Facilmente s'adira, Facilmente si placa: e nel suo viso Vedi quasi in un punto E le lagrime e 'l riso. Crespe ha le chiome, e d'oro; E 'n quella guisa appunto Che fortuna si pinge, Datemi, prego, del mio figlio avviso. Forse tenerlo ascoso a me volete? Da la lingua e da gli occhi Ha lunghi e folti in su la fronte i crini, Per mille indizii aperti: Ma nuda ha poi la testa A gli opposti confini. Il color del suo volto Più che fuoco è vivace. Ne la fronte dimostra Una lascivia audace. Gli occhi infiammati, e pieni Volge sovente in biechi; epur sott'occhio, Nè mai con dritto guardo i lumi gira. É pieno il suo parlare; E son le voci sue sottili e chiare. Ha sempre in bocca il ghigno; E gl'inganni e la frode Sotto quel ghigno asconde, Tal ch'io vi rendo certi Ch'avverrà quello a voi, ch'avvenir suole Crede nasconder l'angue; Che co'gridi e col sangue alfin lo scopre. LIII. Costumi degli uccelli. Ma come annoverar potrò narrando Come tra fiori e fronde angue maligno. Queste han di notte sentinelle e scorte, Questi da prima altrui, Tutto cortese e umile A i sembianti ed al volto, Qual pover peregrino, albergo chiede Tener de l'altrui core; Egli scacciarne fuore Che, mentre l'altre in placida quiete Danno per breve spazio: e 'n quella vece Gli antichi albergatori, e 'n quella vece L'alte insegne precorre: e poi si volge Riceve nuova gente; Ei far la ragion serva, E dar legge a la mente, Così divien tiranno D'ospite mansueto, E persegue ed ancide Chi gli s'oppone e chi gli fa divieto. Or ch'io v'ho dato i segni E de gli atti e del viso E de'costumi suoi; S'egli è pur qui fra voi, Nel tempo dato; e la sua sorte, e 'l loco Dimostran molto di ragione e d'arte Non ci appar la cornice: e poi ritorna [campo? Quinei prendete esempio, egri mortali; Ma la pietosa Provvidenza e cara, Là dove l'uom ricovra; e per usanza L'alcïone, del mar picciolo augello, La tortorella, dal su'amor disgiunta, Alta rocca a l'imperio, a Giove il tempio? Torquato Tasso,Mondo creato, giornata V. LIV. Amore degli animali verso i proprii figli. Amate i padri, o voi pietosi figli; E voi, pietosi padri, i figli amate; Chè natura il v'insegna, e ven costringe. S'ama la leonessa, orrida belva, I pargoletti suoi; se 'l fero lupo Difende i lupicini, e 'nsino a morte Per lor combatte; avrà suoi nati a scherno, Più crudel de le fere, il crudo padre? Tanto rigor, tant'olio e tanto obblio Di natura sarà nel petto umano? È vie più d'altro disdegnosa e 'ngiusta: O del materno amor soave e dolce Forza, che pieghi la feroce tigre, E da la preda, a cui vicina e stanca Corre anelando, la rivolgi indietro A la difesa de' suoi cari parti ! Com' ella trova depredato e sgombro Ii suo covil de la gradita prole, Repente corre, e le vestigia impresse Preme del cacciator che seco porta La cara preda. E quel rapido innanzi Fugge, portato dal destrier corrente: E per sottrarsi a la veloce belva [po), (Ch'altra fuga non giova, od altro scamCon questa fraude d'ingegnoso ordigno Delude la rabbiosa, e sè difende. Perchè di trasparente e chiaro vetro Una palla le getta innanzi a gli occhi: Onde, schernita da la falsa immago, La si crede sua prole; e ferma il corso, E l'impeto raffrena; e 'l dolce parto Brama raccor nel solitario calle, E riportarlo a la sua fredda cava : E rivenuta pur dal falso inganno De le mentite forme, anco ritorna (Ma più veloce assai, ch'ira l'affretta) Dietr'a quel predator, ch' innanzi fugge; E gli sovrasta omai rabbiosa al tergo. Ma quel di nuovo, col fallace objetto De lo speglio bugiardo, affrena e tarda Il corso de la tigre; e si dilegua. Ne da la madre per