi in un punto

E le lagrime e 'l riso.

Crespe ha le chiome, e d'oro;

E 'n quella guisa appunto

Che fortuna si pinge,

Datemi, prego, del mio figlio avviso.
Ma voi non rispondete.

Forse tenerlo ascoso a me volete?
Volete, ah folli, ah sciocchi,
Tenere ascoso Amore?
Ma tosto uscirà fuore

Da la lingua e da gli occhi

Ha lunghi e folti in su la fronte i crini, Per mille indizii aperti:

Ma nuda ha poi la testa

A gli opposti confini.

Il color del suo volto

Più che fuoco è vivace.

Ne la fronte dimostra

Una lascivia audace.

Gli occhi infiammati, e pieni
D'un ingannevol riso,

Volge sovente in biechi; epur sott'occhio,
Quasi di furto, mira;

Nè mai con dritto guardo i lumi gira.
Con lingua che dal latte
Par che si discompagni,
Dolcemente favella, ed i suoi detti
Forma tronchi e imperfetti;
Di lusinghe e di vezzi

É pieno il suo parlare;

E son le voci sue sottili e chiare.

Ha sempre in bocca il ghigno;

E gl'inganni e la frode

Sotto quel ghigno asconde,

Tal ch'io vi rendo certi

Ch'avverrà quello a voi, ch'avvenir suole
A colui che nel seno

Crede nasconder l'angue;

Che co'gridi e col sangue alfin lo scopre.
Torquato Tasso.

LIII. Costumi degli uccelli.

Ma come annoverar potrò narrando
De'cari augelli le si varie vite?
L'estrane gru dentro l'adunco piede
Portano 'I sasso onde si folce e libra
Tra l'aure incerte l'agitato volo,
Mentre, ne'giorni nubilosi e brevi,
Lasciand'addietro il Termodonte o l'Ebro,
Passano i larghi mari, e 'n su l'apriche
Sponde soglion vernar de l'ampio Nilo.
Tal per savorra in mar, tra' venti e l' onde
Altre rive cercando ed altre parti,
Regge 'l suo corso la spalmata nave.

Come tra fiori e fronde angue maligno. Queste han di notte sentinelle e scorte,

Questi da prima altrui,

Tutto cortese e umile

A i sembianti ed al volto,

Qual pover peregrino, albergo chiede
Per grazia e per mercede:
Ma, poi che dentro è accolto,
A poco a poco insuperbisce, e fassi
Oltra modo insolente.
Egli sol vuol le chiavi

Tener de l'altrui core;

Egli scacciarne fuore

Che, mentre l'altre in placida quiete
Dormon sicure, van girando intorno,
E le notturne insidie, e i venti e l'aure
Spian da tutte le parti, impigre e pronte:
E poi, fornita quella guardia, e 'l tempo
Di lor vigilia, a suon quasi di tromba
Destan gli addormentati; e gli occhi al
[sonno

Danno per breve spazio: e 'n quella vece
Altri succede al faticoso ufficio.
Una precede le altre, e quasi avanti

Gli antichi albergatori, e 'n quella vece L'alte insegne precorre: e poi si volge

Riceve nuova gente;

Ei far la ragion serva,

E dar legge a la mente,

Così divien tiranno

D'ospite mansueto,

E persegue ed ancide

Chi gli s'oppone e chi gli fa divieto.

Or ch'io v'ho dato i segni

E de gli atti e del viso

E de'costumi suoi;

S'egli è pur qui fra voi,

Nel tempo dato; e la sua sorte, e 'l loco
Che si conviene al duce altrui concede.

Dimostran molto di ragione e d'arte
Le cicogne: e'n tal guisa, al tempo istesso,
Quasi a spiegate insegne, in queste parti
Vengon da più lontano ignoto clima.
E le nostre cornici amica guardia
Lor fanno intorno, in ampio stuol con-
E son fidata scorta al lungo volo [giunte;
Contra la forza de'nemici augelli.
Ed in quella stagione in loco alcuno

Non ci appar la cornice: e poi ritorna
Tinta le piume d'onorate piaghe,
E del già dato ajuto i segni mostra.
Deh chi descrisse lor si certe leggi
Di si pietoso officio? o chi minaccia
Si grave accusa o pur si giuste penè
A chi gli ordini infermi e 'l proprio loco
Per viltate abbandona in guerra o 'n

[campo?

Quinei prendete esempio, egri mortali;
E l'uomo impari da gli augei volanti
Quai de gli ospiti sian le giuste leggi:
Ne chiuda avaro albergator superbo
Le dure porte a'peregrini erranti
A mezza notte, o lor dineghi il cibo;
Se per gli estrani augelli i nostri augelli
Non ricusau d'espor la vita in guerra,
E de'perigli altrui si fan consorti.

Ma la pietosa Provvidenza e cara,
La qual de le cicogne è vecchia mastra,
Destar ben può de figli il dolce amore
Verso gli antichi loro e stanchi padri.
Quelle d'intorno al genitor languente,
A cui per lunga età cadere a terra
Sogliono i vanni e le minute piume,
Stanno pietose; e le già afflite membra,
E nude di pennute e lievi spoglie,
Scaldano al volator lassato e grave
Suavemente, con le proprie penne;
E gli portano 'l cibo ond'ei si pasca.
E sollevano ancora e quinci e quindi
Con l'ale il tardo veglio; e 'nquesta guisa,
Le disusate membra a l'uso antico
Già richiamando, danno ajuto al volo.
Ora prendiam lodato e caro esempio
Di materna pietate; e non si dolga
Di povertate o di miseria alcuno,
Ne della vita sua disperi e pianga;
Mentr'ei riguarda il magistero e l'opra
De la pietosa rondinella industre.
La rondinella, di minuto corpo,
Ma di sublime, egregio, e chiaro affetto,
Povera e bisognosa, il proprio nido
Ella medesma pur compone e finge,
Prezioso vie più di gemme e d'auro;
Perchè d'ogni tesoro è vile il pregio
Allato a quell'albergo ove s'annida
La sapienza. E ben è saggia e scaltra,
Mentr'ella del volar mantiene e serba
La vaga libertate, e nutre e pasce
I pargoletti, ancor teneri, figli
Sicuri da l'insidie e da gli assalti
De gli altri augci, sotto i sublimi tetti

Là dove l'uom ricovra; e per usanza
Al conversar uman così gli avvezza.
È mirabile ancor l'ingegno e l'arte
Ond'a sè stessa le sue proprie case
Fa, senz'aita d'architetto o fabro:
E le festuche pria prepara e sceglie,
E le cosparge di tenace fango
Per congiungerle insieme. E se co'piedi
Non può in alto portar tenero limo,
L'ali d'acqua si sparge, e poi di polve
Arida e leve; ond' ella fa di nuovo
La fangosa materia a l'umil casa.
Con questa quasi colla aggiunge insieme
Le già scelte festuche; e di lor forma
Il nido a'figli. A cui se gli occhi accieca,
Pungendo, alcuno; ella 'l perduto lume
A'ciechi rende con la medic'arte.

L'alcïone, del mar picciolo augello,
Forma di palla in guisa il dolce nido,
D'arido fior che 'l mare in sè produce.
Ei pargoletti figli a mezzo 'l verno
Da la tenera schiude e frale scorza
Ne l'arenose lito, in cui depone
De l'ova il caro suo portato peso.
E questo avvien quando da fieri venti
Il mare a terra si percuote e frange;
E biancheggiando, di canuta spuma
Sparge le molli arene i duri scogli.
De l'alcione al desiato parto
È sopito 'I furor d'orridi venti,
Son quete l'onde tempestose, e 'ntorno
Sgombre le nubi e serenato il cielo:
In si tranquillo e si felice aspetto
De'fidi augelli a la progenie arride.
E 'n sette prima di sì lieti giorni
Snol covar l'uova la pennuta madre,
Ne gli altri sette nutre i nati figli:
Ed a questi ed a quelli ha imposto il nome
Da l'alcione il navigante esperto;
Ed al candor di lucido sereno
Da tutti gli altri gli distingue e segna.

La tortorella, dal su'amor disgiunta,
Non vuol nuovo consorte e nuovo amore,
Ma solitaria e mesta vita elegge
In secco ramo; e'n perturbato fonte
La sete estingue: e del marito estinto
Così rinnova la memoria amara.
A lui sua castità conserva e guarda,
A lui di moglie ancora il caro nome:
Perchè solver non può l'iniqua morte
Le sante leggi di vergogna, e i patti
A cui s'astrinse volontaria in prima.
L'aquila in allevar la nobil prole

Alta rocca a l'imperio, a Giove il tempio? Torquato Tasso,Mondo creato, giornata V.