obblio si perde La sollecita cura e 'l pront' amore: Ma l'infelice si raggira intorno A quella vana e 'ngannatrice immago, Quasi dar voglia a'proprii figli il latte. E 'n questa guisa la schernita belva La cara prole, e la vendetta ancora Perde in un tempo, ch'e bramata e dolce. Quand' ei mirò dal gran Francesco ' op E se 'n tal guisa suol amar la tigre, O la consorte del leon superbo O del famelic' orso, i proprii figli; Qual meraviglia fia s'amar vedrassi La mansueta ed innocente agnella, E la cerva selvaggia e fuggitiva, Il dianzi nato, ancor tenero parto? Fra molte pecorelle in ampia mandra Il semplicett'agnel, scherzando a salti, Esce dal chiuso ovile; e di lontano Ei riconosce la materna voce. E ricercando del suo proprio latte I dolci fonti, affretta il debil corso: E dove sian le desiate mamme Vote del proprio umore, ei se n'appaga, Ne sugge l'altre più gravose e piene, Ma le tralascia; e 'l suo dovuto cibo Sol da la madre sua ricerca e brama. La madre il dolce e pargoletio figlio, Fra mille e mille, al suo belar conosce. In questa guisa, di ragion sublime Ogni difetto un largo senso adempie, Che per natura in umil greggia abbonda, Forse acuto vie più del nostro ingegno. Ma nel suo partorir solinga cerva Mostra vie più d'accorgimento e d'arte, D'altr'animal in cui sia parte o seme Di providenza, e di ragione industre. Però piuttosto a la pietade umana De'suoi cerbiatti crede il nuovo parto, Ch' a le fere tremende; e l'aspre rupi, E le selvagge lustre, e i lochi inculti Fugge la paurosa; e dove scorge De'piedi umani le vestigia impresse, Press' a le vie da lor calcate e corse, Ivi sicura il suo portato espone; One le stalle si ricovra, e scampa Gli artigli e i denti di selvaggia belva; O dura cuna in rotta pietra elegge Là dove s'apre un solo e picciol varco, Ei pargoletti suoi difende e guarda. Torquato Tasso, Mondo creato, giorn. VI. [ porre I Collegati a' suoi, già incauti e lassi ; Che ne gli ordini lor passando avanti, Sparsi e turbati fu da' Greci erranti 2 Come carca di prede armata nave, Che trascorrea del mar tranquillo il seno Quand'ebbe destra l'aura e più soave, E queta l'onda intorno, e 'l ciel sereno; Poichè si turba, e minaccioso e grave Austro gl'innalza incontra il mar tirreno, Teme, nel prender porto, occulto scoglio, Ne può sforzar de' venti il fero orgoglio; Cosi parea quest'oste allor, confusa Dal suo timore e per li duci incerti. Altri di terra ben munita e chiusa, Altri più fida in suoi guerrieri esperti : Il magnanimo re fuggir ricusa 1! periglio e l'onor de'lochi aperti; Nè vuol con l'oro aprir la dubbia strada, Ma con la sua fatale invitta spada. Porta e riporta invano il fido araldo Minacce e vanti, e 'nvan promesse e pre[ghi ; Ch'ogni core al suo pro costante e saldo, Non avvvien che si mova alquanto o pie[ ghi. Già scioglieva i torrenti il sol più caldo, A destra il re tenea gli eccelsi poggi, Spiegando al ciel la trionfale insegna; Ed a qualunque a lui d' incontro alloggi Già signoreggia d'alta parte e regna. L'altro, se vuol passar, convien che poggi Su l'erte sponde: e'l suo tardar disdegna, Ne stima il dubbio letto e 'l giro obbli [quo Del fiume, o'lloco a tanta guerra iniquo. 3 I Padri in alta impresa e gravi e tardi, Ch'indugiando acquistar provincie e fama, Esteser fra gli Argivi e fra i Lombardi Il giusto imperio che s'onora ed ama 3; LV. La battaglia del Taro, fra le Lentaro il freno a' suoi guerrier gagliardi, genti di Carlo ottavo, re di Fran- Ed a quella di gloria ardente brama : cia, e quelle de' Confederati ita- E parve il gran Francesco in mezzo al liani. [ campo, E ne' detti e ne l'opre, acceso lampo. Giunt'era dove il Taro al Po sen corre I re, cui d'aspri monti orridi sassi, città chiusa d'alte mura, o torre, ✪ schiere armate non serraro i passi: 'Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, generale dei Veneziani. 