LIV. Amore degli animali verso i proprii figli.

Amate i padri, o voi pietosi figli; E voi, pietosi padri, i figli amate; Chè natura il v'insegna, e ven costringe. S'ama la leonessa, orrida belva, I pargoletti suoi; se 'l fero lupo Difende i lupicini, e 'nsino a morte Per lor combatte; avrà suoi nati a scherno, Più crudel de le fere, il crudo padre? Tanto rigor, tant'olio e tanto obblio Di natura sarà nel petto umano?

È vie più d'altro disdegnosa e 'ngiusta:
Che, di tre figli, i due porcuote e scaccia
Con gli aspri colpi de' suo' duri vanni;
El terzo alleva, a cui non manchi'l cibo
Che suol rapire il predator volante.
E forse altra cagion più bella e giusta,
Non avarizia del nutrir la spinge;
Ma severo giudicio onde riprova,
Com'a lei non convenga, indegno parto.
Perchè volge i suo' figli inverso 'l sole,
Sospesi in aria ne l'adunco artiglio;
E quel che non dechina a' raggi ardenti
La ripercossa vista e'l debil guardo,
Ma 'ntrepido nel sol l'affisa e ferma,
È scelto a prova; e gli altri aborre e sdegna,
Pur, com'indegni di reale onore,
Con quel suo generoso e gran rifiuto.
Ma gli scacciati entro 'l suo nido accoglie
Quella che rompe l'ossa, e quinci 'l nome
Prende (od aquila sia bastarda, e nata
Di genitor deforme, od altro augello);
Ne gli lascia perir d'orrida fame,
Ma, co' suo' figli, lor nutrisce e serba.
Etutti quei ch'hanno l'artiglio adunco,
Allorch' i figli timidetti il volo
Tentan primiero, spiegan l'ale appena,
Con mal sicure ancora e 'ncerte penne;
Gli spingon tosto dal paterno nido:
E s'alcuno al partir è tardo o lento,
Con l'ali sue percosso e ripercosso
Precipitando 'I caccia il fiero padre.
Ma verso i figli suoi l'amore e 'l zelo
De la cornice assai di laude è degno:
Che 'n atto di pietosa e fida madre,
Raffrena nel lor primo ardito volo
La debil prole; e lor ministra il cibo
Lunga stagion, perchè s'avanzi e cresca.
Debbo anco dir come ti svegli a l'opre
Di canoro augellin l'acuta voce, [desta
Che lunge intuona, e 'l Sol richiama, e
Il peregrin, e 'l buon cultor ne' campi,
L'uno al suo faticoso aspro viaggio,
L'altro a secar le già mature spiche?
O dir come ne rompa il dolce sonno,
E n' inviti a vegghiar con fida guardia,
Il tardo augel che già sottrasse al risco
La gran città, del mondo alta regina,
A lei scoprendo la notturna fraude,
E'l Barbaro crudel, ne l'ombra occulto,
Che per oscure vie saliva in alto
A quel suo trionfale altero monte,
Ove già sorse in maestate augusta

O del materno amor soave e dolce Forza, che pieghi la feroce tigre, E da la preda, a cui vicina e stanca Corre anelando, la rivolgi indietro A la difesa de' suoi cari parti ! Com' ella trova depredato e sgombro Ii suo covil de la gradita prole, Repente corre, e le vestigia impresse Preme del cacciator che seco porta La cara preda. E quel rapido innanzi Fugge, portato dal destrier corrente: E per sottrarsi a la veloce belva [po), (Ch'altra fuga non giova, od altro scamCon questa fraude d'ingegnoso ordigno Delude la rabbiosa, e sè difende. Perchè di trasparente e chiaro vetro Una palla le getta innanzi a gli occhi: Onde, schernita da la falsa immago, La si crede sua prole; e ferma il corso, E l'impeto raffrena; e 'l dolce parto Brama raccor nel solitario calle, E riportarlo a la sua fredda cava : E rivenuta pur dal falso inganno De le mentite forme, anco ritorna (Ma più veloce assai, ch'ira l'affretta) Dietr'a quel predator, ch' innanzi fugge; E gli sovrasta omai rabbiosa al tergo. Ma quel di nuovo, col fallace objetto De lo speglio bugiardo, affrena e tarda Il corso de la tigre; e si dilegua. Ne da la madre per obblio si perde La sollecita cura e 'l pront' amore: Ma l'infelice si raggira intorno A quella vana e 'ngannatrice immago, Quasi dar voglia a'proprii figli il latte. E 'n questa guisa la schernita belva La cara prole, e la vendetta ancora

Perde in un tempo, ch'e bramata e dolce. Quand' ei mirò dal gran Francesco ' op

E se 'n tal guisa suol amar la tigre, O la consorte del leon superbo O del famelic' orso, i proprii figli; Qual meraviglia fia s'amar vedrassi La mansueta ed innocente agnella, E la cerva selvaggia e fuggitiva, Il dianzi nato, ancor tenero parto? Fra molte pecorelle in ampia mandra Il semplicett'agnel, scherzando a salti, Esce dal chiuso ovile; e di lontano Ei riconosce la materna voce. E ricercando del suo proprio latte I dolci fonti, affretta il debil corso: E dove sian le desiate mamme Vote del proprio umore, ei se n'appaga, Ne sugge l'altre più gravose e piene, Ma le tralascia; e 'l suo dovuto cibo Sol da la madre sua ricerca e brama. La madre il dolce e pargoletio figlio, Fra mille e mille, al suo belar conosce. In questa guisa, di ragion sublime Ogni difetto un largo senso adempie, Che per natura in umil greggia abbonda, Forse acuto vie più del nostro ingegno. Ma nel suo partorir solinga cerva Mostra vie più d'accorgimento e d'arte, D'altr'animal in cui sia parte o seme Di providenza, e di ragione industre. Però piuttosto a la pietade umana De'suoi cerbiatti crede il nuovo parto, Ch' a le fere tremende; e l'aspre rupi, E le selvagge lustre, e i lochi inculti Fugge la paurosa; e dove scorge De'piedi umani le vestigia impresse, Press' a le vie da lor calcate e corse, Ivi sicura il suo portato espone; One le stalle si ricovra, e scampa Gli artigli e i denti di selvaggia belva; O dura cuna in rotta pietra elegge Là dove s'apre un solo e picciol varco, Ei pargoletti suoi difende e guarda. Torquato Tasso, Mondo creato, giorn. VI.

[ porre I Collegati a' suoi, già incauti e lassi ; Che ne gli ordini lor passando avanti, Sparsi e turbati fu da' Greci erranti 2

Come carca di prede armata nave, Che trascorrea del mar tranquillo il seno Quand'ebbe destra l'aura e più soave, E queta l'onda intorno, e 'l ciel sereno; Poichè si turba, e minaccioso e grave Austro gl'innalza incontra il mar tirreno, Teme, nel prender porto, occulto scoglio, Ne può sforzar de' venti il fero orgoglio;

Cosi parea quest'oste allor, confusa Dal suo timore e per li duci incerti. Altri di terra ben munita e chiusa, Altri più fida in suoi guerrieri esperti : Il magnanimo re fuggir ricusa 1! periglio e l'onor de'lochi aperti; Nè vuol con l'oro aprir la dubbia strada, Ma con la sua fatale invitta spada.

Porta e riporta invano il fido araldo Minacce e vanti, e 'nvan promesse e pre[ghi ;

Ch'ogni core al suo pro costante e saldo, Non avvvien che si mova alquanto o pie[ ghi.

Già scioglieva i torrenti il sol più caldo,
I quali il verno par che stringa e leghi ;
E'l Taro distendea turbato e presto
Il corso allor fra quel nemico e questo.

A destra il re tenea gli eccelsi poggi, Spiegando al ciel la trionfale insegna; Ed a qualunque a lui d' incontro alloggi Già signoreggia d'alta parte e regna. L'altro, se vuol passar, convien che poggi Su l'erte sponde: e'l suo tardar disdegna, Ne stima il dubbio letto e 'l giro obbli

[quo

Del fiume, o'lloco a tanta guerra iniquo.

3

I Padri in alta impresa e gravi e tardi, Ch'indugiando acquistar provincie e fama, Esteser fra gli Argivi e fra i Lombardi Il giusto imperio che s'onora ed ama 3; LV. La battaglia del Taro, fra le Lentaro il freno a' suoi guerrier gagliardi, genti di Carlo ottavo, re di Fran- Ed a quella di gloria ardente brama : cia, e quelle de' Confederati ita- E parve il gran Francesco in mezzo al liani. [ campo, E ne' detti e ne l'opre, acceso lampo.

Giunt'era dove il Taro al Po sen corre I re, cui d'aspri monti orridi sassi, città chiusa d'alte mura, o torre, ✪ schiere armate non serraro i passi:

'Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, generale dei Veneziani.

2 Dagli stradiotti dei Veneziani.
3 Vuol dire il senato veneto.

Dicea: partirà dunque omai sicuro Questi che fugge Italia; anzi la porta Presa oltra l'Alpe; ove aspro giogo e [duro Già le prepara, e legge iniqua e torta? Quasi ladron notturno, al cielo oscuro, Che serrato non trovi od uscio o porta, Porterà le corone e gli aurei fregi E tante prede di spogliati regi?