2 Dagli stradiotti dei Veneziani. Dicea: partirà dunque omai sicuro Questi che fugge Italia; anzi la porta Presa oltra l'Alpe; ove aspro giogo e [duro Già le prepara, e legge iniqua e torta? Quasi ladron notturno, al cielo oscuro, Che serrato non trovi od uscio o porta, Porterà le corone e gli aurei fregi E tante prede di spogliati regi? E potrem noi soffrir che pur ritorni, Di là da' suoi nevosi orridi monti, Ove le sue vittorie, e i nostri scorni, E gli oltraggi d'Italia altrui racconti ? Ne sarà chi'l ritardi, o chi'l distorni; Ne chi l'assalga, o 'l fuggitivo affronti; Perch' ei salvi sue prede, e quella turba, Che, poco riposando, altrui perturba ? Star non potran fra l'Alpi e fra Pirene, Quai fere chiuse entro selvaggi chiostri? Ma parran turbo di volanti arene, O gran diluvio, sopra i campi nostri? Tronchiamo al ritornar l'ardita spene; E qui ciascuno il suo valor dimostri; E l'italico onor, ch'è quasi estinto, Per voi risorga, vincitor di vinto. Numero lor non vi spaventi, o forza Impetuosa; che poi langue e manca. Carchi di preda più che d'armi, a forza Faran qui guerra: e già lor furia è stanca; Già di fuggir, non di pugnar, si sforza, Già presa è dal timor la gente Franca. Prendiam la Francia or ne l'Italia al varco, Col re, che non sostiene il proprio incarco. Passiam per questo fiume, il qual fre[mendo, Da la vittoria i suoi scevra e diparte; Ritardo 'l fiume il corso, e'l novo limo Fe dubbii i passi, e le vestigia incerte. Languendo, al trapassar, vacilla il primo Sforzo, cui rapid'onda in sè converte. L'arme vibrar l'assalitor da l'imo Per le rive non può scoscese ed erte: Ma d'alto il difensor percuote a basso : Talch'è varco di morte il duro passo. Spuma il torrente, e di sanguigno flutto Gonfio, vie più veloce al Po discende. Ma virtù soffre alfine e vince il tutto, E per contrasto avanza e più risplende; Ed usciria di Stige al lido asciutto, E da quell'onde ch'atra fiamma accende; Onde, poggiando, alfin le rive ingombra: E 'n tre lati si pugna, e 'n mezzo a l'om[ bra. Fra le piante impedito, iniquo e scarso Campo ha 'l valor de'nostri, e meno ap[ pare: Ma di lor sangue, ond' è 'l terreno sparso, Non fur quell'alme gloriose avare: Quando Francesco a gli animosi apparso, Vento sembrò, che 'l ciel perturbi e 'l [ mare, E volga a forza a le contrarie sponde, Contra 'l corso primier, le nubi e l'onde. Al primo ch'incontrò, l'invitta lancia Trapassa il petto e poi fra gli altri fere', Tanto che s'apre il passo al re di Francia, Fra i colpi e l'armi de l'avverse schiere. E s' a'meriti altrui giusta bilancia Ha 'l sommo Re de le celesti sfere, Quel dì, ch'ei tanto fece, e più sostenne, Corona d'alta gloria a lui convenne. In poco spazio fe mirabil cose Incontra Carlo e 'l suo drappel gagliardo. Che dirò prima o poscia? A morte ei pose, Trafitto da sua spada, il gran Bastardo ; E qual de gli altri al suo valor s'oppose, Parve a fuggir la morte e lento e tardo; E spogliata lasciò la fronte e 'l lato Di sue forti difese al re turbato. Voi, Muse, voi corone e rime ordite (Perche'l mio canto a tal rimbombo è roco), Cantando voi com'ei le schiere ardite Percosse, ruppe e sparse in alto loco, Laddove uscir da la profonda Dite Pareano i fiumi del sulfureo foco; E, giunto in mezzo a la sonora fiamma, Quell'incendio cessò, che 'l mondo infiam[ma. |