E potrem noi soffrir che pur ritorni, Di là da' suoi nevosi orridi monti, Ove le sue vittorie, e i nostri scorni, E gli oltraggi d'Italia altrui racconti ? Ne sarà chi'l ritardi, o chi'l distorni; Ne chi l'assalga, o 'l fuggitivo affronti; Perch' ei salvi sue prede, e quella turba, Che, poco riposando, altrui perturba ?

Star non potran fra l'Alpi e fra Pirene, Quai fere chiuse entro selvaggi chiostri? Ma parran turbo di volanti arene, O gran diluvio, sopra i campi nostri? Tronchiamo al ritornar l'ardita spene; E qui ciascuno il suo valor dimostri; E l'italico onor, ch'è quasi estinto, Per voi risorga, vincitor di vinto.

Numero lor non vi spaventi, o forza Impetuosa; che poi langue e manca. Carchi di preda più che d'armi, a forza Faran qui guerra: e già lor furia è stanca; Già di fuggir, non di pugnar, si sforza, Già presa è dal timor la gente Franca. Prendiam la Francia or ne l'Italia al varco, Col re, che non sostiene il proprio incarco. Passiam per questo fiume, il qual fre[mendo,

Da la vittoria i suoi scevra e diparte;
Ch'io sono vosco al guado,e vosco ascendo:
Seguiran gli altri, de la gloria a parte.
Così diss'egli, e con un suono orrendo
Fiammeggiar tutti i folgori di Marte,
Ed in quel tempo risonar le trombe;
Onde avvien che la terra e'l ciel rimbom-
[be.
Scendeano i Franchi intanto; e, 'n guisa
[d'ale,
Stendeansi i primi a quel corrente fiume;
E'l gran Trivulzio, a cui di gloria eguale
Pochi l'età famosa oppor presume,
Facea la scorta al re, già lasso e frale,
Ch'or vincea sua natura e suo costume,
Ma i nostri pria varcàr dal lato destro
In quel guado sassoso, e quasi alpestro.
1 Rimbombi.

Ritardo 'l fiume il corso, e'l novo limo Fe dubbii i passi, e le vestigia incerte. Languendo, al trapassar, vacilla il primo Sforzo, cui rapid'onda in sè converte. L'arme vibrar l'assalitor da l'imo Per le rive non può scoscese ed erte: Ma d'alto il difensor percuote a basso : Talch'è varco di morte il duro passo.

Spuma il torrente, e di sanguigno flutto Gonfio, vie più veloce al Po discende. Ma virtù soffre alfine e vince il tutto, E per contrasto avanza e più risplende; Ed usciria di Stige al lido asciutto, E da quell'onde ch'atra fiamma accende; Onde, poggiando, alfin le rive ingombra: E 'n tre lati si pugna, e 'n mezzo a l'om[ bra.

Fra le piante impedito, iniquo e scarso Campo ha 'l valor de'nostri, e meno ap[ pare: Ma di lor sangue, ond' è 'l terreno sparso, Non fur quell'alme gloriose avare: Quando Francesco a gli animosi apparso, Vento sembrò, che 'l ciel perturbi e 'l [ mare,

E volga a forza a le contrarie sponde, Contra 'l corso primier, le nubi e l'onde.

Al primo ch'incontrò, l'invitta lancia Trapassa il petto e poi fra gli altri fere', Tanto che s'apre il passo al re di Francia, Fra i colpi e l'armi de l'avverse schiere. E s' a'meriti altrui giusta bilancia Ha 'l sommo Re de le celesti sfere, Quel dì, ch'ei tanto fece, e più sostenne, Corona d'alta gloria a lui convenne.

In poco spazio fe mirabil cose Incontra Carlo e 'l suo drappel gagliardo. Che dirò prima o poscia? A morte ei pose, Trafitto da sua spada, il gran Bastardo ; E qual de gli altri al suo valor s'oppose, Parve a fuggir la morte e lento e tardo; E spogliata lasciò la fronte e 'l lato Di sue forti difese al re turbato.

Voi, Muse, voi corone e rime ordite (Perche'l mio canto a tal rimbombo è roco), Cantando voi com'ei le schiere ardite Percosse, ruppe e sparse in alto loco, Laddove uscir da la profonda Dite Pareano i fiumi del sulfureo foco; E, giunto in mezzo a la sonora fiamma, Quell'incendio cessò, che 'l mondo infiam[ma.

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